domenica 31 ottobre 2004

la registrazione di Fahrenheit del 26.10 sul tema«la psicoanalisi serve ancora?»

con Umberto GALIMBERTI

Manuela FRAIRE e Giovanni STARACE




Annalina Ferrante fa sapere che

chi non avesse potuto ascoltare la trasmissione di Fahrenheit, andata in onda martedì mattina su RadioTre, in diretta potrà farlo ancora collegandosi all'Archivio dove essa è rimasta registrata

al seguente indirizzo (basta cliccarci sopra):



http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=108954

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la trasmissione di Radio3scienza del 25.10 sull'omosessualitàcitata al Lunedì

può essere ascoltata collegandosi al sito dell'Archivio della trasmissione

cliccando sul seguente link:



http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/scienza/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=108731&Q_PROG_ID=344

La gaia natura - Radio3scienza 25.10.04

«Gli ospiti:

Carlo Bernardini, fisico dell'università La Sapienza di Roma e direttore della rivista Sapere,

Alessandro Cellerino, ricercatore del dipartimento di neurofisiologia del Cnr di Pisa,

Francesca Corna, psicologa dell'università di Padova,

Maurizio Macchiarulo, docente di fisica al liceo scientifico "Renato Donatelli" di Terni, e i suoi studenti Chiara e Stefano,

Carlo Alberto Redi, docente di biologia dello sviluppo all'università di Pavia.»


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le polemichesul test britannico per la misurazione dell'intelligenza dei neonati

La Stampa 31.10.04

POLEMICA IN INGHILTERRA

Test d’intelligenza per i neonati

Ma il quiz dello psicologo spaventa i genitori

di Maria Chiara Bonazzi



LONDRA. Un gruppo di studiosi ha messo a punto un test per permettere ai genitori di determinare se il loro bebé abbia un'intelligenza più o meno sviluppata rispetto alla media. Secondo gli inventori, si tratta di un metodo divertente per valutare l'agilità mentale dei figli.

Immediatamente però sono scattate le critiche: altri psicologi protestano che cominciare a dare le pagelle agli infanti è una sventura. Di sicuro le dieci domande del questionario hanno già messo in ansia alcune povere mamme inglesi, portate a ravvisare nel punteggio i presunti segni particolari del genio in erba o viceversa la temuta riprova che il loro bambino è un po' più lento degli altri.

Il «Baby Development Test», ovvero test di sviluppo dell'infante, commissionato a Dorothy Einon, una psicologa del University College di Londra, dall'azienda di giocattoli Fisher-Price, è un quiz destinato ai bambini di età compresa tra sei mesi e un anno, basato sulla comprensione elementare del linguaggio, la consapevolezza di giocattoli e oggetti e l'interazione con essi. Ogni domanda ha tre possibili risposte, una delle quali dovrebbe avvicinarsi di più al comportamento del bambino.

Stando a quanto dicono gli studiosi del Social Issues Research Centre di Oxford, il 75% dei genitori è in grado di riconoscere le tappe dello sviluppo fisico del bambino, ma è desideroso di valutare meglio se il piccolo abbia raggiunto un grado normale di sviluppo intellettuale per la sua età.

Il test valuta le reazioni del bambino quando mangia o lascia cadere un orsacchiotto per terra, se gli piaccia ascoltare le filastrocche o trastullarsi con un telefono giocattolo. Per esempio: il bambino tratta il telefono come un altro giocattolo qualunque o come un telefono vero? Se fa finta che sia un telefono vero, cioé lo avvicina all'orecchio e spinge i tasti, il suo sviluppo è ritenuto più avanzato rispetto alla media.

La dottoressa Einon consiglia tuttavia ai genitori di non preoccuparsi se il progresso intellettuale dei loro figli sembra essere un po' più lento: «Non tutti i bambini si sviluppano allo stesso modo. Può darsi che i bambini che cominciano a gattonare e camminare tardi abbiano un punteggio più basso, ma la maggior parte dei bambini recupera in fretta non appena impara a muoversi. Sappiamo che il primo anno di vita non serve granché a pronosticare come saranno i bambini da grandi. La maggior parte di loro si rimetterà in pari». L'autrice del test aggiunge tuttavia: «La maggior parte dei genitori vogliono sapere come stimolare meglio i loro bambini. Ai nostri giorni è più importante andare bene a scuola».

Ma nella comunità scientifica si levano già le voci di chi obietta che il test rischia di seminare inutilmente il panico tra i genitori i cui figli non raggiungono il massimo del punteggio. La dottoressa Emma Hewson, psicologa dell'infanzia, ha definito il test «discutibile dal punto di vista scientifico ed etico». «I bambini si sviluppano a velocità diverse, che non sono necessariamente utili a predire il loro quoziente intellettivo futuro. Mi preoccupa che questo test possa incoraggiare la gente a etichettare i bambini, il che è assurdo a un'età così tenera, e possa provocare inutili ansie fra i genitori» sostiene.

Anche il professor David Adey, docente di psicologia cognitiva al King's College di Londra, ha detto al «Daily Telegraph»: «Esiste il pericolo reale che i genitori cadano in preda al panico se il loro bambino non raggiunge il massimo dei voti».

il potere delle immagini

Corriere della Sera 31.10.04

Paradossi: ma la Legge di Mosè condanna le immagini

di RÉGIS DEBRAY



Anticipiamo un brano della introduzione di Régis Debray a «La Bibbia nei capolavori della pittura» (Piemme) in libreria da martedì.



La Bibbia è protagonista di un affascinante paradosso: il Libro che proibisce le immagini si è trasformato in uno scrigno di immagini, è diventato il grande archivio dell’occhio occidentale. E proprio il racconto che ci ha consegnato il divieto di fabbricare e adorare idoli pena la morte - pensiamo alla spietata punizione riservata da Mosé agli adoratori del vitello d’oro - è una delle immagini bibliche più indelebili conservate nella memoria collettiva.

Su questo tema, il Corano è molto meno severo della Bibbia, tant’è che l’iconoclastia islamica si basa piuttosto su alcuni hadith, ovvero su parole del Profeta e su tradizioni trasmesse oralmente, che non fanno parte del Corano. Nell’Antico Testamento, invece, la fobia ossessiva nei confronti delle immagini nasce da Dio stesso. Ed è categorica, è una legge impressa da Dio su tavole di pietra in caratteri di fuoco.

A questo punto ci chiediamo: noi che ci concediamo il piacere di vedere ciò che dovremmo soltanto leggere, siamo forse tornati ad essere politeisti, animisti o stregoni? Passi la nostra caduta nell’idolatria, ma trascinare con sé anche il più iconoclasta dei testi sacri...

Per gli «inventori» del primo Dio privo di un’immagine, il rifiuto del simulacro fu il punto di partenza per affermare il mistero divino. Il punto d’arrivo è, oggi, la più grande pinacoteca del mondo. Questa metamorfosi sbalorditiva merita una riflessione. Si tratta di un indebito mutamento di rotta o di un’eccezionale ricompensa postuma che rende giustizia all’arte figurativa?

Eppure i profeti ci avevano avvertito: l’immagine ha la capacità di stregarci! Ha potere sulle cose e sugli spiriti. L’immagine appartiene alla sfera della magia, agli spiriti della notte, possiede un fascino femminino malefico. La magia è la manipolazione dei poteri dell’occulto attraverso strumenti e meccanismi materiali. La religione, invece, non vuole costringere l’uomo dentro la sfera materiale, ma permettergli di entrare in relazione con la (o le) divinità attraverso la preghiera, in un rapporto vivo e personale che, in linea di principio, dovrebbe fare a meno di oggetti concreti inerti, come lo sono un’immagine dipinta o scolpita.

Il monoteismo vorrebbe essere un «esercizio di lettura», al riparo dal benché minimo sospetto di idolatria; per questo respinge ogni immagine che pretenda di possedere una somiglianza con il divino e di sostituirsi con il simbolo verbale. E l’idolo non è soltanto l’immagine di un falso dio, ma anche la falsa immagine del vero: infatti, la verità del Dio infinito è incommensurabile e non si può esprimere attraverso i limitati mezzi materiali offerti dal basso mondo in cui siamo immersi. L’Invisibile è «leggibile», ma non «raffigurabile». Potenza della Parola, impotenza delle raffigurazioni. «Non avrai altri dei oltre a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo nè di quanto è quaggiù sulla terra, nè di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Esodo 20, 3-5). L’immagine è troppo piccola, e Dio troppo grande. Le immagini pesano molto, e l’uomo che ha un solo Dio vuole essere un viaggiatore senza bagaglio. L’ebreo errante, il viandante che mai riposa, l’homo viator - per la sua condizione di pellegrino su questa terra - è l’uomo del Libro. Egli non può né vuole caricarsi di altari, statue o effigi, pesanti fardelli che frenano la sua marcia verso il destino.

La Bibbia, tuttavia, è stata più forte di Dio. Ha fatto prevalere sui divieti una storia, o mille storie, che rimandano l’una all’altra e che si susseguono in fila indiana. L’Eterno enuncia i comandamenti, fissa gli obiettivi e ci ricorda freddamente i nostri doveri. Il suo ruolo è quello di intimidire. E’ un Capo. Sempre in piena forma. Il suo popolo invece fa registrare alti e bassi incredibili, passa continuamente dal vuoto di fede allo stato di grazia. La storia del popolo d’Israele è fatta di improvvisi e improbabili colpi di scena. Episodi che commuovono, angosciano, catturano l’attenzione. L’Eterno può, e certamente deve, fare a meno di immagini (Deus pingi non potest), ma laddove si racconta una storia, non si può impedire all’immaginazione di mettersi in moto, abbinando un volto a ogni nome e colorando la scena. Un Dio senza volto è sempre un po’ disumano, e non a casa le religioni che fanno capo ad Abramo e che separano il divino dal creato non sono certo le più tenere nè le più indulgenti nei confronti del peccatore, dell’apostata o dell’infedele. Fortunatamente, tra Lui e noi, c’è la Bibbia, che ci presenta un Dio più umano vicino, in attesa che il Figlio e il Vangelo rendano poi ancora più dolce e quasi materna questa «umanità» del Divino. Dio non ha nomi, nell’Antico Testamento è indicato da un tetragramma, talvolta soltanto da una pudica iniziale (l’enciclopedia dell’ebraismo si limita a una «D»). E non ha neppure forme, tant’è che quando appare prende le sembianze di un roveto ardente, ovvero un fuoco senza contorni ben definiti. All’inizio, violare il comandamento di non produrre immagini era grave quanto commettere un incesto o un omicidio. Esiste perfino un trattato contenuto nel Talmud, l’Avodah zarah, che impedisce a un ebreo di concludere un affare con un pagano idolatra nel giorno che precede una festa, per paura che quest’ultimo offra in sacrificio al suo idolo ciò che ha guadagnato. Ciononostante, gli Ebrei adorarono il vitello d’oro ed eressero altari a Baal e ad Astarte e posero anche due cherubini scolpiti sull’arca dell’Alleanza.

