domenica 1 febbraio 2004

Marco Bellocchio


La Repubblica 29.2.04
NASTRI D'ARGENTO
8 nomination per Giordana, Virzì e Bellocchio


ROMA - Con otto nomination a testa i film di Bellocchio (Buongiorno, notte), Marco Tullio Giordana (La meglio gioventù) e Virzì (Caterina va in città) hanno fatto l´en plein nelle candidature del Nastri d´argento 2004. Sono inseguiti da Cantando dietro i paraventi di Olmi (7 candidature) e da Il ritorno di Cagliostro di Ciprì e Maresco e Perduto amor di Franco Battiato (5 ciascuno). La cerimonia si svolgerà al Teatro Antico di Taormina, al TaorminaBnlFilmfestival, il 19 giugno.

psichiatria darwiniana?

Il Sole 24 ore Domenicale 29.2.04
L'approccio evoluzionistico alle malattie mentali, un antidoto ai dogmatismi del legislatore
La depressione? Curiamola con Darwin
di Gilberto Corbellini


Una persona su quattro sul pianeta viene colpita in qualche momento della vita da un disturbo psichiatrico o neurologico. Le stime dell'Oms dicono che oltre mezzo miliardo di persone soffre di disturbi mentali o neurologici, e prevedono che nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di disabilità a livello mondiale (al primo posto ci saranno le malattie cardiovascolari). Gli Stati Uniti valutano in 148 miliardi di dollari all'anno il costo economico dei disturbi neurologici e psichiatrici. Insomma, le malattie mentali sono un'emergenza sanitaria. E forse ne è prova il fatto che sono già argomenti di abuso giornalistico.
Per affrontare l'emergenza "depressione" nei giorni scorsi è stato anche presentato alla Camera un disegno di legge sulle «malattie psichiche». A parte la stima d italiani depressi, che non si capisce su quali basi clinico epidemiologiche sia stata fatta e che induce all'amara considerazione che da popolo di «eroi, poeti e navigatori» ci staremmo riducendo a un popolo di depressi, dalla lettura dei testo e dai commenti di alcuni autorevoli psichiatri sembrerebbe che la psichiatria abbia in pratica raggiunto una comprensione dell'eziopatogenesi e della clinica delle malattie mentali paragonabile a quella delle malattie infettive. Il che non è vero. È quindi auspicabile che si metta bene in chiaro che non si vuole medicalizzare anche ogni forma di difficoltà personale o comportamentale, più o meno clinicamente riconoscibile e spesso del tutto naturale. E che in ogni caso, l'azione medica dovrà mirare a un potenziamento dell'autonomia decisionale delle persone, non a inventare nell'interesse della "collettività" fittizi e pericolosi criteri prescrittivi per un «accertamento sanitario obbligatorio».
Speriamo anche che la psichiatria migliori rapidamente il proprio statuto scientifico, avvalendosi delle tanto attese ricadute della ricerca molecolare e delle tecnologie del brain imaging. Oggi gli psichiatri dispongono di trattamenti farmacologici che danno buoni risultati in una significativa percentuale di casi, ma di fatto mancano di criteri diagnostici validamente fondati. In un fascicolo di «Science» dell'ottobre scorso questa attesa viene analizzata per quanto riguarda ad esempio una possibile radicale revisione dei Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il testo clinico di riferimento mondiale. Finora il suo successo è dipeso dalla scelta di definire le malattie attraverso un elenco di sintomi che consentono di applicare una particolare etichetta diagnostica al paziente quando questi presenta un numero sufficiente dei manifestazioni associate alla malattia. Ovvero dalla decisione presa due decenni fa (Dsm-III) di evitare ogni riferimento a ipotetici meccanismi causali della malattia, che allora non avrebbe trovato d'accordo due psichiatri. Una parte degli psichiatri statunitensi ritiene sia venuto il momento di introdurre criteri genetici, neuro biologici, comportamentali e terapeutici per migliorare l'efficacia diagnostica.
Dato il contesto, il libro di McGuire e Troisi disponibile in edizione italiana a cinque anni dalla pubblicazione di quella inglese, si propone come una della novità e degli stimoli culturali più importanti per la psichiatria da diversi decenni a questa parte. Non è un testo facile. Ma è ben scritto e argomentato, nonché straordinariamente ricco e originale a livello teorico. Con spunti interessanti anche sul piano clinico. Se una critica viene da muovergli, a scopo dialettico, è che risulta un po' troppo condizionato da un'impostazione etologica. Se questo da una parte lo salva dalle banalizzazioni di certa psicologia evoluzionistica e di certi ideologismi riduzionistici, dall'altra riduce la capacità di cogliere negli sviluppi di alcuni approcci neuroscientifici delle importanti corrispondenze con la fenomenologia comportamentale colta all'interno della cornice darwiniana.
Gli autori propongono una complesso quadro teorico che pone attenzione ai meccanismi psicologici, all'analisi funzionale, alle emozioni e al ruolo della comunicazione e del riconoscimento. Quadro puristicamente ricco e in grado di fornire spiegazioni plausibili dei disturbi mentali a livelli multipli e complementari. I modelli di comportamento normale e anormale vengono elaborati a partire da concetti presi non solo dalla teoria draconiana dell'evoluzione ma anche dall'etologia cognitiva e dalle scienze della comunicazione. Per mostrare come l'approccio evoluzionistico fornisca le basi per comprendere il comportamento quotidiano e molti aspetti dei disturbi mentali.
La grande utilità di un approccio darwiniano alla malattia mentale sta nel richiamare l'attenzione degli psichiatri sulla variabilità individuale dei tratti comportamentali, non solo quelli normali ma anche quelli cosiddetti patologici. Ovvero a metterli in guardia circa il fatto che l'unico criterio valido per distinguere trai salute e malattia mentale implica una valutazione della funzionalità di una particolare strategia comportarnentale rispetto a un contesto. Nel giudicare le capacità funzionali non si può quindi non tener conto dell'ambiente in cui l'individuo vive. Sofferenza, devianza dalla norma statistica e lesione fisica sono correlati frequenti delle malattie mentali ma, in assenza di conseguenze "disfunzionali", nessuno di questi criteri è sufficiente per considerare una condizione psicologica o comportamentale come una malattia psichiatrica.
Una corretta applicazione dell'evoluzionismo in psichiatria, come in ogni altro settore della medicina, non porta alla conclusione che l'intervento terapeutico deve limitarsi alle condizioni che mettono a rischio l'adattamento biologico. Lo scopo principale della medicina è alleviare le sofferenze individuali. Ma per riuscire bene in questo obiettivo, bisogna avere ben presente come le pressioni selettive che hanno agito nel corso della filogenesi hanno plasmato la nostra fisiologia organica dal livello biochimico a quello comportamentale. Ansia, depressione, disturbi della personalità non sono entità cliniche associabili a cause immediate specifiche, né sono tratti necessariamente svantaggiosi in quanto hanno verosimilmente anche delle cause remote (evolutive). Ne consegue che si possono anche fare dei danni se si pretende di definire un disturbo mentale credendo di disporre di una legge patologica per discriminare tra una terapia giusta e una sbagliata. in tal senso, sarebbe auspicabile che gli psichiatri e gli psicologi familiarizzassero con il pensiero darwiniano, che suggerisce cautela e pragmatismo nella scelta delle strategie terapeutiche. Ma soprattutto rilancia su basi concettuali nuove e del tutto plausibili la riflessione teorica, e quindi anche la ricerca psichiatrica.

Michael T. McGuire e Alfonso Troisi, «Psichiatria darwiniana», Giovanni Fioriti Editore, Roma 2003, pagg. 424, euro 32,00

vendette

La Stampa Tuttolibri 28.2.04
MILLENNI DI FAIDE PIU’ O MENO FAMOSE, DA ACHILLE ALLE DEE OFFESE DI OVIDIO, DA MEDEA A BUSH CHE SI SENTE AGAMENNONE, SINO AI FILM DI TARANTINO
di Bruno Ventavoli


PER qualcuno è un piatto freddo. Per altri un diluvio di torride efferatezze. Per Antonio Fichera la straordinaria occasione di spulciare la più antica e tenace delle passioni umane. Architetto di formazione, con eroica pazienza, ha compilato una "Breve storia della vendetta" (Castelvecchi, pp. 360, euro 18) che attinge al mito, alla letteratura, al cinema. Un libro sorprendente e gustoso, dove millenni di faide, più o meno famose, si intrecciano con un imponente apparato di suggerimenti bibliografici per costruirsi infiniti percorsi paralleli nel labirinto della furia umana. All'inizio dei tempi, in Egitto, c'era il giusto Osiris, dio della natura. Il fratello malvagio Seth lo uccise con l'inganno e disseminò il corpo smembrato in 14 luoghi lontani. Isis, moglie fedele, riuscì a ricomporre il marito e, infondendogli un non meglio definito soffio vitale, generò Horus. Il piccolo ebbe naturalmente un'infanzia difficile, ricercato dai nemici. Ma l’odio dei cattivi lo corroborò, crebbe forte, intelligente, giusto, con lo scopo di vendicare il torto subito dai genitori. Naturalmente ci riuscì. Prima evirò l'odiato avversario, poi infierì. E divenne il primo faraone d'Egitto, legittimando il suo regno con la sacrosanta vendetta.
Dopo la macabra impresa dell'egizio il catalogo è infinito. Achille offeso che cerca risarcimento per la schiava Briseide, il sovrano delle Mille e una notte che uccide le donne per dimenticare il tradimento della prima moglie finché non si lascia sedurre dai racconti di Sharazad, lo sdegno di Rosemunda costretta a brindare col teschio del padre. Vendette che servono a costruire imperi, come quello dei romani, che infierivano sui vinti consci che nulla è più dolce del supplizio inflitto a quelli che temevi. Vendette giustificate con le leggi di Dio, dai taglioni biblici a quelli islamici a quelli del Kanun albanese. Vendette disciplinate degli orientali, dagli eroi del Mahabarata ai samurai del Giappone. Le vendette cruente e disperate della mitologia nordica, quelle terragne del Decamerone, quelle intricate delle corti rinascimentali, quelle spietate dei papi contro i papi o contro gli eretici attraverso l'Inquisizione, quelle degli artisti contro i maestri, le accademie, i rivali. Vendette di dei, guerrieri, borghesi piccoli piccoli, incompresi, emarginati, sfortunati, scienziati pazzi, segretarie, poliziotti, deputati, dandy, madri, cavalieri, innamorati. Ripicche, punizioni, nemesi, rappresaglie, ritorsioni, beffe, duelli, massacri. Dall'alba dell'umanità l’arte della vendetta si è tramandata di padre in figlio come la ricetta del pane. In un’eterna, vana, lotta tra la perseveranza della memoria e la levità dell’oblio. La vendetta ha molte anime, molti scopi, molte giustificazioni. Ed è anche molto femmina. Gli esseri soprannaturali più furiosi e vendicativi erano, non a caso, le Erinni. Ovidio, con le sue Metamorfosi, ci ricorda che 13 delle 16 vendette più celebri dell’Olimpo furono compiute da dee offese. Senza dimenticare personaggi come Fedra, Ecuba, Medea, che per determinazione, crudeltà, freddezza, farebbero impallidire qualsiasi Charles Bronson Giustiziere della notte. Oltre che regalare piacere, pace, soddisfazione, la vendetta è anche bella. Per questo l'arte pullula di vendicatori. Dall'Odissea a Zorro, dai corsari di Salgari a Nicole Kidman in Dogville, dai vampiri ai fantasmi, dai maledetti del noir all’opera lirica, dai manga al western. Senza offese, senza eroi bramosi di soddisfazione, la letteratura sarebbe più povera. A dimostrare che tutti sono un po' rancorosi e vendicativi nonostante le apparenze, c'è l'illuminato Voltaire. Scrisse il trattato sulla tolleranza, ma aveva un caratteraccio tutt'altro che votato al perdono. Spesso si prendeva soddisfazioni con chi l'aveva offeso o avversato. e quando nel Dizionario filosofico scrisse la voce ebrei sparse veleno, non dimenticando che un farabutto banchiere giudeo l'aveva truffato. Anche la storia della politica, delle idee, ha un fondamento livoroso. E, per gli appassionati dietrologi, c'è un fertile filone di studi sui rivolgimenti sociali nutriti di spirito di rivalsa. Forse non dispiacerà al nostro presidente del Consiglio scoprire che uno dei più vendicativi rivoluzionari della storia fu Lenin. Da giovincello, gli uccisero un fratello cospiratore. Lui, furibondo, urlò "Me la pagheranno". Chi? chiesero gli amici. "Vedrete, vedrete, me la pagheranno". La promessa fu mantenuta. Ancora più sordido pare fosse il barbuto Marx, c'è chi sostiene che il suo comunismo fosse una folle, ambiziosa vendetta, addirittura contro Dio. La vendetta è certamente una forma primordiale di giustizia, un’azione giusta e necessaria per ristabilire un equilibrio perduto, un onore offeso, una pace sociale infranta. Nei codici antichi, nella cavalleria feudale, nelle regole dei samurai, nei sistemi giuridici delle società tribali, è una vera e propria forma di giurisprudenza. E secondo l’autore costituisce addirittura - forse con qualche eccessiva leggerezza ermeneutica - un modello per la legalità moderna. Poi la ribellione contro un’ingiustizia, che ha carattere personale, viene superata nella modernità dalla legge impersonale, amministrata dallo Stato, che diventa il garante della giustizia e il pompiere, quando può, dei nefasti furori individuali. Naturalmente il bisogno primordiale di ripicca non è stato annullato. È semplicemente passato altrove. Ha trovato una casa accogliente nell’arte, nella pittura, nella letteratura, soprattutto nel cinema, come motore di storie e di passioni. Diventando, paradossalmente, un nuovo modello di riferimento e di comportamento individuale. La furia di Brunilde è fascinosa. Le stragi trasversali della mafia molto meno. Nell’arte, come pensava Aristotele, la vendetta purifica lo spettatore. Nella realtà suscita piuttosto orrore, dolore. La “vendetta”, pur avendo accompagnato la storia dell’uomo, e pur possedendo un indubbia energia narrativa, è sicuramente un sentimento nefasto che la modernità ha cercato giustamente di estirpare. Pensavamo di avercela fatta. Credevamo che la lucidità di Kant e l’illusione di una pace perpetua fossero a portata di mano. Ma non è così. Lo spirito di vendetta primordiale è ritornato, travestito, nella modernità. Parole come giusta punizione, rappresaglia, ritorsione, sono di nuovo legittimate. Nell’amministrazione della giustizia, nelle private vendette personali della giungla metropolitana, nel codice di comportamento degli Stati, sembrano tornate le Erinni. Bush si sente come un Agamennone offeso, e rivendica il diritto alla guerra preventiva. Verso i terroristi che hanno commesso crimini orribili si giustifica la sospensione dei diritti umani. E così via, il mondo moderno, somiglia spesso a un noioso clone di Kill Bill, il film di Tarantino con Uma Thurman spietata vendicatrice. Leggere la Breve storia della vendetta è affascinante e mostruoso. L’arte ci consegna la memoria di una estenuante mattanza. Ognuno con le proprie motivazioni, più o meno giuste, ha sparso sangue. Ma è proprio così bello dare libero corso al rancore? Non possiamo davvero liberarci dal «piacere dell’odio» come sosteneva il brillante William Hazlitt a fine ‘700? Molti hanno predicato che la forma di vendetta più raffinata è il perdono. Non alzare la spada e offrire l’altra guancia può essere più bello che squartare il nemico, come nell’ultimo film di Olmi, Cantando dietro i paraventi. E così, nella vita dell’umanità e nella letteratura germinano numerose anche le storie di faide che raggiungono il culmine nella conciliazione. Se questi messaggini di fede e speranza possono aver perso fascino nella modernità muscolare e virilista, non bisogna dimenticare un dettaglio, molto pragmatico. Vendicarsi è sublime, ma anche faticosissimo. Per ottenere soddisfazione occorrono tempi lunghissimi, energie immense. Chissà se i grandi vendicatori del mito e della letteratura, una volta raggiunto l’obiettivo, si sono compiaciuti. Chissà? Forse nel silenzio della propria solitudine, al cospetto dell’eterno ritorno della violenza, hanno modestamente pensato che non ne valeva la pena. Il perdono sarebbe stato più semplice, più veloce, più gioioso. La vita è così breve per sprecarla con la determinazione di vendetta.

non violenza e storia del marxismo

Corriere della Sera 29.2.04
Convegno del Prc a Venezia
Bertinotti e la non violenza: rivisitare criticamente il ’900 e rivedere le tesi dei marxismi
Revelli critica Trotzky, ma salva la Luxemburg Assenti Casarini e Agnoletto, che sarà candidato
di Gianna Fregonara


VENEZIA - Dice Fausto Bertinotti che non è un’operazione elettoralistica, che il salto dal marxismo ai no global - passando per Gandhi e Marcos - si può fare. Certo la svolta richiede tempo e, una volta proclamata la scelta strategica del rifiuto della forza, bisogna sforzarsi «di cercarne le tracce nella storia delle Resistenze, perché effettivamente - spiega il segretario di Rifondazione - nel marxismo la teorizzazione della non violenza proprio non c’è». Se non è un addio alle origini, è certamente un invito a scavare nel passato, a interpretare, anche a costo di una «revisione della teoria politica dei marxismi e di una rivisitazione critica del ’900».
Parole pesanti, nella due giorni di studio a Venezia, sullo sfondo della prossima campagna per le Europee, con il timore che l’opzione non violenta non sia capita da chi è attaccato all’identità politica di Rifondazione e non ama l’idea del partito della sinistra europea in cui Bertinotti ha impegnato le forze. Al dibattito non c’è Casarini, che polemicamente rifiuta la scelta bertinottiana, e non c’è neppure Vittorio Agnoletto che a giugno sarà in lista con Rifondazione.
Finora Bertinotti, nella sua marcia di rinnovamento, aveva rifiutato lo stalinismo salvando tutto il resto, cercato di puntare l’attenzione più sulla Rifondazione che sull’aggettivo che l’accompagna (il titolo dell’ultimo congresso recitava «Rifondazione, rifondazione, rifondazione» i militanti ci hanno aggiunto a mano «comunista, comunista, comunista»). Ieri si parlava del marxismo in generale o, per dirla con Bertinotti, dei «marxismi»: la relazione teorica della giornata è stata affidata a Marco Revelli, che ha impietosamente tracciato la strada che porta dal fallimento del modello rivoluzionario marxista alla non violenza. Ha spiegato che «sulla Russia del suo tempo Marx la pensava come oggi Rumsfeld sull’Iraq» non ha lesinato critiche a Trotzky (la minoranza del partito non ha approvato): si salva l’icona di Rosa Luxemburg. Nel dibattito c’è chi contesta il partito gerarchico, chi il leninismo. Un giovane militante prende la parola per dire che «tutto questo discutere su Stalin e Lenin non mi appassiona».

sabato 28 febbraio 2004
La cultura dell'Asia non è affatto quella che l'Occidente ha voluto descrivere

La Repubblica 28.2.04
L'OCCIDENTE CHE NON PENSA
Il Nobel indiano contesta che i valori liberali siano solo di una parte del mondo
Anticipiamo parte di un saggio dell'economista contenuto ne "Il sonno della ragione"
"La possibilità di ragionare è una forte risorsa di speranza anche per il ruolo che ha nello sviluppo dell´immaginazione"
di AMARTYA SEN


Yeats scrisse ai margini de La genealogia delle morali: «Ma perché Nietzsche pensa che la notte non ha stelle, nient´altro che pipistrelli e gufi e la luna insana?». Nietzsche espresse il suo scetticismo sull´umanità e presentò la sua visione inquietante del futuro appena prima dell´inizio del secolo scorso: morì infatti nel 1900. Gli eventi che seguirono, inclusi le guerre mondiali, l´olocausto, i genocidi e tutte le altre atrocità che accaddero con sistematica brutalità, ci portano a credere che forse la visione scettica di Nietzsche sia stata quella giusta.
La possibilità di ragionare è una forte risorsa di speranza e affidabilità in un mondo sempre più oscurato da accadimenti orribili. La questione centrale qui non è tanto capire quanto distinte società possano essere dissimili, ma che abilità e opportunità i membri di una società hanno - o possono sviluppare - per apprezzare e comprendere il modo in cui altre culture funzionano. Tale meccanismo può ovviamente non essere un modo immediato per risolvere i conflitti. Ciononostante, la speranza è che dedicarsi razionalmente alla comprensione e alla conoscenza possa probabilmente aiutare a superare il conflitto.
Il problema che va affrontato qui è se questi esercizi di ragionamento possano richiedere dei valori che non sono rintracciabili in certe culture. Questo è il passaggio in cui diviene centrale il problema del "limite culturale". Recenti posizioni, ad esempio, supportano l´idea che alle civiltà non-occidentali manchi tipicamente una tradizione di pensiero analitica e scettica e che per questo motivo esse sono distanti da ciò che viene qualche volta chiamata la "razionalità occidentale". Commenti simili sono stati fatti sul "liberalismo occidentale", "l´idea occidentale di diritto e giustizia", e generalmente riguardo ai valori occidentali. In effetti, vi sono molti sostenitori della tesi (argomentata da Gertrude Himmelfarb con chiarezza ammirevole) che «l´idea di giustizia, diritto, ragione e amore per l´umanità siano rintracciabili prevalentemente se non unicamente nei valori occidentali» .
Queste e altre credenze simili traspaiono implicitamente in diverse discussioni, anche quando gli interlocutori rifuggono dal prendere una posizione chiara in materia. Se il ragionamento e i valori che possono aiutarci a coltivare l´immaginazione, il rispetto e la compassione necessari per comprendere meglio e apprezzare chi è diverso da noi fossero davvero fondamentalmente retaggio dell´Occidente, ci sarebbe di che essere pessimisti. Ma siamo sicuri che sia così?
In effetti, è molto difficile investigare tali questioni senza accorgersi del dominio della cultura occidentale contemporanea nelle nostre percezioni e nelle letture sull´argomento. La forza di tale dominio è ben esemplificata dalla recente celebrazione del nuovo millennio. L´intero pianeta è stato stravolto dalla fine del millennio gregoriano come se questo fosse l´unico autentico calendario del mondo, a dispetto del fatto che ne esistono molti altri nel mondo non-occidentale (Cina, India, Iran, Egitto e altrove) che oltre ad essere felicemente utilizzati sono anche di gran lunga più antichi di quello gregoriano. E´ però certamente molto utile che per gli scambi culturali, tecnici e commerciali nel mondo si possa utilizzare un calendario comune. Ma se questo utilizzo diventa una tacita assunzione del fatto che il Gregoriano sia l´unico calendario utilizzabile, ecco che si può dare adito a un malinteso pericoloso.
Si pensi, ad esempio, all´idea di "libertà individuale", che è spesso attribuita integralmente al "liberalismo occidentale". L´Europa moderna e l´America, incluso l´Illuminismo europeo, hanno avuto certamente una parte decisiva nell´evoluzione del concetto di libertà e delle diverse altre forme che essa ha assunto nel tempo. Tuttavia, queste idee si sono diffuse da un paese all´altro, sia in Occidente che in altri paesi, in maniera per certi versi simile alla diffusione dell´organizzazione industriale e delle tecnologie moderne.
Concepire le idee liberali come "occidentali" in questo senso limitativo e approssimativo non facilita certo la possibilità che esse vengano adottate in altre regioni: abbracciare l´idea che vi sia qualcosa di "quintessenzialmente" occidentale in questi valori può avere degli effetti negativi nel loro uso in regioni che occidentali non sono. E´ giusta dunque la tesi secondo la quale la libertà individuale è tipicamente occidentale? L´evidenza per tale tesi, sintetizzata dalle parole di Samuel Huntington «l´Occidente è stato Occidente molto prima che diventasse moderno», è lungi dall´essere chiara. E´ senza dubbio facile rintracciare esempi a difesa della libertà individuale nella letteratura classica occidentale. Per esempio, libertà e tolleranza ricevono entrambe sostegno da Aristotele (anche se solo per uomini liberi, non per le donne, né per gli schiavi). Ciò nondimeno però, possiamo trovare parimenti esempi di tolleranza e di libertà in autori non-occidentali. Un buon esempio è l´imperatore Ashoka in India, che nel III a.C. tappezzò il paese di iscrizioni su tavolette di pietra sulla buona condotta e sulla saggezza di governo, incluso un richiamo alla libertà basilare per tutti i sudditi (comprese donne e schiavi); egli insistette persino che tali principi dovessero essere goduti anche dagli "uomini delle foreste", ovvero coloro che vivevano nelle comunità pre-agricole distanti dalle città indiane.
Esistono, sicuramente, altri autori classici indiani che enfatizzano la disciplina e altri concetti piuttosto che la tolleranza e la libertà, per esempio Kautilya nel IV d.C. (nel suo libro Arthashastra ? traducibile come Sulle scienze economiche). Ma gli scrittori classici occidentali, come Platone e Sant´Agostino, diedero anche priorità alle discipline sociali. Può essere rischioso, quando entrano in gioco libertà e tolleranza, associare Aristotele e Ashoka da una parte e Platone, Agostino e Kautilya dall´altra. Tali classificazioni, operate in base al significato delle idee, sono radicalmente differenti da quelle basate sulla cultura o sulla religione.
Una delle conseguenze del dominio della cultura occidentale nel mondo è che spesso altre culture e tradizioni vengono identificate e definite per contrasto con la cultura occidentale contemporanea. Diverse culture vengono così interpretate in una maniera che sembra rinforzare la convinzione politica che la civiltà occidentale sia in qualche maniera la principale, forse l´unica, risorsa di idee razionalistiche e liberali (tra queste, lo scrutinio analitico, il dibattito aperto, la tolleranza politica e l´accettazione di opinioni diverse). L´Occidente, in effetti, è visto come l´area che ha esclusivo accesso ai valori che stanno alla base della razionalità e del pensiero, della scienza e della verificabilità, della libertà e della tolleranza, e certamente del diritto e della giustizia. Una volta radicata, questa visione dell´Occidente - confrontata con le altre - tende a giustificare se stessa. Dal momento che ogni civiltà contiene diversi elementi, una cultura non-occidentale può allora essere caratterizzata in base a quelle tendenze ritenute più distanti dai valori e le tradizioni occidentali. Questi elementi selezionati tendono così a essere considerati più "autentici" o più "genuinamente endogeni" rispetto ad altri relativamente simili a quelli che si possono rintracciare in occidente.
Per esempio, la letteratura religiosa indiana come i testi BhagavadGita o il Tantra, che sono visti come diversi rispetto ai testi tradizionali occidentali, suscitano molto più interesse in Occidente che altri testi indiani, come la lunga storia dell´eterodossia indiana. Il Sanscrito e il Pali hanno una letteratura agnostica e ateistica più vasta di qualunque altra tradizione classica. C´è però in Occidente un disinteresse per la letteratura indiana non religiosa: dalla matematica, l´epistemologia, le scienze naturali all´economia e la linguistica (l´eccezione, io penso, è il Kamasutra, per il quale gli occidentali sono riusciti a coltivare un interesse). Attraverso questa enfasi selettiva che mette in luce le differenze con l´occidente, le altre civiltà possono in questo modo essere definite in termini alieni, siano essi esotici e affascinanti, o anche bizzarri e terrificanti, o semplicemente strani e stimolanti. Quando comunque l´identità viene definita "per contrasto", la divergenza dall´Occidente diventa più forte.
Si prenda, ad esempio, il caso dei "valori asiatici", spesso messi in contrapposizione con quelli occidentali. Dal momento che diversi sistemi valoriali e diversi stili di pensiero sono fioriti in Asia, è possibile caratterizzare i valori indiani in maniere molto diverse, ciascuno con una vasta letteratura alle spalle.
La ragione ha un suo potere che non viene compromesso né dall´importanza delle psicologia istintiva né dalla presenza di una diversità culturale nel mondo. Essa ha un ruolo particolarmente importante nello sviluppo dell´immaginazione morale. E abbiamo proprio bisogno di questa immaginazione per combattere i pipistrelli e i gufi della luna insana.