D’altra parte, viene da domandarsi: il divieto sarebbe stato formulato con tanta forza e consegnato a Mosé su tavole di pietra, e poi scandito e ripetuto da tanti profeti, se la rinuncia all’idolatria fosse stata tanto semplice?

sesso e filosofia...

Corriere della Sera 31.10.04

SAGGI

Lezioni di sesso con i grandi pensatori

Il filosofo? E’ in camera da letto

di Giulia Ziino




PIETRO EMANUELE Filosofi a luci rosse

Editore Salani Pagine 206 €12,50




Il sesso? Prendiamolo con filosofia. Da Platone a Robert Nozick, da Sant’Agostino ad Antonin Artaud, il viaggio di Pietro Emanuele nella storia del pensiero occidentale comincia in camera da letto. Risultato, una serie di ritratti inediti, prevedibili alcuni (Joyce, Casanova, de Sade), altri curiosi e gustosi: Alcibiade che corre dietro alla tunica di Socrate, Diogene che si masturba sulla piazza del mercato, lo scolaro Rousseau turbato dalle sculacciate dell’istitutrice ginevrina. Il tutto in un turbine di citazioni, amanti (maschi e femmine) più o meno soddisfatti, ameni scenari campestri e maleodoranti bordelli in cui i grandi pensatori universali si dibattono tra teoria e pratica dell'ars amatoria. Non sempre dimostrandosi all’altezza: «Lascia le donne e studia la matematica» dirà a Rousseau l’impietosa Giulietta, prostituta veneziana, Montaigne invece, sentendo approssimarsi la vecchiaia, consiglia a quelli che, come lui, hanno da poco oltrepassato la quarantina di «rivolgere l’assalto» a qualche fanciulla «molle, stupida e ignorante», per evitare la vista di due begli occhi «delusi da fiacchezza e incapacità».

il congresso di Rifondazione

il manifesto 30.10.04

Rifondazione: congresso per mozioni a marzo



La convocazione ufficiale sarà fatta dal comitato politico che si riunisce oggi e domani

Si svolgerà nella prima settimana del prossimo marzo, a Rimini, il congresso di Rifondazione comunista. La convocazione ufficiale sarà fatta questo finesettimana dal comitato politico nazionale del partito. Una riunione che sancirà la decisione di Fausto Bertinotti di portare in chiaro tutte le differenziazioni politiche interne, respingendo cioè l'ipotesi di un congresso per tesi emendabili - sostenuta dall'area dell'Ernesto attualmente determinante per la maggioranza - in favore di un congresso per mozioni. Oltre al documento del segretario se ne prevedono dunque altri tre. La minoranza di Progetto comunista, guidata da Marco Ferrando, ribadirà anche in questa occasione, come già in passato, il proprio impianto alternativo a quello della segreteria. Anche l'area Erre, guidata da Salvatore Cannavò e che allo scorso congresso si trovò a convenire con la proposta politica del segretario, sarà in campo con un documento alternativo. E' stata infatti verificata l'impossibilità di una convergenza tre le due componenti della sinistra. Infine dovrebbe esserci la mozione dell'area prevalentemente ex cossuttiana dell'Ernesto, capeggiata da Caludio Gassi e che finora ha fatto parte della maggioranza che ha tenuto in sella la segreteria di Bertinotti.



Il leader di Rifondazione è però pronto alla sfida per rendersi autonomo alla guida del partito. Una battaglia che rischia di incontrare ostacoli soprattutto da sinistra, viste le crepe che si sono create nei rapporti con i movimenti: una parte dei quali già a suo tempo non ha condiviso la radicalizzazione del ragionamento bertinottiano sulla nonviolenza e il mutamento stesso del ruolo di Rifondazione nel corso degli ultimi mesi (complice anche il caso di Nunzio D'Erme lasciato fuori dall'europarlamento nonostante il successo di consensi) con la scelta strategica verso l'alleanza con Romano Prodi. Rispetto a questa riaffermazione di autonomia da parte del Prc, non è un mistero l'orientamento verso l'area dei Verdi avviato già da tempo da parte di alcuni settori di movimento. Mentre la stessa mozione unitaria delle opposizioni sul ritiro dall'Iraq è stata giudicata per il suo impianto un «passo indietro» dalle minoranze di sinistra interne e da settori esterni. Proprio a questo proposito Bertinotti firma su Liberazione di oggi un editoriale con l'evidente intento di distendere il rapporto con i movimenti e spiegare le scelte verso cui orienta il partito: «Insieme all'impegno diretto e unitario nel movimento, ci proponiamo di costruire un progetto politico», scrive il segretario argomentando la scelta dell'alleanza prodiana e il tentativo di far vivere al suo interno le ragioni della sinistra di alternativa.



Diversa la posizione dell'Ernesto, da sempre favorevole al recupero di un rapporto organico con il centrosinistra, ma che contemporaneamente ritiene necessario porre precise discriminanti programmatiche. Un meccanismo che invece Bertinotti mette in discussione, ritenendo infruttuosa una negoziazione per punti del programma dell'alleanza alla quale preferisce una discussione complessiva. Anche per questo l'area del segretario respinge l'idea di un congresso per tesi, che consenta cioè di qualificare la maggioranza anche attraverso precisi emendamenti a un testo unitario, e si prepara a una dialettica su posizioni non mediabili.

logica, «Da Euclide a Gödel»

La Stampa TuttoLibri, sabato 30.10.04

Da Euclide a Gödel, non c’è

matematica senza la logica

di Federico Peiretti



GLI studenti non sanno la matematica. E' il risultato di una recente indagine ministeriale dai risultati sconfortanti. Se la matematica che gli studenti ritrovano in classe è soltanto una giaculatoria di formulette e i libri sui quali studiano hanno il fascino del libretto di istruzioni di una lavapiatti, è però difficile suscitare il loro interesse. Nella scuola sovente entra soltanto una matematica di calcolo, con esercizi tutti uguali, noiosi e ripetitivi, non entra invece il ragionamento. La logica, quintessenza del ragionamento matematico, viene tenuta fuori dalla porta, a tutti i livelli, dalle elementari all'università, e questo provoca un'ignoranza matematica diffusa non soltanto fra gli studenti.

Il recupero di questa cultura potrebbe essere favorito proprio dallo studio della logica. E non si può dire che sia un argomento difficile, come dimostra Gabriele Lolli, docente di Logica Matematica all'Università di Torino, nel suo nuovo libro, Da Euclide a Gödel.

Lolli evidenzia il grande progresso che si è avuto nella definizione della natura della matematica grazie all'opera di Gödel. I suoi teoremi di incompletezza, «tra i risultati più notevoli - e chiacchierati - del ventesimo secolo, in compagnia della relatività, della meccanica quantistica e del Dna», sono il punto centrale del libro. Per presentarli in modo accessibile a chi matematico non è di professione, Lolli risale all'origine dei problemi sui fondamenti della matematica, partendo dagli antichi greci, che furono i primi a introdurre il ragionamento matematico, esposto da Euclide nei suoi Elementi, più di duemila anni fa, con un modello che è stato poi adottato da tutte le discipline scientifiche. «Solo nella matematica però il modello si presenta allo stato puro - osserva Lolli - senza la necessità di inserire contributi e puntelli della ricerca sperimentale o di altre influenze; il legame tra assiomi e teoremi nella matematica è puramente logico».

Questo è per Lolli il punto di partenza di un'indagine colta e appassionata, in difesa della logica, per evidenziare il ruolo fondamentale che ha avuto lungo tutta la storia della matematica, tanto più da quando, nella seconda metà dell'Ottocento, si sono scoperte nuove algebre, con operazioni analoghe, ma non coincidenti con quelle numeriche, in grado di analizzare il nostro linguaggio, anche al fine di una sua traduzione al computer.

«Lo studio della logica potrebbe iniziare - afferma Lolli - già con la prima algebra; consiste infatti nel considerare che le formule non sono solo un flatus vocis che nel flusso del discorso esprimono fatti arcani, ma sono oggetti concreti che si manipolano e devono essere pensati loro stessi come oggetti matematici». Lolli accusa i matematici di voler rimuovere i teoremi di Gödel dandone una interpretazione negativa, considerandoli semplicemente il sigillo di un sogno impossibile di matematica assoluta, quella, ad esempio, di Newton che credeva nell'esistenza di un Dio matematico. Ed è tutta la nuova logica matematica a venire rinnegata, secondo un ostracismo di comodo che porta quello che Lolli chiama il «matematico operaio» a ignorare questi problemi, per evitare di mettere in discussione il suo lavoro. Per salvarsi, questo matematico operaio afferma che la logica moderna non riguarda la matematica, ma soltanto la filosofia, «anzi - dice Lolli - la ritiene una macchia sulla professione, perché avrebbe coinvolto la matematica in un'attività impropria».

In questo modo si tenta di giustificare il fatto che non viene né studiata né insegnata. Non si può quindi accusare soltanto gli studenti di non studiare la matematica, ma sono sotto accusa anche gli insegnanti e chi dovrebbe insegnare agli insegnanti che cosa e come insegnare, l'università, prima responsabile di questo disamore per la matematica.

sabato 30 ottobre 2004

arteuna stupenda immagine femminile dall'Egitto tolemaico

Repubblica 30.10.04

IL CAPOLAVORO RITROVATO IN INGHILTERRA È ORA IN MOSTRA A CAMBRIDGE

LA COPIA DELL´800 È UNA DEA EGIZIA DI ETÀ ADRIANA

di PICO FLORIDI



E´ stata ritrovata in Inghilterra la statua di una regina egiziana, capolavoro proveniente dalla Villa Adriana a Tivoli. La scultura era stata venduta da Christie's nell'asta degli arredi di Harrington Hall come una copia ottocentesca e acquistata dai fratelli Tomasso, antiquari di Leeds per 7000 sterline, una cifra sette volte superiore a quella stimata in catalogo. Il riconoscimento dell'opera è stato possibile grazie a Sally-Ann Ashton, esperta di antichità classiche e vice curatrice del Fitzwilliam Museum di Cambridge dove il pezzo è esposto nella mostra Roman Egyptomania. Alta 82 centimetri, la statua di basalto verde è la copia di un originale di età adriana contemporaneo o di poco precedente dei Musei Vaticani che è a sua volta la replica di una scultura tolemaica del 275 a.C. La scultura rappresenta con tutta probabilità il ritratto di Arsinoe II, moglie e sorella di Tolomeo II e il suo valore è inestimabile.