la Sopsi ha detto...

La Repubblica 28.4.04
Attenti al disagio dei bimbi cambiare il futuro si può
Gli psicopatologi a convegno sui disturbi che oggi affliggono anche i più piccoli "Bisogna imparare ad osservare i comportamenti rigidi"
di ELENA DUSI


ROMA - «Da trent´anni lavoro come neuropsichiatra infantile. Ma da quattro-cinque anni ho cominciato a vedere cose che mi inquietano. Depressioni fonde che prima si manifestavano solo negli adulti, ora me le trovo di fronte in bambini di dieci anni. Psicosi, costruzioni deliranti così nette e strutturate, ad appena otto anni di età. Ragazzi che vogliono morire, eppure si stanno appena affacciando alla pubertà. La depressione sta invadendo l´adolescenza, sia come numero di casi che in termini di gravità». Le affermazioni dure di Francesco Montecchi contrastano con la sua voce calma, lo studio pieno di sole e giocattoli e un allegro papillon. Il primario di neuropsichiatria infantile è intervenuto ieri al Congresso della Società italiana di psicopatologia in corso a Roma. La colpa del male di vivere nei più giovani? Difficile dirlo. «Forse sono i grandi centri urbani» suggerisce.
Osservare i comportamenti dei più piccoli può essere utile per cogliere in tempo i segnali del loro disagio e schiacciare sul nascere gli embrioni di eventuali, future patologie. «La salute dei bambini è la chiave di quella degli adulti» sostiene Mauro Mauri dell´università di Pisa. «Alcuni comportamenti - conferma Montecchi - mettono in evidenza una situazione di rischio. Questo non vuol dire che necessariamente i bambini si ammaleranno, ma solo che stanno covando un disagio. Se riusciranno a superarlo o no dipende sia dal contesto esterno che dalle risorse individuali». Ma quali sono i segnali cui prestare attenzione? «Nei primi anni di vita - sostiene Massimo Ammaniti, professore di psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma - sono i disturbi del sonno e dell´alimentazione. Lo svezzamento è un momento difficile per tutti i bambini, ma se il rifiuto del cibo perdura nel tempo, occorre stare attenti. Il disturbo alimentare potrebbe ripresentarsi con l´adolescenza». Il sonno, sottolinea anche Montecchi, «è un indicatore per misurare la tranquillità di un bambino. E´ un momento di separazione, non sappiamo chi troveremo accanto a noi al risveglio». Difficoltà ad addormentarsi, risvegli ripetuti accompagnati da pianto inconsolabile, tendenza a dormire di giorno e non di notte possono essere indici di ansia. Quando preoccuparsi? «Quando in ansia entrano anche i genitori» suggerisce spiazzante Montecchi. Un´attenzione particolare per i bambini molto irrequieti, ma anche per quelli troppo calmi, «che tendono a farsi dimenticare, e poi magari esplodono all´improvviso». I ragazzi troppo bravi a scuola o quelli eccessivamente precisi potrebbero finire nella trappola dei disturbi alimentari (più spesso le ragazze) o di quelli ossessivo-compulsivi (i maschi). Ma il compito più difficile per un genitore è distinguere le situazioni preoccupanti da quelle destinate a risolversi da sole. Montecchi suggerisce una regola: «Quando un comportamento è rigido, ripetitivo e slegato da una situazione contingente, non è decifrabile da parte dell´adulto e disturba la vita del bambino, allora è il caso di preoccuparsi. Quando invece i sintomi accompagnano un momento di crescita e si possono spiegare con una situazione di sofferenza allora probabilmente il disagio passerà».


Spariscono i desideri domina la sofferenza

Molto più di un cattivo umore: la depressione è la perdita del piacere di vivere. I suoi sintomi sono persistenti e invalidanti. La malattia spazza via ogni desiderio e forma di piacere, incluso quello sessuale. Provoca spesso insonnia, irritabilità e disturbi dell´appetito. A volte il dolore psichico si maschera dietro a un dolore fisico. Spiegazione plausibile: nei depressi i neurotrasmettitori noradrenalina e serotonina sono ridotti. Questo provoca un abbassamento della soglia del dolore. Gli esperti riuniti a Roma stimano che fra i primi sintomi e la diagnosi intercorrano in media otto anni.

Prigionieri dei luoghi senza chances di fuga

Il panico (disturbi da attacchi di panico: Dap) è una malattia in aumento, soprattutto tra i giovani. Interessa il 4% degli italiani (3 donne per ogni uomo) e, spiega Roberto Brugnoli della Sapienza di Roma, «colpisce all´improvviso, mentre si è al cinema, nel traffico o al supermercato». Un attacco di panico dura pochissimi minuti, ma è accompagnato da sensazioni terribili, come quella di soffocare o di impazzire. «Le crisi - prosegue Brugnoli - possono essere scatenate da ambienti dove mancano vie di fuga immediate, tanto che negli Usa il Dap è definito sindrome da supermarket».

Anche la dolce morte deve essere regolata

«L´eutanasia è un problema collettivo e il legislatore deve prenderne atto» affermano gli psichiatri riuniti a Roma. Paolo Pancheri, presidente del congresso Sopsi, sostiene che l´eutanasia «va depenalizzata e, naturalmente, regolamentata». Anche perché, sottolinea Roberto Brugnoli della Sapienza, «il sommerso sta assumendo dimensioni preoccupanti». Secondo una ricerca presentata al congresso di Roma il 78,6 per cento degli italiani vorrebbe avere la possibilità di scegliere l´eutanasia in caso di malattia allo stato terminale.

Tante idee ricorrenti scacciano la ragione

Idee ricorrenti, impossibili da cacciare via, che si traducono in comportamenti irrazionali e reiterati. Il disturbo ossessivo-compulsivo può consistere nel controllare decine di volte che il gas sia chiuso o la porta di casa non sia stata forzata. L´individuo che ne soffre sa bene che le sue preoccupazioni sono superflue. Tuttavia non può fare a meno di verificare una volta di più, perché il dubbio ha la meglio su ogni ragionevolezza. «Questo disturbo - spiega Massimo Biondi, docente di psichiatria alla Sapienza di Roma - è legato a un´insufficienza del neurotrasmettitore serotonina».

1 ora al giorno
GELOSIA
La gelosia è patologica se si pensa al tradimento con molta sofferenza per più di 1 ora al giorno

1/3 degli adolescenti
SINDROME DI LINUS
Un terzo dei ragazzi soffrono della timidezza patologica che porta a rinchiudersi in casa

10% degi Italiani
LA BIPOLARITA'
È la sindrome che colpisce il 10% degli italiani: va dall'euforia alla malinconia...

10% degli italiani
DISTURBI SESSUALI
Tra i disturbi in aumento per il 10% degli italiani: impotenza e eiaculazione precoce, anorgasmia

10% delle donne in gravidanza
DEPRESSIONE
Una donna su dieci in gravidanza è depressa e la metà dei figli può soffrirne da subito

30% dei bambini
NO ALLA PAPPA
Il rifiuto della pappa è una sindrome che può colpire il 30% dei figli di madri troppo ansiose

IL 17% DEGLI ITALIANI soffrono di depressione

IL 50% DEI DEPRESSI non riceve cure adeguate

IL 5% DEGLI ITALIANI soffrono di depressione grave

IL 4% DEGLI ITALIANI soffrono di attacchi di panico

IL 70% DEI PAZIENTI soffrono di dolore al torace durante l'attacco

IL 4% di chi soffre di attacchi di panico arriva dallo specialista

IL 78,6 è d'accordo con la possibilità di eutanasia in caso di malattie terminali

IL 37% ritiene necessaria una legge sull'eutanasia

IL 56% delle donne è favorevole all'eutanasia

IL 5% delle ragazze tra i 13 e i 18 anni soffrono di "sindrome da abbuffata"

15% l'incidenza complessiva dei disturbi ossessivo-compusivi. I disturbi ossessivo-compusivi colpiscono a tutte le età


venerdì 27 febbraio 2004



a proposito delle scelte culturali di Repubblica:

oggi venerdì 27.2.04, si può leggere sul giornale un articolo di Umberto Galimberti dal titolo
"IL CONFINE FRA NOI E L´ANIMALE schizofrenia e normalità"
chi volesse vederlo può richiederlo a questo indirizzo; lo riceverà per e-mail




la chiesa cattolica recluta gli psichiatri per battere il maligno

L'Adige 27.2.04
Tra psichiatri ed esorcisti sdemonizziamo il mondo
psichiatria e religione
Il ritorno del diavolo
di SERGIO ARTINI


La notizia è recente (e se ne parlerà stasera a «Enigma», alle 21, su Raitre) e segnala il rilevante interesse della società odierna per i fenomeni demoniaci: a Genova il cardinale Tarcisio Bertone ha istituito una commissione mista, composta da sacerdoti, psichiatri e psicologi, incaricata di valutare per certi pazienti, con manifestazioni "malefiche" ritenute inspiegabili scientificamente e attribuibili a possessione diabolica, l´opportunità di ricorrere ad un esorcista.
Di esorcisti in Italia ne esistono circa 300 e sono tutti sacerdoti espressamente nominati dai vescovi.
Da un punto di vista empirico la collaborazione tra esorcisti e psichiatri esiste da tempo, perché la premessa, condivisa nella Chiesa Cattolica, è che prima dell´affidamento al "Rito dell´esorcismo" risulta indispensabile inquadrare clinicamente il paziente e studiare se la sua patologia possa essere spiegabile e curabile nell´ambito degli interventi psicologici, psichiatrici e farmacologici. Dai tempi oscuri del trattamento delle malattie mentali, che venivano considerate castighi di Dio o del demonio, si è passati ad uno stadio razionale e di medicalizzazione del problema. D´altro canto risulta sempre suggestivo per la mentalità popolare immaginare forze oscure dall´aldilà che giustifichino le manifestazioni della malattia mentale.
Eppure, nella nostra civiltà occidentale, che vive una fase scientifica e tecnologica, si segnala la diffusione dei fenomeni di satanismo (riti neri, sette sataniche, pratiche demoniache) e del ricorso ai maghi e all´occultismo deviante. Il demoniaco, spesso nelle manifestazioni dell´horror, viene enfa tizzato dai media e cavalcato proficuamente dalla cinematografia di tutto il mondo: dove le soluzioni pseudoscientifiche correlate non cambiano questo senso di regressione ad una concezione magica e retrograda. Anche la domanda non è in calo: gente che si ritrova alterata nell´equilibrio psico-affettivo, che si sente vittima di forze ed eventi soprannaturali o addirittura posseduta dal demonio, non si fida della medicina ufficiale ma non sa più a chi ricorrere, spesso finendo preda di plagi e di sfruttamenti. E proprio la nostra epoca, così frenetica e accelerata nei mutamenti, assiste ad una esplosione di patologie che spaziano dalle nevrosi alle psicosi maggiori.
In genere la Chiesa Cattolica, che si trova a "gestire"il soprannaturale, si muove con estrema prudenza e cautela, sia per ciò che si riferisce all´aspetto speculativo e teologico (la rivelazione e la presenza dei demoni), sia per gli interventi nel campo etico e sociale. Soprattutto si impegna a prendere le distanze dalle superstizioni, dalle pratiche magiche, da ogni occultismo e dagli eccessi mitologizzanti.
Paolo VI, in un discorso del 1972, affermava la necessità per i credenti di evitare il duplice pericolo, da una parte quello di ridurre gli angeli e i demoni a "miti" in cui si manifesterebbe una realtà esclusivamente umana, dall´altra quello di riconoscere nel Demonio un principio di male equivalente e contrapposto al Principio del Bene che è Dio, secondo quella rigida concezione dualistica manichea, tanto avversata da Sant´Agostino.
È evidente come il problema del demoniaco rimandi a quello dell´esistenza del male e del peccato, compreso il Peccato di Origine. Molte eresie sono divampate su questi temi del male, increato, creato da Dio ma non voluto, sperimentato, in forme diverse, dagli Angeli Caduti e dagli uomini.
E l´umanità dei credenti, gettata nella tragedia dell´esistenza, si è interrogata sui perché del male ontologico e morale e, volta a volta, l´ha interpretato come dovuto alla frattura primordiale tra Dio e la Natura, al peccato originale, alla Onnipotenza sacrificata a favore della libertà concessa all´uomo, alla assenza di Dio nei riguardi della Natura mentre è la Redenzione di Cristo che pone la salvezza.
In queste concezioni di ottimismo tragico "il male nasce già vinto" e non è che Dio lo voglia, lo subisce, proprio in nome della libertà per l´uomo, la onnipotenza di Dio non interviene in modo coercitivo ma permette all´uomo stesso di camminare verso la salvezza.
L´opposizione angelo (messaggero) - diavolo (avversario) attraversa la storia dell´uomo e tocca quasi tutte le esperienze religiose. Nell´Antico testamento si parla poco di diavoli. Nel Nuovo si narra di Gesù che scaccia i demoni, libera indemoniati, vince nel deserto le tentazioni di Satana e lotta sino alla fine contro il Maligno.
Anche l´uomo d´oggi si trova a giocare su questo terreno. Il demoniaco viene evocato quando siamo di fronte ad un «male che sembra trascendere la capacità meramente umana o che comunque la sa potenziare fino a farle raggiungere livelli inimmaginabili», come scrive Silvano Zucal che alla dimensione demonologica, nell´ambito della angelologia, ha dedicato ricerche esaustive.
Basti ricordare i campi di concentramento, le pulizie etniche, i genocidi, i massacri tribali, le persecuzioni e gli stermini politici. Ma anche le devianze dei singoli fanno evocare il diavolo: ecco gli squartatori di uomini, i nuovi cannibali, i seviziatori, i pervertiti, i sadici.
Il demoniaco non è mai scomparso dall´orizzonte dell´umanità - non è stato ancora vinto. Può venire visto e vissuto in modi diversi, rappresentato con i toni grotteschi, horror, perfino seducenti, pensato, via via, come persona, come assenza, come simbolo, come mito, come metafora. Nella politica come nell´arte, il male e il demoniaco continuano a venire strumentalizzati e interpretati.
Ma, paradossalmente, ciò che l´uomo crede e capisce attraverso la nozione del demoniaco, lo può fare anche senza di esso. Ed allora dovrebbe cercare proprio di sdemonizzare il male nel mondo, limitando ed emarginando le (presunte) ingerenze demoniache, il che non vuol dire tout court negare Satana, ma pensare ed agire come se non ci fosse o, meglio ancora, perché non ci sia. Ridurlo all´assenza.
In questo ci può aiutare l´avanzamento culturale, che guadagna sempre maggiori ambiti di comprensione e che, così, dovrebbe non solo correggere il gusto per il satanismo ma sradicare i compiacimenti e le pericolose sequele imitative del demoniaco.
Ben vengano, dunque, le commissioni miste e i pool di esperti a decidere sull´esorcismo: ma più che nel senso propositivo e impositivo questi dovrebbero assumere anzi tutto un ruolo adatto a sdemonizzare tutto quello che è possibile attraverso le spiegazioni scientifiche e filosofiche per poi proporre trattamenti clinici adeguati.
Se vale la scommessa pascaliana su Dio, sul demonio la scommessa deve contare al negativo. Anche se l´umanità, in un certo senso, dovrà sempre fare i conti col diavolo e l´acqua santa.
L´adolescente protagonista del film danese «Lilja 4- ever», alle prese con i quotidiani demoni dentro e fuori di lei, non manca di riferirsi poeticamente al suo angelo custode, raffigurato in quella semplice icona che porta sempre con sé, nei traslochi, nelle fughe e nei ritorni e che finisce col prender parte al suo dramma esistenziale.
Per i più esigenti ci si può sempre riferire all´Angelus Novus di Benjamin, che è sì rivolto verso le catastrofi e le rovine del passato, ma che è attratto, dentro la tempesta dal paradiso, verso il futuro. Questo enigmatico e suggestivo passo ben si adatta a spiegare quel faticoso sforzo di superamento che dovrebbe caratterizzare il progresso dell´uomo.

eutanasia

La Stampa 27 Febbraio 2004
FA DISCUTERE LA RICERCA PRESENTATA AL CONGRESSO DELLA SOCIETA’ DI PSICOPATOLOGIA
Eutanasia, otto italiani su 10 dicono sì
«Giusto aiutare a morire i malati terminali, ma non serve una legge specifica»
di
Daniela Daniele

ROMA. Due temi forti, ieri, al congresso della Società italiana di psicopatologia: amore (nella variante gelosia) e morte (nel dibattito su eutanasia).
Ha fatto scalpore una ricerca, condotta da Alessandra Sannella, della facoltà di sociologia della Sapienza di Roma, dalla quale risulta che il 78,6% degli italiani è d'accordo con la possibilità di aiutare a morire malati allo stadio terminale, ma solo il 37,1% ritiene necessaria una legge ad hoc. Lo studio si è basato su un campione di 500 individui, di età compresa tra i 26 e i 65 anni. A dire sì a eutanasia e suicidio assistito sono state soprattutto le donne (56%) e, in generale, i soggetti con un grado di istruzione superiore.
Tra i giovani, il 37% ritiene che si tratti di una scelta personale. Si è invece dichiarato «assolutamente contrario» il 35% del campione. Ma se la maggioranza degli italiani si mostra favorevole all'eutanasia, in determinate situazioni, e il 59,4% afferma che sarebbe d'accordo con questa soluzione in caso di malattia terminale di un familiare, meno della metà sente il bisogno di una legge al riguardo.
«C'è poi un altro dato interessante - ha sottolineato Alessandra Sannella -: il 20% di quelli che si dicono d'accordo con l'aborto non lo sono invece con l'eutanasia. Questo perchè entrano in gioco due diverse concezioni dell'individuo. Nel caso dell'aborto, il feto non è ancora considerato un soggetto a tutti gli effetti, mentre nell'eutanasia a essere colpito sarebbe un individuo pienamente inserito e riconosciuto nel contesto sociale». Un dato che dimostra anche, ha fatto notare la sociologa, come «il fattore religioso non sia determinante in relazione alle scelte di fine della vita».
Tuttavia, tra i contrari all'eutanasia, il 47% dice di esserlo proprio per motivi religiosi, mentre il 17% rivela che continuerebbe a sperare in un miracolo fino alla fine. Dalla ricerca emerge anche una dura critica al mondo dell'informazione: l'80% degli intervistati ritiene l'informazione dei media sull’argomento «frammentaria e poco comprensibile», tanto che «è difficile formarsi un'opinione in merito». Un ultimo dato: il 20%, una volta messo al corrente del tema della ricerca, si è rifiutato di rispondere. «Un elemento - ne ha dedotto Sannella - che indica chiaramente come l'eutanasia rappresenti ancora nella nostra società un tabù».
Altra pagina: la gelosia in amore. Un sentimento che, come spiega la psichiatra Donatella Marazziti dell'Università di Pisa, è naturale e da non demonizzare, purchè non oltrepassi i limiti. «Nel corso della storia - ha spiegato - ha rivestito una grande importanza, poichè mira alla conservazione della specie e alla stabilità della coppia: nei maschi è legata alla sicurezza della paternità e, quindi, alla certezza di provvedere a figli propri; nel sesso femminile, invece, è alla necessità di tenere legato un partner in grado di assicurare cibo e protezione alla prole».
Il problema, però, è che non sempre è facile tracciare il confine tra la gelosia normale e quella patologica, «come ad esempio il delirio di gelosia, che può portare anche ad atti cruenti». Da numerosi studi effettuati la psichiatra e la sua équipe sono arrivate a determinare un limite indicativo di soglia tra gelosia normale e patologica: 60 minuti al giorno. Se in una giornata si pensa insistentemente e con sofferenza all'eventuale tradimento da parte del partner per più di un'ora, questo deve essere considerato un campanello d'allarme.

accade in Svizzera

una segnalazione di Peppe Cancellieri

Giornale del popolo quotidiano della Svizzera italiana 27.2.04
PEDOFILIA Un’interrogazione mette in discussione lo psicologo canadese
Audizioni dei minori scontro sul metodo
«Van Gijeseghem non è adatto per tenere quel corso»