L´identificazione del capolavoro racconta un´altra storia, altrettanto affascinante, che ci riporta al Settecento e a una villa nei dintorni di Padova. Era ad Altichiero, di proprietà del Senatore Querini, che viveva Giustiniana Wynne, moglie dell´Ambasciatore austriaco a Venezia, amica ed amante di Giacomo Casanova, la cui storia è stata raccontata da Andrea Robilant in Un amore veneziano. Nella villa erano conservate molte antichità egiziane, alcune delle quali monumentali, e perfino, pare, le ceneri di Scipione l´Africano. Ed è stato leggendo le memorie di Giustiniana Wynne, che la Ashton ha risolto il rebus della provenienza dell´antica dea. Nel volume datato 1787 e intitolato Alticchiero è infatti descritta la statua acquistata dai fratelli Tomasso, con tanto di dimensioni. La Wynne l´aveva semplicemente acquistata a Tivoli, a Villa Adriana e l´aveva portata nel giardino veneto. I fratelli Tomasso, i primi a riconoscere il valore della scultura, conserveranno la statua nella loro collezione d´arte. Il pubblico la può ammirare fino al prossimo 8 maggio nella mostra di Cambridge.

perdibile, apre altre due pagine intere sul medesimo tema...il prof. Umberto Galimberti

Repubblica SABATO, 30 OTTOBRE 2004

Pagina 37 - Cultura

GAY

Se l'amore è messo all'indice


storia di diritti e discriminazioni

Eros e interdetti una storia fra politica e cultura

Una parola messa sotto accusa e tornata d'attualità

UMBERTO GALIMBERTI



[...]

venerdì 29 ottobre 2004

psicologia britannicasenza parole...

Virgilio Notizie 29/10/2004 - 17:50

Un test d'intelligenza per bebe' tra 6 e 12 mesi

Realizzato da psicologa inglese



(ANSA)- LONDRA, 29 OTT - E' stato realizzato un test che permette ai genitori di conoscere il grado l'intelligenza dei figli di eta' compresa tra i 6-12 mesi. Messo a punto dalla psicologa Dorothy Einon, e' stato commissionato dalla società di giocattoli Fisher Price. Consiste in una serie di domande rivolte ai genitori sui comportamenti dei figli in diverse situazioni. «Molti genitori - spiega la Einon - vogliono sapere come stimolare al massimo l'intelligenza dei figli anche attraverso i giocattoli giusti».

a FirenzeLuciano Canfora ha presentato il suo nuovo libro sulla democrazia

Repubblica edizione di Firenze 29.10.04

L'INCONTRO

Luciano Canfora presenta "La democrazia, storia di una ideologia" a Leggere per...

La democrazia? Rinviata ad altra epoca

NOSTRO SERVIZIO



I fallimenti e le incompiutezze della democrazia. È l'ultimo libro di Luciano Canfora, antichista e politologo, che oggi alle 17.30 viene presentato alla Biblioteca comunale di via Sant'Egidio, nuova tappa di «Leggere per non dimenticare», il ciclo d'incontri curato da Anna Benedetti. «La democrazia, storia di un'ideologia», è il titolo del libro: un viaggio provocatorio dall'Atene di Pericle fino alla Costituzione europea che sarà presentato dallo stesso Canfora. Sollecitato e interrogato dalla giornalista Sandra Bonsanti, firma prestigiosa della Repubblica diretta da Scalfari ed ex direttrice del Tirreno, e da Vittoria Franco, la parlamentare diessina che ha pubblicato numerosi saggi di teoria morale e politica.

Nel suo libro, Canfora demolisce certezze e luoghi comuni arrivando a sostenere che la democrazia non può esistere. Che la storia ha sempre fatto i conti con i diritti dei molti e lo strapotere dei pochi. Una conclusione provocatoria che, secondo Canfora, è già insita nella democrazia degli esordi, quella della «polis» greca. Come dire, la democrazia è rinviata ad altre epoche future. «Democrazia nel senso etimologico del termine, cioè predominio dei non possidenti, e socialismo sono concetti molto vicini. Ma invece l'equivoco diffuso nel linguaggio politico corrente consiste nel considerare democrazia e parlamentarismo come nozioni coincidenti», sostiene Canfora. Il ciclo «Leggere per non dimenticare» è patrocinato dall´assessorato alla cultura.



Il discorso di Pericle visto dai costituenti europei

Dal saggio di Canfora ho scelto le righe iniziali sul significato della parola democrazia nell'Atene di Pericle e quelle conclusive che a quel brano direttamente si ricollegano.



Pag. 13 «Pericle riuscì a guidare quasi per un trentennio la città di Atene retta a "democrazia". Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo "popolare" definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l'appunto la forza nel suo violento esplicarsi.) Per gli avversari del sistema politico ruotante intorno all'assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida. Ecco perché Pericle, nel discorso ufficiale e solenne che Tucidide gli attribuisce, ridimensiona la portata del termine, ne prende le distanze, ben sapendo peraltro che non è parola gradita alla parte popolare, la quale usa senz'altro popolo (démos) per indicare il sistema in cui si riconosce. Prende le distanze, il Pericle tucidideo, e dice: si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della "maggioranza", nondimeno da noi c'è libertà».

Pag. 367: ... i bravi costituenti di Strasburgo, i quali si dedicano all´esercizio di scrittura di una "costituzione europea", (...) mentre pensavano, tirando in ballo il Pericle dell'epitafio, di compiere non più che un esercizio retorico, hanno invece, senza volerlo, visto giusto. Quel Pericle infatti adopera con molto disagio la parola democrazia e punta tutto sul valore della libertà. Hanno fatto ricorso - senza saperlo - al testo più nobile che si potesse utilizzare per dire non già quello che doveva servire, come retorica edificante, bensì quello che effettivamente si sarebbe dovuto dire. Che cioè ha vinto la libertà - nel mondo ricco - con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Forse non più europei».

il pensiero razionalistico da sempre si allea al pensiero religiosoil «sacro»!?

Repubblica 29.10.04

NOSTRO SACRO UNIVERSO

Anticipazione/ Esce "Siate saggi, diventate profeti"

Si scopre che la scienza più aggiornata non può fare a meno della poesia

Due illustri fisici si confrontano con i grandi e irrisolti perché dell´umanità

Steven Weinberg di fronte alle meraviglie del mondo non riesce a trovare un senso

Il neurobiologo Antonio Damasio pone i sentimenti alla base della coscienza

di GEORGES CHARPAK E ROLAND OMNÈS



Il testo che pubblichiamo è tratto da «Siate saggi, diventate profeti», un libro di Georges Charpak e Roland Omnès in uscita presso l'editore Codice (traduzione di Federica Niola, pagg. 190, euro 24). Domani Roland Omnès sarà uno dei protagonisti del Festival della Scienza di Genova che si è aperto ieri e che durerà fino all'8 novembre. Il Festival prevede 250 incontri, laboratori didattici, conferenze e tavole rotonde. Il tema conduttore è quello dell'esplorazione. Fra gli studiosi che partecipano agli incontri vanno segnalati Jean-Pierre Changeaux, Alain Berthoz, Luca Cavalli Sforza e inoltre Carlo Petrini, Folco Quilici, il filosofo Giulio Giorello, Stefano Benni e Alessandro Bergonzoni.



Qual è il senso di questo Universo smisurato in cui apparentemente non siamo niente, di queste leggi che assillano la ragione umana, di tutto quello che ci domina a partire dalla sua altera e suprema estraneità? C´è solo un senso? Questa è la domanda, la domanda che affrontiamo ora con un certo timore. Timore, evidentemente, che le nostre menti non siano all'altezza, timore che sia senza risposta, o che i tempi non siano maturi per comprenderla, timore, infine, di parlare a sproposito di speranza e di saggezza.

La filosofia non ci aiuta minimamente in questo ambito, l'abbiamo appena visto. E la scienza? Steven Weinberg, un grande fisico contemporaneo, ci dice, dopo aver descritto le incontestabili meraviglie dell'universo, che, per quanto ne sa, questo Universo gli sembra privo di senso, pointless: non conduce a nulla. Che confessione! Altri (e lui stesso) si esaltano per lo splendore delle leggi e per la loro magnifica unità, per la gioia di scoprirle. Ma hanno un senso per noi umani, per coloro che soffrono di disperazione e di vuoto interiore? I cantori dell'astratto non ne dicono niente.

Di fatto la questione è insolubile se ci si aspetta una spiegazione dell'Universo e delle leggi che diano ad esso un significato. Questo significato sarebbe in effetti, se fosse verificato, una verità al di là di quelle della scienza e dell'esperienza: una verità metafisica. Ma una verità di questo genere è inaccessibile alla ragione, Kant rimane incontestabile su questo punto, poiché non è scientifica e sfugge all'esperienza.

Siamo profondamente coscienti della bellezza delle leggi e della gioia che danno a chi si accosta ad esse: e non siamo meno sensibili al desiderio insopprimibile di trovare un senso al mondo. Bertrand Jordan, un biologo di qualità, ha trovato le parole per esprimere questo desiderio o questo bisogno, questa richiesta, in Le Chant d´amour des concombres de mer: «Il fatto inaudito, eppure verificato è che questo edificio (della vita) è stato costruito dal gioco di mutazioni aleatorie. Malgrado l'abbondanza delle prove di cui disponiamo, continua talvolta ad essere difficile credere che sistemi così interconnessi derivino da un processo governato dal caso. Il caso (...) e la necessità (delle leggi) (...). Faccio fatica a credere che la meccanica perfetta del mio corpo, questi occhi che abbracciano il paesaggio nella quiete mattutina, queste orecchie piene del rumore delle onde, questo stesso cervello che riflette (...) derivino da un gioco di mutazioni senza un fine predefinito, da innumerevoli tiri di dadi successivi avvenuti nel corso di un'evoluzione che si perde nella notte di milioni, di miliardi di anni. Lo so intellettualmente, le prove ci sono, e non potrebbero essere più certe, le ho riconosciute anche io stesso nel mio lavoro di ricercatore. (...) È possibile anche analizzare le ragioni stesse della mia incredulità, eppure qualcosa in me è restio ad ammettere questa costruzione del caso: mi sembra che sottragga al mondo ogni significato profondo e, tra l'altro, che neghi la mia esistenza».