I magistrati, gli agenti di polizia, i delegati alla protezione delle vittime e tutti coloro che a vario titolo hanno a che fare con delle presunte vittime di reati sessuali, si trovano di fronte a un interrogativo: quanto la vittima o presunta tale, è credibile? Queste domande diventano ancora più angoscianti quando i denuncianti sono fanciulli. Un’audizione sbagliata raccolta in sede d’inchiesta diventa un’arma a doppio taglio in mano ai difensori degli accusati da rivolgere contro le stesse vittime. Per questa ragione ben vengano momenti di formazione specifici destinati agli inquirenti per imparare a gestire questi interrogatori. Infatti, proprio lunedì prossimo inizierà un corso suddiviso in due tranches di tre giorni l’una teso a fornire gli strumenti adeguati a magistrati, poliziotti e membri delle Unità di intervento regionali (UIR) per interrogare i minorenni vittime di reato. Tali iniziative si sono rese necessarie dopo l’entrata in vigore, il 1 ° febbraio del 2002, della nuova Legge federale sull’aiuto alle vittime. Le nuove norme federali richiedono comunque una parziale modifica del Codice di procedura penale. Modifica che sta seguendo il normale iter parlamentare. Una delle principali novità consisterà nel fatto che le giovani vittime di reati commessi da adulti non saranno più interrogate dal Magistrato dei minorenni, ma da un procuratore pubblico appositamente formato. Tutto bene, allora? Non per il deputato socialista Bill Arigoni che a proposito di questo corso di formazione ha presentato un’interrogazione parlamentare corredata da una decina di articoli di giornale. Quello che a Bill Arigoni proprio non va giù di questa iniziativa è il nome del principale relatore, il professor Hubert Van Gijseghem, psicologo canadese ed esperto di questo genere di reati. «Che si preparino tutte le persone che dovranno intervenire in caso di abuso sessuale su minore è un fatto più che importante – ci dichiara Arigoni – perché alle piccole vittime deve essere dato tutto il sostegno possibile evitando che un’audizione sbagliata finisca per compromettere le prove a carico dell’accusato durante il processo». Arigoni, nell’atto parlamentare, si chiede come mai sia stato chiamato uno psicologo da così lontano e facendo una ricerca in internet ha trovato notizie che ritiene «sconcertanti». «Van Gijseghem – sostiene Arigoni – definisce umanisti due autori che arrivano a giustificare la pedofilia e, con uno di questi, collabora. Le sue tesi sono notoriamente utilizzate nelle aule penali per screditare la credibilità dei bambini e di chiunque testimoni a loro favore». A suffragio delle sue tesi Arigoni porta una decina di articoli pubblicati negli anni scorsi molto critici nei confronti del professor Humbert Van Gijseghem. Il professore non è comunque nuovo a queste latitudini. Già in ottobre aveva tenuto una conferenza a cui avevano partecipato magistrati e poliziotti e proprio in quell’occasione fu contattato per tenere questo corso di formazione. Da tenere presente che nell’ambito di inchieste così delicate, le teorie su come procedere durante le audizioni sono molto controverse. Van Gijseghem è un sostenitore dei cosiddetti “falsi positivi”. Cioè di quei casi che apparentemente sembrano episodi di abuso sessuale, ma in realtà, nella stragrande maggioranza, non lo sono. Una tesi contraria a quella che sostiene che i casi che emergono sono solo la punta dell’iceberg. Secondo quest’ultima tesi, il numero delle giovani vittime di reati sessuali in Svizzera sarebbe superiore alle 40 mila l’anno (1.500 per il Ticino). Nell’impossibilità di contattare il procuratore generale Bruno Balestra e il tenente Orlando Gnosca della polizia giudiziaria, abbiamo parlato con il cancelliere del Ministero pubblico, Giancarlo Soldati. «Van Gijseghem, da quello che sappiamo è una persona con una notevole formazione ed esperienza. Non credo sia stato chiamato a sproposito per tenere questo corso», ci ha dichiarato. (GENE)

omosessualità

una segnalazione di Paolo Izzo

Agenzia Radicale, News del 27-02-2004
http://www.quaderniradicali.it/agenzia/index.php?op=read&nid=608
Conversazione sull'omesessualità


A Macario Principe, membro associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e dirigente psicologo presso l’ASL Napoli 1, abbiamo posto alcune domande.

Lei fa differenza tra libertà sociale di comportarsi da omosessuale e tematica privata ed esistenziale dell’omosessualità ?

Io non ritengo che l’omosessualità vada considerata in una dimensione pubblica, ma che viceversa appartenga alla sfera delle libertà soggettive, e pertanto -nella misura in cui non entra in conflitto con le regole sociali- non vada nemmeno da considerare una sua eventuale normazione.

Da un punto di vista clinico e scientifico lei considera l’omosessualità una malattia ?

Rientra sicuramente in quella vasta problematica delle difficoltà delle “relazioni di oggetto” e più in particolare della scelta dell’oggetto sessuale. In quanto tale ritengo che l’omosessualità debba essere inquadrata clinicamente; però l’intervento terapeutico diviene opportuno unicamente quando tale scelta sessuale diventi fonte di sofferenza per il soggetto.

In un’ottica di diritto di cittadinanza va contemplata la prerogativa di matrimonio tra omosessuali?

In qualità di psicoanalista per me l’argomento non si pone; come cittadino ritengo che -tenuto fermo l’istituto della famiglia- vanno comunque individuate delle aree di garanzia alle quali queste coppie possano accedere.

Maurizio Mottola


giovedì 26 febbraio 2004
INTERVISTA A MASSIMO FAGIOLI
di Paolo Izzo


per leggere l'intervista sul sito originale cliccare QUI


Massimo Fagioli: Omosessualità. Tra libertà sociale e ricerca psichiatrica
intervista di Paolo Izzo
Agenzia Radicale News del 22-02-2004


Secondo il Venerdì di Repubblica (20/02/04), lo psichiatra Massimo Fagioli – cito testualmente – «non ha ancora deciso se prendersela di più con Freud, già definito “vecchio sadico imbecille” o con l’omosessualità, bollata come “annullamento” e considerata “legata alla pulsione di morte”». Il pretesto per la provocazione è un libro di Gianna Sarra, intitolato “La sindrome di Eloisa” (Nutrimenti, pp. 160), sugli amori epistolari di scrittrici e scrittori. Il saggio della Sarra in effetti rivela che Sigmund Freud era omosessuale, pubblicando le sue lettere erotiche all’amico e collega Wilhelm Fliess e allo scrittore Romain Rolland.
Abbiamo intervistato Massimo Fagioli, per chiarire il suo punto di vista sull’intera vicenda.

Allora professor Fagioli, ha letto il Venerdì?

«Comincerei con una affermazione da Costituzione francese: nella società non esistono né eterosessuali né omosessuali. Ai limiti, non esistono né donne né uomini. Nella società esistono cittadini. E il cittadino è quello che rispetta le leggi ed ha possibilità razionali di comportamento. Se queste vengono a mancare, il cittadino cade nella criminalità o nella malattia. E allora in quel momento egli è sospeso: perché ovviamente se sta male, si è rotto le gambe, non può fare l’atleta, non può nemmeno andare al lavoro e quindi va curato. Quando riprende il funzionamento del corpo o anche della mente, nella misura in cui è caduto nella malattia mentale, ritorna in società.»

Nell’articolo si diceva che lei ce l’avrebbe con gli omosessuali…

«Un momento. Quello che ho appena detto riguarda l’omosessualità come libertà sociale. D’altronde, da psichiatra devo studiare l’omosessualità… Non aggredisco gli omosessuali, perché ai limiti io non so se le persone che incontro per strada o che stanno in ufficio e che incontro per ragioni di lavoro sono omosessuali o non omosessuali. Non solo non lo so, ma non me ne importa assolutamente niente. Quello è un fatto privato!»

Qualcosa che avviene al di fuori dello studio medico…

«È nella società. E io non mi permetterei mai di dire che qualcuno è omosessuale o no: quello è un libero cittadino, nella misura in cui passa col verde, nella misura in cui è gentile, nella misura in cui rispetta le regole sociali, nessuno ha il diritto di dire ‘quello è un omosessuale’, sarebbe una cafonata e un’aggressione… C’è la querela per violazione della privacy. Uno è liberissimo di fare quello che gli pare! E se questa faccenda va a finire nello studio psichiatrico, ugualmente è un fatto privato. Come dimostra la storia di quella donna che è stata liberissima di non andare dal medico e morire per cancrena alla gamba. E nessuno può intervenire…»

Tranne che nella ricerca scientifica…

«Se a livello culturale uno vuole discutere, fare ricerca scientifica, allora è un altro discorso: allora si fa un convegno e si studia che cos’è l’omosessualità, perché l’omosessualità, come viene l’omosessualità… Il discorso diventa lunghissimo perché non è soltanto una questione psicopatologica personale, privata, ma è una storia culturale generale. Di cui ci siamo ampiamente occupati, cioè ancora molto poco, perché dovremmo occuparcene molto di più… Parte dalle religioni, parte dalla Ragione, dal logos occidentale…»

Che è uno dei tanti argomenti dei suoi Incontri di ricerca psichiatrica all’Aula magna della Sapienza…

«Sì, preparando il prossimo incontro del 28 febbraio, con Francesca Fagioli si rileggeva un passo della Repubblica di Platone, in cui dice esplicitamente che le donne non esistono, che le donne non sono esseri umani! Quindi la Ragione, il logos occidentale sono basati sull’omosessualità! Da 2500 anni. Poi tutti dicono che sono razionali, tutti dicono che l’identità umana è Ragione ma nessuno dice che questo significa che l’identità umana è omosessuale…»

Un’omosessualità latente, dunque.

«Ecco. C’è questa grande distinzione per cui quella minoranza di omosessuali espliciti, dichiarati, che hanno deciso, rappresenta il problema meno importante. Se invece io scopro che non è affatto vero che esiste una pulsione omosessuale originaria come diceva Freud; se scopro, come ho scoperto, la pulsione di annullamento, la negazione, la bramosia, il desiderio… posso dire che non è affatto come diceva Freud. E soprattutto posso affermare che il desiderio riguarda soltanto il rapporto eterosessuale! Dall’altra parte non c’è desiderio, non esiste, è una negazione… Per il resto se io preferisco passare le vacanze con una bella donna invece che con un uomo, me la lasci questa libertà? E quindi se lui vuole passarle con un uomo, con Romain Rolland o con Fliess, ci vada. Ma poi non può affermare che c’è una pulsione omosessuale originaria in tutti gli esseri umani!»

Sin dal ’71, con “Istinto di morte e conoscenza”, lei si batte contro queste teorie…

«Sin dal ’71 e anche prima. Lì c’è un altro problema più grosso, con la psichiatria o meglio ancora non con la psichiatria, perché la psichiatria qui non c’entra, ma con questa cosiddetta truffa storica della psicanalisi. Perché l’hanno tenuto nascosto per cento anni che Freud era un omosessuale? Questo Foucault lo diceva esplicitamente, ai limiti l’ha confessato anche Thomas Mann. L’ha confessato Armani… Perché la società di psicanalisi ha organizzato tutta una truffa storica per tenerlo nascosto? Per cui uno non poteva scegliere e diceva ‘vado a fare lo psicanalista’. Perché? ‘Perché lì sono eterosessuali, no?’. Invece non era vero… Perché non dire: no, la società di psicanalisi è una società omosessuale, se uno ci vuole andare ci va. Come c’è stato quel famoso articolo di Ammaniti, mi pare il 20 agosto 2000 o ’99, in cui affermava che i migliori analisti erano gli omosessuali. Perché? Allora, ditelo. Così ogni cittadino è libero di scegliere e, soprattutto, ogni studente, ogni ragazzo che non ha idee chiare in proposito… E voi lo imbrogliate in questa maniera? Ecco il punto.»

E magari dicono: siamo tutti omosessuali. Invece con la sua teoria dell’immagine interna…

«Quello è un altro discorso ancora. Troppo complicato. Come si fa a dire tutto? Si devono fare dei capitoli… Perché? Perché appunto il discorso dell’immagine interiore è fondamentale. Non ce l’hanno. Hanno soltanto la figura esterna, per cui magari diventano grandi stilisti, ma il rapporto con l’interno delle donne, quello non esiste…
Insomma, massimo rispetto per tutti. Ai limiti, nella misura in cui gli omosessuali rivendicano i diritti civili, io vado con loro a fare la manifestazione. Se però vengono nel mio studio privato, dicendo: io sto male… Rispondo: amico mio, tu questa omosessualità la devi affrontare, perché l’omosessualità non fa star bene. Perché non è un’identità. Chiaro?»

Chiarissimo.


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Paolo Izzo segnala, per chi fosse interessato, che da oggi è possibile commentare gli articoli della Nuova Agenzia Radicale - e quindi l'intervista al professor Massimo Fagioli di domenica - direttamente sul sito

PER VEDERE L'ORIGINALE DELL'ARTICOLO DEL VENERDI DI REPUBBLICA
- GRAZIE A MAWIVIDEO.IT -
BASTA CLICCARE QUI

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dalla Libreria Amore e Psiche





Vi informiamo che

sabato 28 febbraio nel primo pomeriggio (dopo le 15)

sarà disponibile qui da noi
e presso le Nuove Edizioni Romane

il volume


AULA MAGNA 20 DICEMBRE 2003
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COMUNICATO DELLE NUOVE EDIZIONI ROMANE

In occasione dell’uscita sabato 28 pomeriggio del volume
AULA MAGNA 20 DICEMBRE 2003
la sede della Casa Editrice sarà aperta dall’ora di pranzo in poi.
Domenica 29 l’apertura sarà dalle ore 10 alle ore 20.
Il volume sarà disponibile sabato e domenica anche presso la Libreria Amore e Psiche
mentre, per motivi organizzativi, verrà diffuso negli altri punti abituali a Roma e fuori Roma solo nei giorni seguenti.

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(entro il successivo mercoledì 3 marzo anche a Firenze
come sempre da STRATAGEMMA)


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Vi comunichiamo anche che sarà di nuovo possibile visitare

l’affresco di Massimo Fagioli

Sabato 3 Aprile dalle ore 10 alle 12

presso il Servizio Giardini del Comune di Roma

in Piazzale di Porta Metronia 2

Ricordiamo che sarà data la precedenza a coloro che ancora non hanno visto
l’affresco e che sarà possibile prenotarsi telefonando o mandando una mail
in libreria.

Un saluto a tutti


Libreria Amore e Psiche
via s. caterina da siena, 61 roma
info:06/6783908 amorepsiche2003@libero.it
i nostri orari: lunedi 15-20
dal martedi alla domenica 10-20




ciò che al convegno della Sopsi chiamano "sessualità"la "psiche" gendarme...
e altro...


La Stampa 26.2.04
PSICOLOGI A CONVEGNO
Sesso e psiche legati a filo doppio così s’influenzano
di Daniela Daniele


ROMA. Sesso e psiche, inscindibile binomio. Se ne parla al nono congresso della Società italiana di psicopatologia, in corso nella capitale. Quanto i prodotti dell’inconscio condizionano la sfera più intima della nostra vita? E quale influenza hanno gli psicofarmaci sulla performance, ma soprattutto sulla serenità sessuale? Da che cosa hanno origine i disturbi del sesso? «Nascono - risponde il professor Romolo Rossi, ordinario di psichiatria dell’Università di Genova - quando la sessualità, intesa come realizzazione di una pulsione, può essere pericolosa. Ovvero, quando porta con sè elementi inaccettabili, per sè o per gli altri». Per esempio, un’eccessiva quantità di voyeurismo, di tendenze sadomaso, di necessità esibizionistiche e così via. «Oppure - continua lo psichiatra -, quando la sessualità è tale da mettere in pericolo la relazione con il mondo esterno, con il tessuto sociale».
Come interviene la psiche a questo punto? «Con un atto inibitorio. Riduce, nei maschi, la potenza, nelle femmine la sensibilità sessuale, ovvero la capacità di partecipare al rapporto. Così la sessualità diventa difficile, per la salvaguardia della psiche che la avverte come pericolosa». Nei confronti dell’impotenza maschile, però, l’industria farmaceutica s’è data da fare. «Vero - osserva lo specialista -, ma l’uso dei prodotti che inducono l’erezione ha un risvolto: può lasciare allo scoperto l’inconscio e rivelare elementi che l’impotenza sessuale tendeva a nascondere». Per esempio, un’omosessualità latente può essere “preservata” dall’impotenza. Il soggetto pensa di sè: «Andrei volentieri con le donne, ma non riesco ad avere l’erezione, quindi non lo posso fare». Se, invece, l’erezione è indotta da un farmaco e l’uomo scopre che non desidera affatto una donna, dovrà prendere coscienza della propria omosessualità. E potrebbe essere una via di liberazione.
Ma c’è anche un’impotenza che deriva dall’ansia di adeguare le prestazioni ai modelli che vengono imposti dall’esterno. «D’estate, per esempio - osserva Rossi -, la quantità dei giovani impotenti aumenta, perché questi ragazzi sono continuamente stimolati a dover essere sempre pronti ed eccezionali», per rispondere ai canoni di sex appeal imposti nel periodo delle vacanze.
Che cosa accade, invece, quando una persona viene trattata con psicofarmaci? «Gli antidepressivi, purtroppo, hanno un’azione abbastanza forte di riduzione della potenza e del desiderio sessuale - spiega il medico -. E’ interessante notare che stimolano l’appetito e fanno diminuire la potenza. Ed è curioso che aumenti una pulsione primitiva, come quella alimentare, e diminuisca una pulsione più evoluta, quella sessuale. E’ quasi come se l’una venisse sostituita dall’altra». Infatti, anche in persone che non assumono antidepressivi, c’è spesso la tendenza di sostituire con eccessive quantità di cibo una vita sessuale assente o che non soddisfa.
I disturbi della sessualità colpiscono l’8-10 per cento della popolazione, a vari livelli. «Qualsiasi disturbo psichico - dice Vittorio Volterra, ordinario di psichiatria dell’Università di Bologna - ha un ruolo sulla soddisfazione o sulla propria capacità sessuale. Su questo, poi, incide l’assunzione di psicofarmaci e si crea un circuito chiuso: spesso chi ha questi disturbi diventa depresso e chi è depresso va incontro, per via dei farmaci, a effetti collaterali. Così, non di rado, i pazienti abbandonano la cura. E’ il nostro problema: occorre trovare il modo di risolverlo, su questo ci stiamo confrontando».

AMMANNITI dulla depressione
Yahoo Notizie Mercoledì 25 Febbraio 2004, 17:30
PSICHIATRIA: 50% FIGLI DI DEPRESSE HA DISTURBI PSICHICI


(ANSA) - ROMA, 25 FEB - Una donna su dieci in gravidanza e' depressa e il 50% dei figli che nascono va incontro a disturbi di tipo psicopatologico in genere. Ad affermarlo e' lo psichiatra Massimo Ammanniti, professore di psicopatologia dello sviluppo, intervenuto a margine del IX congresso della Societa' Italiana di Psicopatologia, che spiega: ''I figli di madri depresse hanno quattro-cinque volte di piu' la possibilita' di andare incontro a disturbi di tipo comportamentale, affettivo, relazionale, nonche' a deficit cognitivi''.
''In molti casi la gravidanza puo' accentuare le manifestazioni depressive - spiega Ammanniti -. E' un periodo, infatti, nel quale i disturbi depressivi sono piu' accentuati: ansia, apprensione e la sensazione di non essere all' altezza''.
''Riconoscere la patologia depressiva in tempo - mette in guardia Ammanniti - e' importante in quanto e' durante il primo anno di vita del bambino che il rischio di suicidio e di infanticidio e' piu' alto''.
Il responsabile biologico che lega la madre depressa agli eventuali problemi del nascituro e' il cortisolo, un ormone della ghiandola surrenale che gestisce le situazioni di stress. ''La donna che soffre di depressione - conclude Ammanniti - ha un livello di cortisolo piu' elevato che si ripercuote nei processi di maturazione neurocerebrale del feto''. (ANSA).

EUTANASIA
Yahoo Notizie Giovedì 26 Febbraio 2004, 14:36
EUTANASIA: RICERCA, 78% CAMPIONE DICE SI', 37% CHIEDE LEGGE


(ANSA) - ROMA, 26 FEB - Il 78,6% degli italiani e' d'accordo con la possibilita' di eutanasia nel caso di malattie allo stadio terminale, ma solo il 37,1% ritiene necessaria una regolamentazione con una legge ad hoc. Il dato emerge da una ricerca condotta dalla sociologa Alessandra Sannella della Facolta' di Sociologia dell'Universita' La Sapienza di Roma su un campione di 500 individui tra i 26 e i 65 anni, ed e' stato presentato in occasione del Congresso della Societa' italiana di psicopatologia in corso a Roma.
Alla domanda 'e' d'accordo con l'eutanasia?', ha spiegato Sannella, il 78,6% del campione ha dato una risposta positiva. A dire si' ad eutanasia e suicidio assistito sono soprattutto le donne (56%) ed i soggetti con un grado di istruzione superiore. Tra i giovani, il 37% pensa che si tratti di una scelta personale. Si e' invece dichiarato ''assolutamente contrario'' a questa pratica il 35% del campione. Ma se la maggioranza degli italiani si mostra favorevole all'eutanasia in determinate situazioni, e il 59,4% afferma che sarebbe d'accordo con questa soluzione in caso di malattia terminale di un familiare, solo il 37,1% chiede una regolamentazione per legge.
C'e' poi un altro dato ''interessante'', ha sottolineato la sociologa: ''Il 20% di coloro che si dicono d'accordo con l'aborto, non sono invece favorevoli all'eutanasia. Questo perche' - ha spiegato - entrano in gioco due diverse concezioni dell'individuo: nel caso dell'aborto, infatti, il feto non e' ancora considerato un soggetto a tutti gli effetti, mentre nell'eutanasia ad essere colpito sarebbe un individuo pienamente inserito e riconosciuto nel contesto sociale''. Un dato che dimostra anche, ha aggiunto Sannella, come ''il fattore religioso non sia determinante in relazione alle scelte di fine vita''. Tra i contrari all'eutanasia, pero', il 47% dice di esserlo appunto per motivi religiosi, mentre il 17% rivela che continuerebbe a sperare in un miracolo fino alla fine.
Dalla ricerca emerge anche una dura critica al mondo dell'informazione: l'80% del campione, infatti, giudica l'informazione data dai mass media su questo tema ''frammentaria e poco comprensibile'', tanto che ''e' difficile formarsi un'opinione in merito''. Un ultimo dato: ''Il 20% del campione, una volta realizzato l'argomento della ricerca, effettuata attraverso la somministrazione di un questionario - ha affermato Sannella - si e' rifiutato di rispondere. Un elemento che indica chiaramente come - ha concluso la sociologa - l'eutanasia rappresenti ancora nella nostra societa' un tema tabu'''. (ANSA).

MASS MEDIA
Mercoledì 25 Febbraio 2004, 17:35
Psichiatria: Sopsi, Non Piu' 'Mostri' In Prima Pagina


Roma, 25 feb. (Adnkronos) - Dal congresso romano della Societa' italiana di psicopatologia (Sopsi) arriva l'impegno degli esperti con i mass media, per promuovere una corretta informazione sui disturbi psichiatrici. E' quanto emerso dall'incontro di ieri dal tema 'Sbatti il mostro in prima pagina', in cui psichiatri e giornalisti si sono confrontati per analizzare il livello di conoscenza degli italiani riguardo i disturbi mentali. Da confronto e' emersa la tendenza, da parte dei media, di parlare poco delle malattie mentali. E di farlo quando il malato e' un 'individuo pericoloso per la societa'', una persona che fa notizia. ''Vi e' una crescente e continua richiesta di conoscenza su tutto cio' che riguarda la psichiatria'', ha detto Paolo Pancheri, presidente Sopsi. E' fondamentale dunque ''migliorare il rapporto psichiatra-mass media e lavorare insieme per rendere l'informazione piu' chiara''. I rappresentanti della Sopsi si sono resi disponibili a dar vita ad una collaborazione costante, per aumentare la solidarieta' nei confronti delle persone affette da disturbi mentali, e vincere il pregiudizio. (Mar/Adnkronos Salute)

«La stanza vuota delle tre religioni»
Pietro Citati sui tre monoteismi


una segnalazione di Sergio Grom

Repubblica 26.2.04
La stanza vuota delle tre religioni
IL NOME SEGRETO DI DIO
Le tre religioni di Abramo, i monoteismi a confronto

Parlare di ebraismo, cristianesimo e dell´Islam è quasi impossibile, tanto sono complicati i loro cammini e le molteplici forme che hanno assunto nel tempo
È stato il filosofo e teologo Kierkegaard a sostenere che per un uomo di lettere leggere libri religiosi è un grande divertimento
Dio Padre e Allah sono figli di Jahve, gli assomigliano come un volto rispetto al suo riflesso specchiato Tutti e tre sono unici
L´islamismo non è Khomeini, bin Laden o lo sceicco Ahmed Yassin, ma una realtà immensa fatta di straordinarie cose
di PIETRO CITATI