Non possiamo che unirci a Jordan. Intellettualmente, sappiamo che la domanda sul senso è senza risposta, o almeno che la risposta è al di là dell'orizzonte dell'attuale sapere. Eppure, quali parole sono uscite dalla nostra penna e da quella di Jordan? Sofferenza, vuoto interiore, bellezza, gioia, desiderio, ripugnanza, fatica a credere... Appartengono tutte alla sfera del sentimento; un sentimento che lotta con l'intelletto. Si potrebbe dire che la questione non consiste nel trovare il significato intellettuale dell'Universo e delle leggi, ma nell'integrare questa conoscenza alla coscienza, una coscienza più vasta della pura conoscenza, che ingloba i sentimenti, compreso il sentimento di sé. È in me, tramite me, per me che voglio fare della conoscenza una parte vivente di me, e non un'estranea assoluta.

Un grande neurobiologo, Antonio Damasio, ci aiuterà a dare corpo a questa idea ancora vaga, alla luce dei recenti risultati riguardanti il cervello e la coscienza. Ecco che cosa dice: «Forse l'idea più sorprendente (derivata dalle ricerche a questo proposito) è che, in conclusione, la coscienza inizia come un sentimento. (...) Considerare la coscienza come un sentire di sapere è coerente con l'importante dato di fatto che ho citato a proposito delle strutture cerebrali legate più strettamente alla coscienza. (...) Presentare le radici della coscienza come un sentimento dà modo di mettere insieme una spiegazione del senso di sé. (...) Se si sostiene che i sentimenti sono gli elementi costitutivi della coscienza, si è costretti a indagare la natura intima dei sentimenti. Di che cosa sono fatti i sentimenti? (Notiamo che precedentemente l'autore ha esposto il supporto biologico, umorale delle emozioni, che sono primarie rispetto ai sentimenti). I sentimenti sono la percezione di cosa? Quanto possiamo scavare dietro i sentimenti? Sono domande alle quali per il momento è impossibile rispondere in modo completo. (...) La realizzazione della coscienza umana potrebbe richiedere l'esistenza dei sentimenti».

L'ultima frase appariva in occasione di una breve discussione su ciò che distingue la conoscenza registrabile da una macchina (un computer) e quella stessa conoscenza nella coscienza umana. Si potrebbero concepire macchine che facciano esperienze, che ricorrano a un'intelligenza artificiale e arrivino ad accrescere la conoscenza dell'Universo e delle leggi, ma «la realizzazione della coscienza umana potrebbe richiedere l'esistenza dei sentimenti». Non sarà forse questa la chiave della nostra domanda?

L'Universo, le leggi, suscitano evidentemente sentimenti forti nei ricercatori impegnati nel loro lavoro. Ne derivano piacere, certo, anche se André Lichnerowicz ha giustamente notato: «La ricerca? Apporta grandi momenti di gioia, ma sempre dopo mesi o anni di frustrazione». Ciononostante, non si tratta dei sentimenti dei ricercatori, si tratta di quelli dell'uomo in generale. Qual è il senso più vasto, come sentimento generatore di una coscienza, che corrisponde a quello che c'è di più elevato nella conoscenza, le leggi elaborate dell'Universo? La nostra risposta, quella che sentiamo profondamente, è la seguente: è il senso del sacro.

Il sacro! «Ma non si tratta di religione?», direte voi. Sì, si tratta proprio di questo, ma anche di qualcosa di più. Occorre credere in Dio per sentire la presenza del sacro ascoltando alcuni pezzi di Bach o di Mozart? Non c'è forse una componente sacra nella natura dell'uomo anche agli occhi di molti atei? Bertrand Russell, agnostico dichiarato e lucido, se ce ne sono stati, ha riferito le sue esperienze per così dire "mistiche" dell'insorgere del sacro. Il fatto non è del resto così strano. Di che cosa si tratta? Per rispondere rivolgiamoci a Mircea Eliade, ritenuto un valido giudice in materia: «L'esperienza del sacro (...) implica le nozioni di essere, di significato e di verità. (...) È difficile immaginare (...) come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell'uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l'esperienza del sacro, lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato (...). Il "sacro" è insomma un elemento della struttura della coscienza, e non uno stadio nella storia della coscienza stessa».

Traduzione di Federica Niola

sinistraun'intervista ad Asor Rosa

Liberazione 29.10.04

Asor Rosa: «La mia idea di sinistra radicale»

intervista di di Tonino Bucci



«La mia idea è una "camera" di discussione, verifica e dibattito. Una "camera permanente" dove le sigle della sinistra radicale siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte e, naturalmente, anche di distinguersi ma a ragion veduta». Questa è la veste organizzativa che Alberto Asor Rosa immagina per l'ipotesi di una ricomposizione della sinistra alternativa, lanciata dalle pagine del "manifesto" in due articoli, l'ultimo dei quali pubblicato sabato scorso.

Esiste oggi in Italia un'area raggruppabile sotto la definizione di «sinistra radicale»? E la sua capacità di condizionare la vita politica è pari oppure inferiore - come è ragionevole supporre - alle potenzialità virtualmente contenute nelle classi sociali cui fa riferimento? E quale partita, infine, si profila per questo universo di partiti, correnti organizzate, sigle sindacali, movimenti e associazioni all'interno della coalizione di centrosinistra e del futuro scontro elettorale con le destre?

Tutti questi interrogativi aleggiano nella sollecitazione di Alberto Asor Rosa, la cui formulazione non sfugge però alla regola della chiarezza: «far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc)». Un primo livello del ragionamento riguarda il profilo di un programma allo stato attuale ancora indefinito e che una sinistra radicale capace di «agire unitariamente» potrebbe contribuire a rendere più chiaro. Si può, anzi, facilmente prevedere un indirizzo programmatico tanto più di rottura con il neoliberismo di stampo berlusconiano, quanto più la sinistra alternativa sarà in grado di portare le proprie idee nel confronto con la sinistra riformista-moderata. L'intesa elettorale contro le destre non significa indistinzione di progetti politici e strategici, né l'azzeramento, per causa di forza maggiore, di identità culturali differenti. Va da sé che lo stato di frammentazione attuale delle forze anticapitalistiche riduce la possibilità di incidere nella scrittura del programma.

Preso sotto l'aspetto più evidente il ragionamento svolto da Asor Rosa sul "manifesto" esprime il bisogno elementare - ma non per questo scontato - di mettere ordine in un quadro politico altrimenti frastagliato e decisamente sfavorevole, quanto a rapporti di forza, alla sinistra alternativa. Ma non c'è soltanto l'urgenza del passaggio elettorale a sollecitare la riflessione. Parlare di una ricomposizione della sinistra radicale significa, anche, riconoscere l'esistenza di un problema "oggettivo": restituire uno spazio politico alle classi popolari - quelle maggiormente colpite dalla crisi economica - e spostare una parte dell'elettorato a sinistra. Cos'altro tradisce il distacco tra politica e società se non il fatto che larghi strati sociali - le «classi subalterne», si sarebbe detto un tempo - hanno finito per essere esclusi dalla rappresentanza politica?

Mettere assieme i pezzi della sinistra alternativa richiede anche un disegno strategico. Quali sono i fattori "oggettivi" che rendono l'operazione necessaria, oltre che possibile?

Nella mia proposta ci sono due livelli. Il primo riguarda la prospettiva di un cartello elettorale, di una presenza più forte nelle istituzioni di questo settore del sistema politico italiano che attualmente è frammentato e più debole rispetto alla forza sociale che virtualmente rappresenta. L'altra faccia è strategica e di più lunga durata. Consiste nell'interrogarsi se all'evoluzione socio-economica del mondo globalizzato, e anche dell'Italia in questo ultimo ventennio, non debba corrispondere un soggetto politico, diverso da tutti quelli esistenti allo stato attuale delle cose, che interpreti a più alto livello, al di là delle formule organizzative, la contraddizione fra capitale e lavoro. Quel lavoro che oggi è sottorappresentato. Ognuno può scegliere e interpretare l'una o l'altra faccia come se fossero due momenti di un processo. Oppure può rovesciare la direzione: invece di cominciare dal discorso organizzativo-elettoralistico si può iniziare dal riflettere sulle grandi questioni di fondo. Ma nell'uno come nell'altro caso, oppure in tutti e due - visto che sono collegati - è necessario avviare la discussione e un confronto paritario tra le varie forze interessate perché prenda inizio il processo. In molti - molti di più di quanto pensassi - diamo un valore positivo all'inizio di questo percorso.

I problemi organizzativi riflettono i problemi teorici. L'universo della sinistra alternativa è frastagliato non solo per sigle e partiti, ma anche per paradigmi teorici: l'ambientalismo, il femminismo, il marxismo, il pacifismo... Come ricondurre tutti questi discorsi alla contraddizione principale tra capitale e lavoro?

Questo è un problema necessariamente ricorrente in tutte le fasi di transizione. Mi stupirei che non ci fosse un dibattito su questi temi. È nell'ordine naturale delle cose. La discussione è ricorrente in tutte le fasi storiche di transizione nel movimento operaio. Quello che io osservo è che la fase di transizione della quale stiamo parlando, dura da tanto, da troppo tempo: ha il suo punto di partenza nell'89, ma comincia da prima, dagli anni '70. Io porrei il problema in questi termini: in che forma è pensabile una sinistra - se è pensabile, perché anche questo interrogativo più radicale è legittimo - in una situazione di classe come quella che stiamo vivendo da venti o trent'anni a questa parte? Contraddizioni di fondo, contrasti insanabili, opzioni contrapposte all'interno di questo mondo della sinistra radicale o alternativa - come talvolta è già accaduto in passato nel movimento operaio - io francamente non ne vedo. Sono culture diverse, anche tradizioni organizzative diverse, che nella situazione globale attuale tendono più a convergere che a divergere. Parlo, ad esempio, delle due opzioni culturali che potrebbero apparire più divaricate: quella ambientalista e quella marxista classica che punta sullo sviluppo anche in termini di denegazione ambientalistica - anche questo è accaduto talvolta in passato. Ma le due cose, allo stato attuale dei problemi, tendono a convergere, non a contrapporsi. Bisogna ragionare a livello mondiale sul rapporto che esiste tra sviluppo e ambiente. Questo è uno dei tre o quattro problemi di fondo.

Si profila quindi una fase di battaglia culturale, per l'egemonia si potrebbe dire, tra la sinistra radicale e la sinistra moderata, spesso incantata dalle sirene dell'ideologia liberista?

Non c'è dubbio che esista anche questo aspetto. Tuttavia quando sento il termine «egemonia» rabbrividisco perché viene spesso evocata - non in questo caso - in termini scorretti e dispregiativi. Preferisco parlare di identità culturali. Se la seconda faccia della proposta emergesse di più - come io spererei - allora dovremmo parlare di idee, culture, di atteggiamenti progettuali e costruttivi. Ora, questo si può fare solo se si smette di soggiacere supinamente a una fase di "liberismo mentale" che ha contagiato anche larghi settori della sinistra italiana ed europea.

Che fisionomia potrà avere questa ricomposizione della sinistra alternativa dal punto di vista delle formule organizzative? Iniziative comuni dal basso su singoli temi unificanti oppure un processo di avvicinamento "dall'alto", per opera dei ceti politici?

Bertinotti, non io, ha parlato di «contenitore». La mia proposta è più modesta, dotata sicuramente di minore capacità propositiva. Io penso che la convergenza su singole iniziative sia troppo poco. Preferirei la creazione di una "camera" di discussione, verifica e dibattito, una "camera permanente", dove le sigle - ma anche quello che non è ancora siglato, che sta oltre le organizzazioni frammentarie di cui stiamo parlando - siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte. Naturalmente anche di distinguersi ma a ragion veduta.

Quindi, non una semplice sommatoria, ma la nascita di una soggettività politica diversa dalle parti che la compongono?

Secondo me è uno strumento di riorganizzazione dell'esistente ma anche di mutamento dell'esistente. Ho una "illuministica" fiducia nel fatto che la creazione di uno strumento cosiffatto tenderebbe più a fare evidenziare gli elementi di convergenza che non quelli di divisione.

Prima ancora di mettere in cantiere la nascita di questo soggetto emergono però anche le critiche di chi paventa il venir meno della coalizione di centrosinistra. L'alleanza con le forze democratiche e riformiste rimane nell'orizzonte della proposta?

La dò per scontata. Il presupposto del ragionamento che io credo d'aver fatto con estrema chiarezza in ambedue gli articoli pubblicati dal manifesto, è che questo semmai va concepito come uno strumento di rafforzamento del centrosinistra - io continuo a preferire questa dizione all'"orribile" Gad. Perché dovrebbe mettere in crisi la coalizione? Se uno si organizza, lo scopo è di rafforzare le posizioni della sinistra radicale rispetto a quelle della sinistra moderata. Questo fa parte di qualsiasi gioco politico che si rispetti.

Al di fuori dei calcoli geopolitici il consolidamento dell'area della sinistra radicale potrebbe persino riconquistare alla politica settori della società che finora sono sprovvisti di rappresentanza. E' così?

Il primo atto che dovrebbe assumere questa camera della sinistra radicale non è rinchiudersi in se stessa, ma stabilire fili di collegamento e sollecitazione con l'esterno.

E' qui che i vecchi organismi stentano a farcela, nonostante si siano posti il problema. Rifondazione sicuramente se l'è posto. Non è una critica schematica a quanto è stato fatto finora, ma è l'idea che ci sono i margini per fare di più.

Questa "camera permanente" potrebbe funzionare nell'immediato anche come luogo di elaborazione di un programma comune alle forze della sinistra alternativa da portare in dote in un ipotetico, futuro governo antitetico a quello del centrodestra?

Assolutamente sì. Finora si è discusso poco di contenuti programmatici. Dovrebbe essere il luogo altresì rispetto al lungo periodo, in cui questa sinistra radicale si chiarisce le idee sul pacchetto di proposte da portare al confronto con il resto del centrosinistra. Naturalmente con quella flessibilità che è necessaria in tutte le alleanze, ma con una maggiore chiarezza di idee e anche con una maggiore uniformità di proposte, il che - mi pare incontrovertibile - rafforzerebbe la posizione.

poesiaintervista con Adonisil più grande poeta arabo vivente

il manifesto - 28 Ottobre 2004 CULTURA

IL RITMO DEI SENSI/INTERVISTA

Ogni poesia sta alla lingua come l'onda al mare

I suoni di Adonis

INCONTRO CON IL POETA SIRIANO.


«Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, acqua. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre di più della complessa forza della lingua araba, e mi chiedo se ne siamo degni»

WASIM DAHMASH



A volte, quando le parole si affiancano le une alle altre in modo che i significati, seppure parzialmente, si sovrappongono, si determina un passaggio di senso fino a stabilire una relazione d'identità nel punto estremo in cui quei significati arrivano a convergere. In questi casi le parole si sfiorano, e in qualche modo si costituscono in un rapporto sinonimico tale da evocare quel fenomeno chiamato «coscienza mitologica», una logica preesistente a quella razionale e vigente ancora oggi se tra l'oggetto e il suo nome si stabilisce un legame così stretto da renderli non più scindibili: succede, per esempio, quando abbiamo paura di evocare una malattia pronunciandone il nome e, evitando di nominarla, la esorcizziamo. Così, gli oggetti verbali sarebbero legati strettamente alla realtà, resa concreta attraverso la parola. Chi, come noi al giorno d'oggi, non possiede la logica intrinseca al mito, è indotto a tradurre quegli «oggetti verbali» in immagini metaforiche e simboliche invece di imboccare le strade che ci permettono di recuperare quell'antica unità, facendone riemergere il retaggio di sensi. In una forma moderna, anche se non raggiunge l'asciuttezza che esigerebbero questi tempi in cui vige l'estetica della «postmoderità», le parole che formano i versi di Adonis, immerse come sono in una antica cultura, araba e non solo, vorrebbero essere legate strettamente alla realtà, come al tempo in cui le «parole» ancora non erano separate dalle «cose». Così recita, nell'ottima traduzione di Fawzi AL Delmi, una poesia di Adonis titolata Albero d'Oriente e inclusa nella raccolta appena uscita da Mondadori, Libro delle metamorfosi e della migrazione nelle regioni del giorno e della notte:

«Divenni lo specchio

riflettei ogni cosa

mutai nel tuo fuoco il rito dell'acqua e delle piante

mutai forma alla voce e al richiamo.

Cominciai a vederti duplice:

tu e queste perle che nuotano nei miei occhi.

Io e l'acqua diventammo amanti:

nasco in nome dell'acqua

e in me si genera l'acqua.

Io e l'acqua diventammo gemelli».
Lo sdoppiamento, lo specchio, gli occhi che si riflettono nell'acqua dove si rifrange anche l'io lirico in dialogo con la sua complementarietà, sono ricorrenti nella poesia mistica araba: quella dei sufi, di Hallag, di Ibn Arabi e Ibn al-Farid. È la tensione verso l'unità il tema dominante, dove lo specchio ha le stesse capacità riflettenti dell'acqua. Gli occhi, in uno dei loro significati, alludono alla profondità che risiede nella stessa lingua araba. In arabo 'ayn è il nome della lettera dal suono più profondo, posteriore, faringale, dell'alfabeto; 'ayn significa nello stesso tempo «occhio», «fonte, sorgente» , «sostanza, essenza» e ancora, «stesso, medesimo». Lo specchio ricrea e riflette la stessa immagine. Le molteplici associazioni stabilite dai mistici musulmani a partire da «occhio», «fonte», «essenza», risiedono in questo semplice dato linguistico. «Occhio» e «fonte», in arabo si trovano associati dal momento che entrambi i rispettivi referenti sono situati al limite tra l'interno e l'esterno del corpo e della terra, con una connotazione di tramite verso la profondità. 'Ayn al-haqiqa, per il mistico è «la verita assoluta» e 'ayn al-yaqin è «la certezza assoluta». Da qui, forse, e sulla linea di una eredità culturale difficile da dipanare, gli «occhi» e l'«acqua» sono accostati anche da Adonis; e più in generale, i rapporti che stabilisce tra le parole dei suo versi richiamano, in una veste rinnovata, quelle associazioni.

Nella lirica di Adonis l'eredità culturale agisce in un dinamismo continuo: non è qualcosa che si trova in un certo punto del passato, piuttosto è il tempo che si condensa, pensato come un'unità. E nel rivisitare la storia, Adonis concilia l'esigenza di riprendere possesso di quel patrimonio delineandolo con i mezzi che la modernità ha impresso, livellandolo, alle forme della poesia. Come il mistico sufi nel suo cammino verso l'«unione», il poeta è in viaggio, in scoperta continua: di sé, dell'altro, della realtà, dell'ignoto, di un altrove che riecheggia, inaspettatamente, con la voce di una memoria viva, che è al tempo stesso irrinunciabile frammento d'identità. Piuttosto che un obiettivo da raggiungere, è il cammino da seguire che si rinnova perennemente, sintomo di un'aspirazione inestinguibile, come avviene a uno degli alter ego di Adonis, Mihyar, personaggio di un lungo componimento ormai lontano nel tempo (Agani Mihyar al-dimashqi «I canti di Mihyar il damasceno», Beirut 1961).

In un suo libro titolato «Sufismo e surrealismo» (al-Sufiyya wa l-suriyaliyya, Beirut 1992) poi ripreso in un breve saggio tradotto all'interno della raccolta La preghiera e la spada (Guanda, Parma 2002) Adonis riconosce ai surrealisti una linea di pensiero comune a quella seguita dai mistici musulmani. Tra demolizione e ricostruzione, atti di libertà e di purificazione del pensiero e della lingua, nel suo ruolo di poeta si prefigge lo scopo di raggiungere la conoscenza dell'«io» e dell'ignoto, la sua unità nascosta, con la coscienza sia di doversi liberare totalmente delle «dimore» poetiche istituite socialmente, sia di dovere perseguire la purezza nell'ignoto della lingua e del mondo.

In questo senso, il poeta è un visionario, mistico, sufi, ma soprattutto è un rivoluzionario: «Ogni poeta è un rivoluzionario e un gran demolitore di ciò che è noto, perché è un grande creatore di ciò che noto non è» (Zaman al-shi'r , «Il tempo della poesia», Beirut 1978).

Con Adonis, più che mai si ripropone quindi l'interrogativo sull'enigma dello scaturire del pensiero dall'ascolto, o dalla lettura, delle parole. Nel leggere la sua poesia, ci avviciniamo a quella tensione massima che si risolve nella significazione della parola. Le radici nel passato, nella sua poetica, sono ancorate al presente, come lo stesso Adonis mi diceva in una conversazione che ha preceduto il nostro incontro recente, dato che la cultura è «un patrimonio vivo in noi, la cui comunicabilità è continua: ciò che ha la capacità di continuare, è parte di noi».

Quale nesso le sembra di potere stabilire tra la formazione della sua infanzia, in un ambiente contadino, e la mediazione fortemente intellettuale che emerge dai suoi versi?