PARLARE della religione d´Abramo, cioè dell´ebraismo, del cristianesimo e dell´Islam, è quasi impossibile. Sono religioni complicatissime, e ognuna d´esse si divide in sotto-religioni - giudeo-cristianesimo, cristianesimo paolino, cristianesimo neoplatonico, gnosi, luteranismo, calvinismo, controriforma: fariseismo, essenismo, ebraismo apocalittico, Zeloti, Cabala, chassidismo: Islam sunnita, sciita, sufi; e ho accennato appena a un centesimo di queste definizioni, nelle quali s´è espressa la grandiosa fantasia religiosa dell´uomo - la forma più sublime delle nostra immaginazione creatrice.
Non sono affatto uno specialista, ma solo un dilettante di cose sacre. A mia scusa, posso ricordare una frase di Kierkegaard: il quale diceva che, per un uomo di lettere, leggere libri di religione è il più grande e forse l´unico divertimento. Se una volta siamo stati creati da Dio oppure l´abbiamo creato (la differenza è irrilevante), ora giochiamo con lui: o soprattutto, lasciamo che lui, nascosto dietro una cortina, giochi con noi, legati a lui da migliaia di sottilissimi fili, come il burattinaio muove sulla scena le sue marionette di pezza.
Nel primo secolo dopo Cristo, esisteva il Tempio di Gerusalemme: il secondo Tempio, che venne distrutto dalle truppe romane nel settanta dopo Cristo. Aveva la porta ricoperta d´oro da cui pendevano grappoli d´oro alti come un uomo: gli ori risplendevano sotto i raggi del sole, facendo chiudere gli occhi a chi cercava di fissare il Tempio da lontano. All´aperto stava l´altare dei sacrifici, dove il fuoco non si spegneva mai. All´interno, dietro una tenda, il Santo dei Santi, inaccessibile, invisibile, dove aleggiavano lo spirito e il nome segreto di Dio. Sino alla fine, il Tempio fu circondato da un immenso prestigio nel mondo pagano: quasi tutti i popoli del Mediterraneo vi portavano doni votivi. Nel 63 avanti Cristo, avvenne uno scandalo. Pompeo il grande violò il Tempio di Gerusalemme, penetrando nel Santo dei Santi. Non scorse nulla. La stanza era vuota. Molti pagani si presero gioco di Israele. Alcuni (ne sono certo) compresero che il Santo dei Santi era vuoto perché solo il vuoto può alludere all´essenza inafferrabile e incomprensibile di Dio. Non dimentichiamo mai quella stanza. Tutti i templi cristiani e le moschee islamiche e le sinagoghe della diaspora vengono di lì. Non badiamo allo splendore delle architetture, delle pitture, delle sculture, dei pulpiti, delle lampade, dei mihrab, dei colori nelle chiese e nelle moschee. In ognuna di esse, nascosta sotto i colori, c´è sempre quella stanza vuota, dove aleggia lo spirito di Dio. Senza quel vuoto profondissimo, nessun tempio può esistere. Noi siamo ancora là, in quel Santo dei Santi, che per mille anni ebrei, cristiani e musulmani hanno inutilmente cercato sotto le rovine del tempio di Gerusalemme.
Dio Padre e Allah sono figli di Jahve: gli assomigliano come un volto rispetto al suo riflesso specchiato. Tutti e tre sono unici. Tutti e tre, diceva Agostino, sono altissimi et secretissimi, proximi ed praesentissimi. Proprio perché sono unici, hanno qualità opposte: abitano le ultime lontananze dei cieli, dietro settantamila cortine di luce e di tenebra, e stanno vicino a noi, più prossimi, diceva il Corano, della vena del nostro collo: sono tutte le cose e non si identificano con nessuna delle cose: sono inconoscibili e conosciutissimi, come Cristo: sono gelosi, tirannici, tremendi, e ci sfiorano con la grazia più delicata: sono immutabili e mutevolissimi; se qualche volta ci inducono a peccare, lo fanno solo per perdonarci. Come diceva un teosofo islamico, il nome Allah, cioè Dio, deriva dalla radice wll, che esprime la nostra dolorosa nostalgia di Dio.
Nella mediocre coscienza religiosa dei nostri giorni, abbiamo dimenticato che il rapporto col Dio unico è un rischio: il più grande che possiamo affrontare. Qualsiasi vera esperienza religiosa, anche politeista, è un rischio: lo sa, nell´Iliade, Elena che viene posseduta da Afrodite; e, nell´Odissea, i devotissimi Feaci, che diventano vittime sia di Posidone sia (forse) di Zeus. Ma l´esperienza monoteista è più tragica. Lo sguardo del devoto ebreo, cristiano, o islamico, sta fisso sul punto luminoso-oscuro, che si rivelò, durante l´Esodo, tra le colonne di nubi e di fuoco del cielo. Se la fiamma divoratrice del roveto ardente, dove Dio si nasconde, è troppo intensa, possiamo venire distrutti. Quando Allah possiede la mente del mistico islamico, questi non conosce quiete perché Egli non si vela ai suoi sguardi nemmeno un istante. Appena il mistico entra nella Valle dell´Amore, gli sembra di tuffarsi nel fuoco. Non gli resta che annullarsi nel mare del mistero: o immolarsi sulla stessa croce di Cristo.
Vi è forse un pericolo ancora più grande. Chi crede nel Dio unico, pensa che il suo regno debba essere attuato qui ed ora, su questa terra, con assoluto rigore, nella purezza assoluta delle leggi e dei riti. Qualsiasi rinvio o compromesso è un tradimento. Nessuna idea è più pericolosa: nessuna ha portato maggiori disastri nella storia universale; specialmente in quella ebraica, ma anche in quella cristiana ed islamica e nelle storie profane. Durante il primo secolo dopo Cristo, gli ebrei attendevano il Messia, nato da un uomo e da una donna. Quando egli fosse venuto, allora sarebbe giunto il Giudizio, il Regno, una nuova creazione. Un fervore incontenibile si impadronì di molti ebrei. Fra di essi, i qanna´im, gli Zeloti, non volevano aspettare pazientemente il regno di Dio, ma volevano affrettare «la fine», accelerando la venuta del Signore. Sappiamo cosa accadde: la distruzione del secondo Tempio, il rogo del Santo dei Santi, la fine dei sacrifici, la perdita del nome segreto di Dio, il ferocissimo massacro da parte dei Romani, l´infinita, interminabile diaspora, che non è ancora finita.
Dopo di allora, Israele venne guidato soprattutto dai rabbini. Essi non volevano «affrettare» la venuta del regno di Dio. Predicavano la pazienza, la calma, lo studio della Bibbia, il commento insaziabile delle parole sacre, l´attesa. Si chiusero nel silenzio, nel dolore e nella gioia segreta - perché Dio era presente in tutte le scintille luminose della terra. Quasi lo stesso accadde nella Chiesa cristiana. Malgrado le aspettative, Gesù non discese dal cielo; e, come i rabbini di Israele, i sacerdoti cristiani appresero che solo la cautela e la discrezione, e un infinito amore che accetta l´infinita distanza, possono permettere a Dio e agli uomini di entrare in rapporto.

Tutti conoscono la scena del dramma primordiale. Dio dispone Adamo ed Eva nel giardino di Eden, al centro del mondo, dal quale escono i quattro fiumi dell´universo. Alla brezza del giorno, Dio cammina nell´Eden e l´uomo è il suo tempio. Nel mezzo del giardino, sta l´albero della vita: probabilmente lì accanto l´albero della conoscenza del bene e del male. A partire dal primo secolo avanti Cristo, quante volte ebrei e cristiani hanno ripetuto e come salmodiato il nome dei due alberi! Quante volte hanno cercato di interpretarli! Tutta la nostra vita, soprattutto oggi, dipende dal loro significato.
Non credo che l´albero della conoscenza offra (come qualcuno dice) «l´onniscienza nell´accezione più lata del termine»: la cognizione del bene e del male è solo una parte della conoscenza totale. Per quanto possiamo capire, il suo frutto divide il mondo secondo le forze opposte del bene e del male: instaura nel mondo unitario delle origini la separazione, l´antitesi, la lacerazione, l´opposizione. Da una parte c´è il bene, dall´altra il male: da una parte c´è il sacro, dall´altra il profano; e poi via via il puro e l´impuro, il permesso e il proibito, la vita e la morte, la virtù e il peccato, la legge e la violazione.
Chi ha conosciuto il bene e il male, vive cogli occhi aperti: cogli occhi tragicamente aperti sulle lacerazioni della realtà. Mangiando il frutto, entriamo nel regno della morte, viviamo nella morte, esperimentiamo la morte, dalla quale Dio voleva sottrarci all´inizio dei tempi. Non eravamo fatti per vedere il mondo secondo l´antitesi e la contraddizione, la luce e la tenebra.
L´altro albero, l´albero della vita, è ancora più misterioso. Sappiamo soltanto che ci dona «la vita eterna». Senza che nessuna parola lo dica esplicitamente, è lecito supporre che Dio avrebbe concesso all´uomo di mangiarne i frutti, diventando immortale. Così possiamo immaginare il progetto che Dio aveva preparato per l´uomo. Adamo ed Eva dovevano vivere cogli occhi chiusi, senza entrare nel regno della chiarezza e dell´opposizione: senza conoscere né il bene né il male, né la morte né la storia. Ma vivere ad occhi chiusi non esclude la conoscenza. Tutto lascia credere che lassù Adamo ed Eva avrebbero posseduto una conoscenza che si unificava con l´unitaria realtà divina del mondo. Come sempre, Kafka ha visto meglio di tutti: «Esistono, per noi, due specie di verità, come vengono rappresentate dall´albero della scienza e dall´albero della vita... Nella prima, il bene si distingue dal male: la seconda non è altro che il bene stesso, ed ignora sia il bene sia il male».
Il progetto di Dio viene infranto. Eva e Adamo peccano. Questo gesto tra le ombre del giardino rivela cosa si annidava nel cuore già notturno dell´uomo: Adamo non vuole restare una creatura, desidera diventare sicut Deus, precipitando fuori dal proprio limite. Il suo atto è duplice. Da un lato, si avvicina a Dio, diventa sicut Deus, guadagna una conoscenza divina: ma, dall´altra, acquista la caratteristica che definirà per sempre l´uomo, perché soltanto l´uomo (non Dio né gli animali) conosce le cose esclusivamente attraverso lo sguardo limitato e opposto del bene e del male.
In questo momento, con rapidità vertiginosa, nasce la storia umana: quella che stiamo ancora sopportando. L´uomo comincia a vivere ad occhi aperti. Conosce la divisione, la separazione, l´antitesi: esperimenta il bene e il male, il sacro e il profano, il peccato, la vergogna, la cacciata, il desiderio amoroso, il parto, la paternità e la maternità! Mentre prepara un vestito colle foglie di fico, inventa la civiltà e la cultura. Così la tradizione ebraica e cristiana nasce dopo il peccato, attraverso la coscienza e la vergogna per il peccato. Anche Dio si sposta. Lascia l´Eden vuoto, e si avvicina alla storia. L´atto col quale si accomiata da noi è dolcissimo: prepara «due tuniche di pelle», e ne veste Adamo ed Eva cacciati dall´Eden. Così ci fa capire che, d´ora in poi, malgrado il peccato, egli proteggerà l´uomo e la cultura; e da Dio della creazione si trasformerà in Dio della storia.
Questo racconto ha un epilogo, simile tra cristiani ed ebrei, che ci riporta di nuovo fuori dal tempo. Nell´Apocalisse cristiana di Giovanni, la Gerusalemme che discende dal cielo è una misteriosa città cubica di diaspro, illuminata dalla luce gloriosa di Dio, senza sole e senza luna, senza notte, senza templi, dove l´uomo abita in Dio e in Cristo. Accanto a un fiume, sorge l´albero della vita, che porta dodici frutti - ma l´albero della conoscenza del bene e del male, attraverso il quale la colpa è entrata nel mondo, è scomparso. Siamo dunque ritornati nell´Eden, senza più peccato. I cabalisti ebrei pensano invece che le radici dei due alberi edenici fossero le stesse. Mangiando il frutto del bene e del male, la colpa di Adamo era stata quella di isolare tra loro i due alberi, trasformando l´albero della conoscenza in albero della separazione e della morte. Dunque noi tutti, ebrei e cristiani, dobbiamo scavare il terreno dell´Eden che vive in ognuno di noi, e dimostrare che esiste soltanto una radice, che tutti i rami emanano da un medesimo tronco, che tutte le nostre sensazioni, pensieri e fedi non sono che un unico flutto di luce.