Non è facile per un poeta essere il critico di se stesso. La sua domanda merita un chiarimento: nell'ambiente in cui sono cresciuto prevaleva una cultura che operava una cesura tra Dio e il mondo, tra Dio, l'uomo e la natura. In questa cultura, Dio è un'astrazione. Ma fin dall'infanzia avevo la tendenza a umanizzarlo, a vederlo espresso in tutte le cose e quindi nella natura. Avvertivo che l'esistenza, e ciò che c'è oltre, è un'unità. È subentrata poi la conoscenza del sufismo. Se nella mia poesia sono presenti gli elementi della natura, questo si deve non solo a quella prima spinta a contraddire l'insegnamento religioso, ma anche al fatto di essere nato nel grembo della natura. Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, come acqua, parte di un'onda. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva.

Vorrei ci fermassimo, un momento, sulla percezione degli elementi naturali, non mediati da concetti che intervengono a posteriori. Intanto, la percezione dell'ambiente circostante passa attraverso i propri genitori...

Mio padre leggeva e scriveva poesia: è stato lui, che faceva il contadino e lavorava la terra, a insegnarmela e a insegnarmi a leggere e scrivere. Nel nostro villaggio non c'era una scuola come la intendiamo oggi. Si imparava dovunque: le lezioni, il «kuttab», si svolgevano sotto un albero. E sotto quell'albero io studiavo insieme agli altri bambini. Mio padre è stato il mediatore, per così dire, dell'aspetto intellettuale; da lui ho appreso i grandi autori arabi della classicità e della poesia sufica. A mia madre, che non sapeva né leggere né scrivere, devo il rapporto con la natura, anche lei ne faceva parte. Ma, per la verità, entrambi i miei genitori hanno contribuito a dare forza alla mia percezione dei fenomeni naturali. Fin da piccolo mi ritrovai a seminare, piantare, mietere e vivere nella terra. Prima dei tredici anni, quando andai in città, non avevo mai visto un cinema, né una radio o una macchina. Da noi non c'era nemmeno la corrente elettrica.

Nei suoi versi funziona una sorta di «surrealismo»: è un argomento su cui lei ha indagato a lungo dedicandogli anche un saggio titolato «al-Sufiyya wa l-surialiyya» (Sufismo e surrealismo). Ce ne vuole parlare?

Il legame con la natura mi ha insegnato a ricercare l'«oltre» e a interrogarmi continuamente. È un atteggiamento che è stato rafforzato, in me, dal sufismo, inteso come dottrina mistica islamica. La realtà, nella concezione sufica del mondo, non è solo quella percepita attraverso i sensi, ma consiste in ciò che c'è oltre. Questa idea, che è sempre presente nel mio pensiero, si è riproposta quando ho conosciuto l'opera dei surrealisti. Qui ho ritrovato il sufismo, privo dell'aspetto religioso e al di fuori dell'ambito della fede: l'ho ritrovato nella forma di una particolare concezione del mondo. Il sufismo, anche se spesso viene interpretato come rinuncia dei sensi, è invece un'esperienza sensoriale con cui si percepiscono, nella mente, l'universo, l'uomo, i fiori, i fiumi. Mette in opera una «naturalizzazione» di Dio, lo vede non al di fuori del mondo, ma in ogni cosa. Corrisponde a ciò che Ibn Arabi chiamava «wahdat al-wugud» (l'unità dell'essere). Coincide con quanto Hallag - il grande poeta sufi di Baghdad che fu ucciso per le sue idee - nominava come «al-hulul» (incarnazione) nel senso che Dio prende dimora, sia nell'uomo, sia nella natura. Il sufismo ricerca l'ignoto a partire dalla natura stessa, cioè a partire da ciò che è noto, contrariamente a quanto vorrebbe la lettura più comune, che è quella della tradizione religiosa, la più superficiale. Nel corso del tempo i giurisperiti musulmani hanno mutilato il sufismo, accusandolo di miscredenza e di eresia. Invece di discuterne per conoscerlo, l'hanno posto fuori della religione e dunque eliminato. Nel mio libro discuto quindi del rapporto tra sufismo e surrealismo, dandone una lettura che si può definire, semplificandola molto, una sorta di «surrealismo naturale», di contro all'aspetto intellettuale che prevale nel surrealismo. Un surrealista, arabo, non può non essere sufi.

Secondo questa lettura, come descriverebbe i tratti del sufismo presenti nella sua poesia?

Sono essenzialmente cinque: l'universo è un'unità indivisibile che comprende il noto e l'ignoto. Quest'ultima è la parte più importante, ma bisogna comprenderle entrambe. La conoscenza nasce dall'ignoto ed è ricerca continua e interrogazione infinita. La verità, inoltre, è una scoperta e non discende per insegnamento come indica invece la religione: non è nascosta all'uomo, gli sta davanti. E ancora, l'identità non è data a priori e definitivamente: tocca a ognuno di noi inventare la propria. Per finire, l'universo è un infinito che si crea continuamente e non è creato una volta per tutte e per sempre.

Qual è il suo atteggiamento nei confronti della poesia classica, per esempio in rapporto al ritmo?

Un poeta deve conoscere la storia estetica della propria lingua, perciò il poeta arabo deve conoscere a fondo la lingua araba. Il mio rapporto con la classicità araba si delinea da una parte in una rilettura del passato e dall'altra nella ricerca di ciò che non si conosce, nel tentativo di aggiungere qualcosa: è forse il contrario dell'imitazione. La mia poesia è araba, lo è in ogni suo granello, ma non vuole essere paragonata a quella di nessun altro poeta arabo. L'acqua nel mare crea le onde. La lingua araba è il mare, la produzione poetica è l'ondeggiare dell'acqua nel mare. Non è dato al poeta ripetere nessuna onda precedente. Il rapporto del poeta è con l'acqua e non col movimento delle onde. Con quell'acqua deve creare nuove onde, tutte sue. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre meglio di quanto sia complessa la forza della mia lingua e se penso alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi, mi chiedo se siamo degni di un tale strumento. La poesia è un linguaggio dei sensi, dunque il mio rapporto con il ritmo è essenziale. Non quello prodotto dalla rima o dalla metrica, ma quello che si genera dalle relazioni tra un vocabolo e l'altro, tra una lettera e l'altra, tra un suono e l'altro. Queste relazioni producono frasi diverse, lontane dall'ordinamento classico.

Sono relazioni che si possono ricreare in un testo tradotto?

Cercherò di rispondere evitando di restare intrappolato nella «impasse» secondo la quale la traduzione poetica è «impossibile». Parliamo, piuttosto, di acquisti e di perdite. Se non è possibile trasportare una lingua, con le proprie strutture e le proprie particolarità in un'altra lingua, la traduzione non può che essere una «destrutturazione» del testo che va «ristrutturato» nella lingua d'arrivo. Facendo questo, il testo poetico perde necessariamente l'elemento linguistico del ritmo originale. Il traduttore quindi deve trovare un ritmo equivalente nella lingua d'arrivo, ma per quanto bravo possa essere, qualcosa va sempre perduto.

Lei accennava prima alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi...

La cultura, e quindi la letteratura, nelle società arabe non fa parte organica della vita sociale. Non è il pane quotidiano. La cultura è spesso ornamento della politica. Esiste però in molti la volontà di trasformarla in ricerca, non dipendente dal potere politico e religioso.

Le Scienze, edizione italiana dello Scientific American«lo stress dei neonati»

Le Scienze 28.10.2004

Lo stress nei neonati

Il neuropeptide CRH è coinvolto nello sviluppo dei dendriti



Elevati livelli di stress nei neonati e durante l’infanzia possono portare a uno scarso sviluppo delle zone del cervello responsabili della comunicazione fra i neuroni, una caratteristica che si osserva in disturbi quali l’autismo, la depressione e il ritardo mentale. Sono i risultati di uno studio di Tallie Z. Baram e colleghi dell’Università della California di Irvine, della Neurocrine Biosciences, Inc. e del Max-Planck-Institut di psichiatria.

Per la prima volta, i ricercatori hanno stabilito che l’aumento quantitativo di un messaggero chimico associato allo stress, il neuropeptide CRH, può inibire la normale crescita dei dendriti, le protrusioni ramificate dei neuroni che inviano e ricevono messaggi dalle altre cellule del cervello. Secondo gli scienziati, CRH potrebbe essere il responsabile dello scarso sviluppo di queste regioni neuronali. I risultati dello studio sono stati pubblicati sull’edizione online della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

“Queste scoperte - afferma Baram - potrebbero dimostrarsi estremamente importanti per comprendere le origini di numerosi disturbi cerebrali, oltre che suggerire possibili trattamenti preventivi. L’attivazione di ormoni e molecole in seguito allo stress sembrerebbe dare il via a una complessa cascata di eventi associati alla depressione e alla demenza. Il nostro studio rivela il possibile ruolo di CRH in questa cascata”.

© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.

recensendo Tarkovskijun articolo di cinque anni fa...

una informazione da Stefano Traiola



Nel numero di Novembre del 1999 la rivista controluce citava in un articolo di Lorenzo Pompeo su Tarkovskij, il libro di Massimo Fagioli "Istinto di morte e conoscenza"



per leggerlo si può cliccare su questo link:



http://www.controluce.it/giornali/a08n11/idue.htm



giovedì 28 ottobre 2004

citato al LunedìLuigi Cancrini sull'omosessualità

L'Unità 25.10.04

Omosessuali, la malattia di chi li disprezza

di Luigi Cancrini



Caro Cancrini

Ho letto con sgomento le parole dell’audizione di Rocco Bottiglione , designato commissario europeo della Commissione “ libertà, giustizia e diritti”

Dell’Europarlamento e le relative “ esternazioni” di “autorevoli” ministri del parlamento italiano. Credo che come persone prima, e come psicologi poi, dovremmo interrogarci sul senso e sulla ricaduta di tali affermazioni a livello sociale e culturale.

Io, personalmente credo che in una società “ libera” dovrebbe esistere la possibilità di scegliere psicologicamente quale “ attrazione” seguire, omosessuale o eterosessuale che sia. Fino a qualche anno fa la cultura occidentale non riconosceva l’omosessualità come un fenomeno psicosociale, ma lo considerava ( e credo che molti la considerino tutt’ora) una patologia.

Attualmente quanto e cosa sappiamo dell’omosessualità?



Alessandro Sartori



Quello che sappiamo oggi in tema di omosessualità, a mio avviso, non è per niente poco. Il punto da cui dovremmo partire, parlandone, è quello della grande quantità di studi e di riflessioni che hanno preceduto la decisione, oggi tranquillamente accettata dalla comunità scientifica internazionale, per cui l'omosessualità in quanto tale non può e non deve essere considerata l'espressione di una malattia. Nessuno psichiatra pone più oggi una diagnosi di omosessualità, infatti, e nessun manuale diagnostico contempla più la possibilità di farlo. Il che vuol dire, semplicemente, che i vecchi medici, compreso Freud, sbagliavano quando presentavano l'omosessualità come un disturbo geneticamente determinato o come il risultato di un errore dello sviluppo. In modo semplice e chiaro possiamo (e dobbiamo) dire oggi, sulla base di quello che sappiamo, che l'omosessualità in quanto tale è statisticamente minoritaria ma compatibile non solo con una normale vita di relazione ma anche con quella "capacità di godere e di fare" (Freud) e con quell'armonia complessiva delle persone che integrano i criteri alla base di una definizione scientifica della salute mentale.