Passarono tredici o forse quattordici secoli. Nel settimo secolo dopo Cristo, la vecchia storia di Adamo fu narrata un´altra volta, anzi più volte, nel Corano, che raccoglieva in parte tarde leggende ebraiche; e poi raccontata ancora dalla tradizione sunnita e in quella sciita, finché nel nono secolo, a Bagdad, un sapientissimo teologo e storico, Tabari, la raccontò un´altra volta nei trenta volumi del suo commento al Corano e nei centoventi volumi delle sue Notizie dei profeti e dei re. Tutto cambiò. Nella Genesi, la creazione di Adamo è un atto superbamente solitario di Dio: nel mondo appena nato, Dio forma l´uomo dalla polvere della terra, o «a sua immagine e somiglianza». Non c´è nient´altro che questo gesto: questo fronte a fronte tra Dio e l´uomo; gli occhi creatori puntati sulla creatura. Il mondo del Corano è invece popolatissimo: una grande scena di teatro, un coro sonoro e colorato, dove prendono la parola, uno dopo l´altro, Allah, gli angeli, Satana, la terra, Adamo.
Allah impone agli angeli di rendere omaggio alla nuova creatura: un immenso gigante di argilla, che diventerà Adamo. C´è qualche protesta: «Vuoi mettere sulla terra chi vi porterà la corruzione e vi spargerà il sangue»: poi gli angeli chinano il capo e accettano. Con una sola eccezione, Iblis, Satana, che rifiuta di prosternarsi e dice: «Io sono migliore di lui: tu mi creasti col fuoco, e creasti lui di fango». Imperiosamente, Allah lo caccia: «Via di qui! Non ti è lecito, qui, fare il superbo. Via. Sei ormai un essere spregevole».
La tradizione islamica è più complessa e variegata di quella cristiana. Secondo la versione sufi, cioè mistica, Satana è il primo monoteista, che si ribella a Dio per amore di Dio. Quando Allah comanda agli angeli di prosternarsi davanti ad Adamo, Satana rifiuta perché ama Dio più puramente degli altri, e può venerare solo la sua essenza incomunicabile. Il Signore lo punisce segregandolo nel più buio degli inferni. Appena ode pronunciare la condanna, Satana dice a sé stesso che essa scende dal soglio di Dio, come la pioggia della sua grazia, e l´accoglie con il fervore della propria anima. Ha un unico desiderio: servire da bersaglio alla freccia di Dio. Sa quanto sia soave: perché, prima di lanciare la freccia, Allah fissa lo sguardo sul bersaglio della propria collera. Allora il dolore della ferita viene dimenticato. La memoria accoglie soltanto la beatitudine di quello sguardo divino, dove la collera si confonde con la più dolce delle misericordie.
Nell´Eden islamico c´è un solo albero. Per quanto io sappia, non esiste la minima traccia di quel complicato e delicatissimo intreccio tra l´albero della vita e l´albero della conoscenza, che appare nella Genesi ebraico-cristiana. Nel Corano, esso è l´albero della vita eterna: i commentatori arabi parlano di vigna, grano, olivo, palma, lavanda, fico, melo e (naturalmente) sesso femminile. Il saggio Tabari aggiunge: «Non ne sappiamo niente». Ma già nel Corano un fatto è evidente. Sebbene Adamo sia cacciato dal Giardino e conosca una vita di lacrime sulla terra, la sua colpa non è l´evento capitale, anzi l´evento della tradizione ebraico-cristiana. Come dice l´esegesi sunnita, alla quale ha dedicato un eccellente libro Ida Zilio-Grandi (Il male nel Corano, Einaudi), la colpa di Adamo è lieve. Qualcuno la nega: qualcuno dice che Adamo era ubriaco; qualcuno che si era dimenticato dell´ordine di Dio (singolare dimenticanza per un grandissimo profeta). L´Islam (o una parte di esso) non è dunque fondato sul peccato originale: quel peccato immenso, che per noi Cristiani solo il sacrificio di Gesù sulla croce riuscirà a cancellare. Ignora la colpa primitiva, che l´Occidente, persino quello illuminista, non ha mai dimenticato.
Qualche secolo dopo, la tradizione sciita racconta una storia diversa. Nel giardino dell´Eden, Adamo soccombe alla vertigine dell´ambizione, trasgredendo il proprio limite. Mentre mangia il frutto dell´albero sconosciuto, egli vuole conoscere il mistero di luce che non può ancora raggiungere, acquistando con violenza la scienza della Resurrezione, che sta al di fuori della sua e della nostra misura. Noi, ebrei e cristiani, ritroviamo almeno in parte il nostro Adamo. Ma solo in parte. L´Adamo, di cui parla san Paolo nella Lettera ai Romani, è il rovescio di Cristo: «Per mezzo di Adamo il peccato entrò nel mondo e per mezzo del peccato la morte, e in tal modo la morte si estese a tutti gli uomini, perché tutti peccarono... Se per il delitto di un solo la morte regnò per colpa di un solo, molto più quelli (i cristiani) che ricevono l´abbondanza della Grazia... regneranno nella vita per merito di uno solo, Gesù Cristo». L´Adamo degli sciiti resta, invece, il primo tra i profeti: l´epifania del Misericordioso, la più pura sostanza del mondo angelico. Secondo una tradizione, il Nome supremo di Dio comprende settantatré lettere, di cui una è conosciuta soltanto da lui. Due lettere furono date a Gesù: quattro a Mosé: otto ad Abramo: quindici a Noé: venticinque ad Adamo; settantadue a Maometto. Dunque, Adamo, il peccatore, è il supremo tra i profeti, dopo colui che li riassume tutti in sé stesso, Maometto.
Secondo un´altra concezione islamica, la terra è avvolta dalle azzurre montagne di Qaf, che simboleggiano la nona sfera celeste. Ai suoi piedi si estendono due immense città, Jabalqa e Jabarsa, che hanno quattro lati di quattordicimila parasanghe. La popolazione è incalcolabile. «Ogni città ha mille fortezze, e in ognuna di queste fortezze c´è una guarnigione di mille soldati, che vi fanno la guardia ogni notte». Non c´è sole né luna: il tenero azzurro smeraldino di Qaf illumina ogni torrione, ogni merlo, ogni soldato della fortezza; e dal suolo proviene un´altra luce. Qui Allah ha progettato una storia diversa da quella di Adamo. Gli abitanti di Jabalqa e di Jabarsa non discendono da Adamo, e non hanno mai sentito parlare di lui e di Satana. Mentre noi, Adamiti, ci nutriamo di carne, indossiamo vestiti, apparteniamo a due sessi, lassù gli abitanti delle due città si nutrono di erbe, vivono nudi, sono androgini e non generano figli. Convertiti da Maometto all´Islam nella notte del suo velocissimo viaggio celeste, rivolgono ad Allah la perfetta obbedienza degli angeli.

Molti, nel lontano e vicino passato (e persino oggi) sognarono una condizione nella quale le tre religioni di Abramo convivessero pacificamente. Mi duole per i miei confratelli cristiani: questo non accadde mai sotto il dominio dei sovrani cristiani, troppo affaccendati a massacrare ebrei. Accadde soltanto - sia pure per intervalli, interruzioni, nell´imperfettissimo modo umano - sotto il dominio politico di califfi e sovrani islamici, in Spagna e nell´Africa settentrionale. Un famosissimo verso del Corano aveva detto: «A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via: mentre, se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica».
Il Corano stabiliva che ebrei, cristiani, zoroastriani erano popoli eletti. Imponeva una tassa (spesso gravosa) a chiunque di loro volesse professare la propria religione. Era un´umiliazione: il segno di un´inferiorità radicale rispetto ai veri credenti, gli islamici. Ma anche una protezione. Quando avevano pagato la tassa, ebrei e cristiani avevano il diritto di venerare il proprio Dio, leggere i propri libri sacri, svolgere le loro cerimonie, e amministrare le proprie comunità.
Penso soprattutto al califfato di Cordoba nel decimo secolo: che una famosa monaca tedesca, Rosvita, chiamò «lo sfavillante ornamento del mondo». Cordoba aveva novecento bagni, migliaia di negozi, centinaia o migliaia di moschee, acque correnti portate dagli acquedotti, strade lastricate e luminose. La Biblioteca del califfo conteneva quattrocentomila volumi: il suo catalogo occupava quarantaquattro volumi; mentre altre settanta biblioteche erano aperte a chi voleva leggere l´arabo, il latino, l´ebraico. Allora le biblioteche dei conventi europei non comprendevano, di solito, più di quattrocento codici. Il visir del califfo era Hasdar, figlio di Isacco, figlio di Ezra, capo della comunità ebraica. Uno degli ambasciatori era Recemondo, vescovo cristiano.
A Cordoba, le acque, le luci, i negozi, le biblioteche, i cataloghi non durarono a lungo. All´inizio dell´undicesimo secolo, i mercenari berberi del Califfo distrussero la città e la meravigliosa reggia di Madinat al-Zahra. Poi, sempre dal Marocco, arrivarono gli emiri Almoravidi, che detestavano ebrei e cristiani e soprattutto i musulmani mistici. Che non condividevano il loro fanatismo. Come vedete, l´Islam non è mai stato privo di qualche Osama bin-Laden. Nel 1109, gli Almoravidi bruciarono in piazza un libro di Al-Ghazali, uno scrittore grandissimo, nato nell´Iran orientale. La cosa più straordinaria è che mentre i fogli del libro si accartocciavano e si annerivano sotto la violenza del fuoco, la popolazione di Cordoba tumultuò e si ribellò contro gli emiri berberi. Fu l´unica volta, credo, nella storia del mondo che un popolo si ribellò per difendere un libro: questa cosa fragile, delicatissima, fatta di lettere, colori, respiri, profumi e nostalgia.
Mai come oggi la religione di Abramo è torturata e divisa. I cristiani non conoscono né Israele né l´Islam: l´Islam non conosce né il cristianesimo né Israele, e soprattutto se stesso; Israele conosce poco il cristianesimo e l´Islam. Una mediocrissima setta religiosa, i Wahhabiti, diffusa nell´Arabia Saudita, fino a pochi decenni fa disprezzata nell´Islam, è oggi la più importante del mondo musulmano. Quando si impadronirono dei luoghi santi, i Wahhabiti distrussero le tombe dei parenti, dei compagni e delle mogli di Maometto, e avrebbero distrutto anche la tomba di Maometto, se la gente di Medina non si fosse rivoltata. Di lì venne Osama bin-Laden e il terrorismo. Ma non c´è una sola pagina, nei testi fondamentali dell´Islam, che prescriva il terrorismo, o l´assassinio degli innocenti. Persino l´inizio delle guerre sante, come dice Bernard Lewis in un libro recentissimo (La crisi dell´Islam, Mondadori, traduzione di Ludovico Terzi, euro 16,50), deve essere scrupolosamente annunciata agli infedeli.
Nei paesi islamici, specie in Algeria e in Libia, gli europei hanno compiuto cose orribili: mentre Abd el-Kader, un mistico sufi, l´eroe della resistenza algerina ai francesi, difendeva i cristiani di Damasco dalla violenza dei Drusi. In questo secolo, l´Occidente ha posseduto alcuni grandi orientalisti: Louis Massignon, Shelomo Dov Goitein, Henri Corbin, Johannes van Ess. Nessuno di loro ha imposto qualcosa all´Islam: ha invece cercato di studiare e capire le tradizioni arabe o persiane che l´Islam aveva trascurato o dimenticato. Questa è l´unica strada che ogni uomo di cultura occidentale possa percorrere: far conoscere all´Europa (il quale lo ignora) e all´Islam (il quale lo ha quasi dimenticato) che l´Islam non è Khomeini, Osama bin-Laden o lo sceicco Ahmed Yassin, ma una realtà immensa - il Corano, Ferdousi, Nezami, Avicenna, al-Ghazali, Suhrawardi, Ibn Arabi, Rumi, Hafez, Ibn Khaldun, e quell´aereo capolavoro erotico-esoterico, scritto dagli uomini e dalle creature celesti, che da tre secoli affascina l´Occidente: Le mille e una notte.

depressione e cefalea

Yahoo Notizie Giovedì 26 Febbraio 2004, 12:37
MEDICINA: DEPRESSIONE, NELLE DONNE ALLEATA DEL MAL DI TESTA


(ANSA) - TORINO, 26 FEB - C' e' una relazione non casuale tra emicrania cronica e depressione. E' quanto emerge da uno studio di un gruppo di ricercatori dell' Universita' di Torino e pubblicato recentemente su ''Cephalgia'', la piu' importante e autorevole rivista al mondo che si occupa di cefalee.
L' equipe che ha condotto la ricerca era guidata dal professor Franco Mongini, responsabile del servizio cefalee e dolore facciale della Clinica odontostomatologica dell' ospedale Molinette e del dipartimento di fisiopatologia clinica dell' Universita' di Torino. Per sei anni sono state poste sotto osservazione 56 donne affette da emicrania. Prima del trattamento e' stato loro chiesto di annotare su un diario per un mese frequenza, gravita' e durata del mal di testa ed e' stata analizzata l' eventuale presenza di depressione mediante un colloquio e test psicologici. Le pazienti sono state quindi curate e la risposta alla terapia valutata con i diari.
Sei anni piu' tardi le pazienti sono state richiamate e, se ancora presente, il mal di testa e' stato nuovamente monitorato con i diari. Le pazienti sono quindi state suddivise in ''migliorate'' e ''non migliorate'' ed e' emersa la relazione fra emicrania cronica e depressione. Infatti, le pazienti ''non migliorate'' presentavano sin dall' inizio dello studio una presenza di depressione significativamente piu' elevata rispetto al gruppo delle ''migliorate''.
Secondo i ricercatori quindi, i dati dimostrerebbero che ''a parita' di gravita' di mal di testa la depressione puo' favorire nel lungo periodo la ricomparsa del dolore''. ''E' dunque importante - affermano - accertare in ogni paziente tempestivamente la presenza di depressione e in caso positivo trattarla contestualmente al mal di testa, controllando i risultati della terapia a scadenze regolari''. (ANSA).