Fatto questo chiarimento, il problema del modo in cui si sente un omosessuale dipende soprattutto dal modo in cui la sua diversità è stata ed è considerata dagli altri. Al tempo in cui essa si manifesta, e cioé nell'infanzia o nella adolescenza soprattutto dai suoi familiari che determinano spesso, con le loro reazioni, gran parte dei problemi con cui il ragazzo o la ragazza si confronterà nel corso degli anni. Più tardi, quando diventa più importante anche l'opinione degli altri, dall'insieme dei contesti, scolastici, lavorativi, amicali con cui il ragazzo entrerà in contatto. Dicendo subito che, nella storia naturale della loro condizione, gli omosessuali ritrovano spesso un contrasto evidente tra il modo semplice, naturale, a volte liberatorio con cui la loro diversità si manifesta a loro stessi e il modo impacciato, confuso, intriso di aggressività e di paura con cui gli altri reagiscono al loro tentativo di parlarne. Il conflitto interno vissuto a lungo dalle persone che faticosamente portano avanti la loro scelta omosessuale ha origine, abitualmente, proprio in questo contrasto fra ciò che appare naturale a chi lo vive da dentro e ciò che appare innaturale, colpevole o vergognoso a chi non capisce e non accetta. Una scelta libera, autonoma e coerente con il proprio orientamento sessuale è spesso l'obiettivo fondamentale di un lavoro terapeutico ben condotto in questo tipo di situazioni.

Un problema molto più difficile da affrontare, credo, è quello che riguarda le reazioni forti, a volte francamente patologiche, che la rivelazione dell'omosessualità (o il semplice fatto che l'omosessualità esiste) suscita in alcune persone.

Nella storia dell'uomo, la paura dell'omosessualità ha sempre generato "mostri" che la combattevano in nome di una ideologia morale o politica le cui manifestazioni estreme sono probabilmente quelle legate alla religione cattolica in tempo di controriforma e al nazismo: due forme di "pensiero" che hanno costruito sulla paura degli omosessuali delle vere e proprie persecuzioni. Quando si ragiona sulla differenza che c'è fra questo tipo di reazione basata sulla paura e quella capacità di accettare l'esistenza dell'omosessualità e del suo manifestarsi caratteristica delle persone più equilibrate e di tutte le culture laiche e progressiste, tuttavia, quello che viene da chiedersi è perché alcune persone si sentono costrette a gridare con tanta forza ancora oggi, in un tempo in cui vere e proprie perversioni non sono più possibili, la loro avversione, la loro paura, il loro disprezzo o il loro odio dichiarato nei confronti dell'omosessualità e degli omosessuali. Com'è accaduto ancora in questi giorni, non solo e non tanto nei discorsi ufficiali di Buttiglione, quanto in quelli, sboccati, volgari e indizio franco di psicopatologia, degli esponenti di An e della Lega che hanno sentito il bisogno di sostenerlo.

La spiegazione più semplice che si può dare sul piano psicopatologico di tali atteggiamenti è, a mio avviso, quella legata al fatto per cui pulsioni sessuali contraddittorie sono presenti in tutti gli esseri umani e che il livello di questa contraddizione, però, è diverso da persona a persona. Vi sono, dunque, persone le cui pulsioni omosessuali non sono abbastanza forti da determinare un deciso orientamento della sessualità ma abbastanza forti, comunque, da rendere difficile e faticoso il controllo dei comportamenti. È un riflesso difensivo basato sulla formazione reattiva descritta da Freud in questi casi quello che rende congruo o violento il loro modo di reagire. Sono persone in difficoltà nel tentativo di soffocare parti di sé che non accettano, quelle che con più forza si scagliano contro l'omosessualità degli altri. Integrando, loro sì, una situazione di rilievo psicopatologico nella misura in cui mettono in opera comportamenti direttamente collegati ai loro conflitti interni. Senza avere coscienza di quello che accade a loro, del danno che provocano agli altri e senza sentire, soprattutto, il bisogno di guardarsi dentro per capirne di più.

Perché persone che stanno così male abbiano tanto rilievo nell'opinione pubblica e sui media non è purtroppo difficile da capire. Esse danno voce alle parti più primitive di tante persone che soffrono della loro stessa patologia. In democrazia tutti hanno diritto ad esprimere le loro emozioni più o meno controllate, del resto: anche se, da persona che si occupa di salute mentale, io non posso non dispiacermi con lei, caro Sartori, del fatto che lo spazio offerto loro dal grande teatrino dei media in questa fase non li aiuti per niente a ritornare in sé.



citato al Lunedìi successi della psicoanalisi...

una segnalazione di Andrea Mancini



da LETTERE a Repubblica del 24.10.04, di Corrado Augias

Psicoanalisi, quanto costa e quanto aiuta a vivere

di Filippo Maria Notarianni



A 20 anni, sentendomi non attrezzato ad affrontare la vita, grazie agli amici e ai parenti assai solerti nell'affermare quanto invece io fossi intelligente, carino e simpatico, mi affidai alle cure di uno psicoanalista. Che, dietro un compenso assurdo che ha certo migliorato e non poco la sua vita, mi ha ripetuto più o meno le stesse cose. Ora, a 40 anni, mi ritrovo, se possibile, con ancora più ansie e paure, e con la consapevolezza che in una società spietata come la nostra io non sia più attrezzato di allora per riuscire a cavarmela.

Oltretutto ora non ho più nemmeno la possibilità di pagare profumatamente un professionista. Che mi dica che una persona così intelligente, carina, simpatica come me...

Paolo Rossipsichiatria e filosofia

ricevuto da Paolo Izzo



Domenica – Sole 24 Ore, 24 ottobre ’04

Storia delle idee

Psichiatri sull'orlo di una crisi di nervi

Il punto sulla psicopatologia a partire da casi di malati che guardano la loro vita dal di fuori

di Paolo Rossi



Se la filosofia è una ricerca sui modi in cui l'uomo conosce e dà senso alla propria esistenza, può disinteressarsi dei modi in cui gli uomini si smarriscono lungo il loro percorso di ricerca del senso e della conoscenza? E la psicopatologia può prescindere da quel corpus di analisi delle aporie indigene alla condizione umana che si è andato strutturando in secoli di riflessione? La psicopatologia ha perso il coraggio delle grandi sintesi concettuali?

L'autore di questo libro, che è acuto, denso e di stimolante lettura, riformula queste domande, scende alla loro radice, ripensa criticamente i fondamenti e i risultati dell'approccio fenomenologico in psicopatologia. Una parte notevole del fascino del libro, soprattutto per i lettori non specialisti, deriva dal largo uso delle autodescrizioni. Come descrivono il loro mondo gli uomini e le donne affetti da schizofrenia o da forme maniaco-depressive? Come avvertono una differenza tra quel loro privato mondo, che li ha condotti davanti a uno psichiatra, e il mondo del cosiddetto senso comune? Perché e come quel loro privato mondo è causa di sofferenza? Ci sono persone che vivono come spiriti disincarnati, si percepiscono come entità astratte, contemplano "dal di fuori" la loro propria esistenza. Ci sono persone che vivono come corpi deanimati, incapaci di avvertire come "propri" i loro pensieri, percezioni, emozioni.

Ciascuno di noi è in grado di uscire dalla immediatezza del vissuto, di rivolgere l'attenzione non agli oggetti, ma all'atto del vedere. Si possono trasformare i nostri atti, come scriveva Edmund Husserl, in nostri oggetti, si può spostare l'attenzione dall'oggetto percepito alla percezione stessa. In questo "innaturale" contesto, il mio sguardo diviene un evento che assume la caratteristica della "oggettualità". Posto come un oggetto da analizzare, comincia a distaccarsi da me. Questa esperienza è perturbante perché il guardare perde la sua immediatezza, appare in qualche modo estraneo e non più familiare. Il ritorno all'immediatezza o al cosiddetto "senso comune" si configura, per alcuni, come un viaggio impossibile. Il libro affronta, con non usuale coraggio, molti temi centrali: le origini e lo status attuale della psicopatologia; le psicosi come disturbi dell'intersoggettività; i significati delle cosiddette "disfunzioni sociali"; le anomalie della sintonizzazione (ovvero l'incapacità di interagire con gli altri) nella melancolia e nella schizofrenia; il problema della depersonalizzazione e quello delle allucinazioni uditive; il significato di un termine come "delirio".

Il capitolo sesto, che ha per titolo, «I sensi del senso comune» contiene, oltre che richiami ad Aristotele e ad altri classici, pagine di rilevanza filosofica. Alle radici di questo bel libro sta una convinzione forte. L'autore pensa che la psicopatologia classica stia attraversando una crisi irreversibile. Lo scenario delle osservazioni di Jaspers e di Schneider era la clinica psichiatrica. Quella psicopatologia, nata nel periodo della "grande ospedalizzazione", è prevalentemente costruita sull'esame di pazienti diventati "casi" dell'esperienza manicomiale. Dopo la scoperta degli psicofarmaci e la chiusura dei manicomi come luoghi di contenimento della follia, quest'ultima si è, per così dire, distesa sul territorio. Sono entrate in crisi molte antiche classificazioni e molte consolidate certezze. E questa crisi si innesta, a sua volta, su una situazione, per così dire, di crisi cronica o ineliminabile o fisiologica: «Ascoltare una persona schizofrenica - scrive Stanghellini - è un'esperienza sconvolgente per più di una ragione. Se lascio che le sue parole attualizzino in me le esperienze di cui parla, invece di prenderle come sintomi di una malattia, lo scoglio di certezze sul quale si arrocca la mia vita può esserne travolto e sommerso».



Giovanni Stanghellini, «Disembodied spirits and deanimated bodies: the psychopathology of common sense», Oxford University Press, 2004, pagg. 226, euro 29,95.

un convegno a Roma:interventidi Annelore Homberg e di Marcella Fagioli

una segnalazione di Marco Pizzarelli



La dott.ssa Roberta Rocchi ha organizzato un convegno

al quale hanno partecipato anche


la dott.ssa Annelore Homberg e la dott.ssa Marcella Fagioli.



Il titolo del convegno era

"Gli aquiloni volano con il vento: il primo anno di vita"

e si è tenuto nei giorni 28 e 29 ottobre 2004, a Roma,

nella Sala del teatro del Borgo Monumentale di S. Spirito in Sassia

Via dei Penitenzieri.



Ecco di seguito i titoli delle relazioni

della dott.ssa Annelore Homberg e della dott.ssa Marcella Fagioli:



28 ottobre, ore 10.35

L'IDENTITÀ PERSONALE DEL PRIMO ANNO DI VITA

Dott.ssa Annelore Homberg - Roma



28 ottobre, ore 11.50

LA REALTÀ BIOLOGICA UMANA

Dott.ssa Marcella Fagioli - Roma




La dott.ssa ROBERTA ROCCHI ha presieduto questa sessione

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18.000 anni fal'homo floresiensis

Repubblica 28.10.04

Sconvolgente scoperta in Indonesia: trovato lo scheletro di un ominide di 18 mila anni fa, alto un metro e dal cervello minuscolo

Che shock quel nostro antenato era piccolo come un hobbit

Una smentita dell´idea che l'umanità sia sempre progredita "verso il meglio"

I contemporanei del misterioso "homo floresiensis" erano assai più evoluti di lui

CLAUDIA DI GIORGIO



ROMA - Si chiama Homo floresiensis, ed è una nuova specie di ominide: forse la più misteriosa scoperta finora. Perché a dispetto delle dimensioni minuscole (appena un metro di altezza) e della ridottissima massa cerebrale (il cranio ha una capacità di 380 cc) non è un remoto antenato dell´umanità, ma un suo contemporaneo, vissuto circa 18.000 anni fa. Vale a dire che, mentre in Europa gli uomini di Cro-Magnon (alti oltre 1.60 cm e con un cervello di almeno 1400 cc) realizzavano capolavori artistici come le pitture rupestri di Chauvet o Lascaux, nell´isola indonesiana di Flores, dove sono stati ritrovati i resti fossili della nuova specie, viveva una popolazione di ominidi più bassi del più basso pigmeo, dotati di un cervello grande quanto un pompelmo.

La scoperta di H. floresiensis, a cui la rivista "Nature" dedica oggi la copertina, ha messo in subbuglio la comunità dei paleontologi. Fino ad ora sembrava che noi, unici sopravvissuti del genere Homo, avessimo convissuto solamente con i Neandertal, e solo fino a 30.000 anni fa. Le differenze anatomiche tra noi e i Neandertal, inoltre, sono notevoli ma non straordinarie, tanto che si discute ancora l´ipotesi che le due specie si siano incrociate. Da dove salta fuori allora questa sorta di Hobbit indonesiano, questa smentita vivente della rassicurante immagine di un´umanità che si evolve "verso il meglio", diventando via via più alta e più cervellona?

Secondo Peter Brown e i suoi colleghi dell´università di Armidale, in Australia, e dell´Indonesian Centre for Archaeology, che nel settembre del 2003 hanno ritrovato nella grotta di Liang Bua, a Flores, un cranio completo di mandibola e una serie di ossa sufficienti quasi a formare uno scheletro intero, l´ipotesi più ragionevole è che H. floresiensis sia il risultato di un lunghissimo periodo di isolamento. Benché le sue dimensioni siano simili, e persino inferiori, a quelle della famosa Lucy, l´australopitecina vissuta oltre 3 milioni e mezzo di anni fa, la sua morfologia lo colloca infatti nel gruppo di Homo erectus, la specie protagonista della prima grande emigrazione fuori dall´Africa, verso l´Asia, inclusa Giava, che non dista poi molto dall´isola di Flores. Ecco quindi che lo scenario più probabile per spiegare l´enigmatico omettino è che un gruppo di H. erectus sia finito in qualche modo (ma quale?) su Flores, e vi sia rimasto isolato per un periodo di tempo sufficiente (ma quanto?) a provocare un adattamento evolutivo così spettacolare. Le domande sono tantissime. Perché, ad esempio, la riduzione delle dimensioni del cervello è stata ancora più marcata di quella del corpo? C´entrerà qualcosa il fatto che Flores si trova a est della cosiddetta "linea di Wallace", la frontiera immaginaria che divide in due l´Indonesia, di qua tutte specie di tipo asiatico e di là tutte australiane? E qual era lo stile di vita di H. floresiensis e quali le sue capacità tecnologiche? Gli Homo sapiens sono arrivati nella regione indonesiana circa 55.000 anni fa: le due specie si sono mai incontrate?

Insomma, come commenta l´antropologo Robert Foley, H. floresiensis è una sfida: "l´ominide più estremo che sia mai stato scoperto". Una cosa però sembra certa. Il genere Homo, a dispetto delle sue peculiarità "culturali" è stato soggetto alle stesse pressioni evolutive degli altri mammiferi, a cui ha risposto adattando il proprio corpo in modo assai più variabile e flessibile del previsto.

Savater: la normalità

La Stampa 28.10.04

DAGLI SCHIAVI NERI AI DISSIDENTI SOVIETICI AI MATRIMONI GAY: LA DITTATURA DELLA NORMA

La pensa diversamente? Allora è malato

di Fernando Savater



NON molto tempo fa, in pieno dibattito sulla regolamentazione del matrimonio tra omosessuali, ho letto che un vescovo giudicava l’omosessualità «un’anormalità psicologica», vale a dire una sofferenza patologica verso la quale si deve provare compassione come nei confronti di qualsiasi male, ma che non dev’essere riconosciuta come un diritto. Mi pare che a dare quest’opinione fosse il vescovo di Avila, ma non fidatevi troppo di me perché in materia di vescovi non capisco molto. Ciò che interessa è che, di fianco a questa diagnosi giornalistica, c’era la foto del religioso in questione: un uomo piuttosto giovane, con occhiali e aspetto concentrato che portava in testa una sorta di gigantesca cialda bianca di tela inamidata e vestiva un abito a metà tra una gualdrappa e un mantello da passeggio, un po’ rigido ma estremamente variopinto. Contagiato dal clima evangelico della questione, mi è venuta in mente la condanna espressa contro coloro che vedono la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel proprio. Perché, per parlare chiaro, abbigliarsi in quel modo e pretendere, per di più, di dare lezioni sulla normalità psicologica mi sembra, se non altro, un po’ stonato.

La tendenza a trasformare in «malati» quanti si comportano in modo eccentrico, ignobile o pericoloso, secondo il particolare criterio di chi decide caso per caso, è una tradizione assai frequentata e documentata sin dall’inizio della nostra epoca moderna e razionalista. Senza dubbio siamo in molti a ricordare, ancora, che i dissidenti del regime sovietico, quando questo divenne «umano» dopo la morte di Stalin, non venivano più liquidati in campi di concentramento: era invalsa l’abitudine di chiuderli in ospedali psichiatrici diagnosticando che le loro critiche nei confronti dell’utopia comunista erano sintomi di disturbo mentale e non risultato di lucidità politica. La cosiddetta intelligentja progressista europea era solita accettare queste diagnosi, proprio come oggi non mancano scrittori d’analoga indole pronti a sostenere che i prigionieri politici di Cuba sono semplicemente agenti della Cia.

Esistono precedenti molto più antichi. Ad esempio, nel numero di maggio del 1851 del New Orleans Medical and Surgical Journal, l’allora famoso dottor Samuel Cartwright pubblicò «una relazione sulle malattie e le peculiarità fisiche della razza negra», basato sulle sue attente osservazioni degli schiavi che lavoravano nelle locali piantagioni. Segnalava che una delle patologie più comuni era quella, da lui definita «drapetomania», il cui più evidente sintomo era: tentare di fuggire quando se ne presentasse l’occasione. Ad altri attribuiva un morbo ancor più dannoso: la «disaestesia etiopsis», che aveva come caratteristica quella di «rompere e distruggere tutto quello che gli passava per le mani... senza riguardo alcuno per i diritti di proprietà». Pochi anni dopo, in un manuale clinico pubblicato nell’Inghilterra vittoriana, il saggio dottor Curling segnalava una nuova piaga: la «spermatorrea». Chi ne era colpito - tutti maschi - mostrava una prodigalità suicida del proprio liquido seminale che sperperava allegramente sia da solo, sia insieme a complici di qualsiasi sesso. E a questo proposito lo specialista francese, dottor Lallemand, parlando della «spermatorrea», assicurava che si trattava d’una «malattia che degrada l’uomo, avvelena la serenità dei migliori giorni della sua vita e corrompe la società».

Prendo questi dati dall’interessante libro The Nature of Disease di Lawrie Reznek, pubblicato da Routledge & Kegan Paul nel 1987. Nel XX secolo la masturbazione ereditò, poi, i tratti malaticci dell’antica spermatorrea visto che, secondo alcuni, causava addirittura la mortale liquefazione del midollo spinale... Persino il dottor Sigmund Freud fa ancora eco a queste superstizioni con cui, durante gli anni della mia adolescenza, volevano spaventarci presentandocele come fatti scientificamente dimostrati... con un successo, diciamolo pure, men che mediocre.

Attualmente la propensione a trasformare in malattia quei comportamenti che si disapprovano sia igienicamente sia moralmente, è diventata generalizzata e, certo, non colpisce solo i vescovi. Da ogni angolo saltano fuori nuovi malanni, visti sotto forma di dipendenza, vale a dire come una mania che ci induce a continuare a fare quello che cento volte ci hanno detto di non fare... o quello che noi stessi abbiamo detto apertamente che non vogliamo continuare a fare. Ci sono «ludopati» che giocano più del necessario, sessuomani che non pensano ad altro che a fornicare, alcolisti, drogati di vario tipo, dipendenti da videogiochi o da telefono cellulare, drogati da lavoro che non si stancano mai di trafficare in ufficio e un sacco d’altri tipi di malattia creati su misura per quanti non vogliono guarirne. Prima tutto questo si definiva, al massimo, «vizio», ma adesso, anche molti tra gli stessi interessati, preferiscono dichiararsi malati e riconoscere che, a volte, abusano di quello che dovrebbero semplicemente saper usare.

E lo stato si preoccupa con molta attenzione di proteggere la cosiddetta salute pubblica, intesa, generalmente, come la decisione istituzionale d’impedire che qualcuno, casualmente o volontariamente, diminuisca la capacità produttiva propria o altrui, faccia sprecare pubblico denaro nella «riparazione» di certi danni, o accorci in qualche modo la durata del suo servizio come pedina nelle fatiche di questo mondo... Ah, padre Stato, non lasciarci cadere in tentazione! Aveva ragione il grande Karl Kraus quando, tanti anni fa, sosteneva: «Una delle malattie più diffuse è la diagnostica».

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