lunedì 29 novembre 2004

Buongiorno, notteMarco Bellocchio sul Financial Times

Financial Times 28.11.04

Good Morning, Night **** - NEW

Superb political thriller, plucked from reality. As the Terror followed the Revolution in France, so the Red Brigades followed the upheavals of late-1960s European dissent. Veteran director Marco Bellocchio dramatises the 1978 kidnap and murder of Italian ex- premier Aldo Moro, presenting the student-terrorists in all their cold, sober, Robespierrian fanaticism. The world blares its headlines outside, but to the kidnappers it is just a cacophonous failure to understand.

storie criminalichiesa cattolica: la persecuzione antisemita

Repubblica 29.11.04

QUEI BATTESIMI IMPOSTI


La Chiesa e le forzate conversioni degli ebrei

Una storica elenca e analizza i vari episodi di illibertà e di antisemitismo cattolico

Dagli archivi del Sant'Uffizio i documenti su una vicenda che è durata per alcuni secoli

Dal Seicento in poi si accentua la pratica di intimidazione psicologica e fisica

L'ossessione di strappare quante più anime possibili alla condanna dell´inferno

di MARCO POLITI



ROMA. Nell'Anno del Signore 1639 l'ebreo Prospero di Tullio accettò l´offerta di un frate che gli aveva promesso di «ben accomodare» uno dei suoi figli e di farlo battezzare personalmente da papa Urbano VIII se lo avesse offerto in conversione a Santa Romana Chiesa. Raccontano le cronache che l'ebreo si pentì subito, affermando che «haveva burlato», ma era troppo tardi. Per la Chiesa il patto era stato stretto e nel cuore della notte il rettore della Casa dei Catecumeni (l´istituto creato per le conversioni di ebrei e infedeli) fece irruzione nel ghetto di Roma in casa di Prospero, esigendo l'nfante. L'ebreo rispose di no. E qui lasciamo la parola direttamente al rettore Remedio Albani, che così replicò: «Io secondo gli ordini datimi (dissi) che in caso non mi ne desse uno de sua volontà, ne havesse presi tutti quelli che havesse giudicato infanti sotto sette anni, e così non volendo detto Prospero darne uno, ordinai alla corte (cioè agli sbirri, ndr) prendesse uno nella culla, dove viddi che era, e un altro putto che giudicai così nella notte non passar sei anni».

I due bambini, nonostante le proteste del padre e della comunità ebraica, finirono battezzati Urbano Urbani e Anna Urbani in onore del pontefice, «a confusione della maledetta e ostinata canaglia Ebraica. Il tutto a lode dell'Onnipotente Dio Trino e Uno».

Storie troppo lontane? Nel 1816 David Citone ebreo ottuagenario romano abbraccia la fede cattolica. «Per disperazione e miseria», cercando un ricovero nella Casa dei Catecumeni: così diranno i suoi correligionari. Perché «illuminato» da Dio, affermerà lui stesso. Non possiamo saperlo. Risulta però che nel novembre di quell'anno «offre» alla Chiesa cattolica la propria moglie e la nipote Giuditta. La moglie gli sottostà. Ma la nipote ha un padre, Graziadio Citone. Inutilmente. Con undici voti su dodici i consultori del Sant'Uffizio decidono che la potestà sulla piccola continua ad essere del nonno e quindi l'«offerta» è valida. Ma c'è un colpo di scena. A dicembre, mentre la causa è ancora in corso, il vecchio nonno viene preso da un colpo apoplettico.

Graziadio Citone assume dunque pienamente la patria potestà e avrebbe il diritto di rifiutare il battesimo forzato della figlioletta. E tuttavia saltano fuori nuovi cavilli giuridici.

Sostengono le autorità ecclesiastiche che nonno Citone è morto cresimato, baciando «con tenerezza» il crocifisso senza aver mai cambiato parere. E, soprattutto, nel momento stesso della sua offerta aveva trasferito di fatto la patria potestà a Santa Madre Chiesa, che ora poteva disporre della piccola Giuditta ben superando l'opposizione disperata del padre ebreo. Così fu. Nel luglio 1817 Giuditta fu battezzata con il placet dei cardinali del Sant'Uffizio.

L´episodio clamoroso, avvenuto dopo la breve emancipazione napoleonica quando ormai si era rafforzata tra gli ebrei la consapevolezza dei diritti naturali e civili, è uno dei tanti, tragici fatti di battesimo forzato emersi dagli archivi del Sant'Uffizio e del Vicariato di Roma grazie alle ricerche della studiosa Marina Caffiero. E Battesimi forzati (Editore Viella, pagg. 352, euro 22) si chiama la sua ultima opera sugli ebrei convertiti nella Roma dei papi.

Molti conoscono la storia di Edgardo Mortara, battezzato di nascosto, tolto ai genitori a Bologna nel 1858 e poi avviato alla carriera ecclesiastica: evento che suscitò uno scandalo internazionale in piena epoca risorgimentale. Ma è storia praticamente rimossa la «caccia alle conversioni» scatenata con crescente pressione dalla fine del Cinquecento sino all'Ottocento.

Una pratica condotta con l'alternarsi di allettamenti e intimidazioni psicologiche, rivolti specialmente su soggetti deboli come donne e bambini, e robustamente accompagnata dagli internamenti forzosi nella Casa dei Catecumeni: ufficialmente per «esplorare la volontà» dei chiamati in causa. Perché - pochissimi lo sanno - esistevano norme papali che prevedevano l'«offerta» alla Chiesa di ignari congiunti da parte di ebrei convertiti. E c'era ancora di più. La possibilità di «denunciare» la supposta volontà di ebrei, espressa in qualsiasi circostanza dinanzi a testimoni. Se ne servivano anche amanti respinti nei confronti di fidanzate riottose.

Marina Caffiero ha scovato negli archivi episodi incredibili, che si inquadrano nell'ossessione della gerarchia cattolica di strappare quante più anime possibili ai «perfidi Ebrei». C'è Ricca, promessa sposa dell'ebreo Giuseppe Limentani, rapita urlante la sera prima delle nozze perché - diceva una denuncia - avrebbe manifestato la volontà di farsi cristiana. C'è Ester Serena, nonna che chiede il battesimo e offre alla fede cristiana non solo le due nipotine di tre e sei anni, ma anche il feto nascituro della nuora incinta. Fidanzate «offerte» a forza dal promesso sposo catecumeno. Madri incinte sottoposte al lavaggio del cervello per convertirsi ed evitare di perdere il figlio subito battezzato appena nato. Nipoti minorenni sequestrate dallo zio e portate alla Case dei Catecumeni. Atti di violenza fisica o spirituale inseriti nel continuo, sottile e ossessivo argomentare sul valore contrattuale irreversibile di una parola detta o sui «poteri» di un parente rispetto ad un altro.

Risorgono dalla polvere degli archivi personalità fiere come la giovane Mazaldò, offerta alla religione cristiana dal coniuge catecumeno Angelo Francese, e che reclusa nella Casa dei Catecumeni si difende in tutti modi. Lanciando qualsiasi oggetto contro chi la vuole indottrinare. La reclusione riuscirà, però, a fiaccarla. «Di feroce leone è diventata mansueta pecora dell'ovile di Gesù Cristo», scrive soddisfatto nel 1770 il cardinale Albani.

Sullo sfondo si agita, tuttavia, una società complessa, documentata con cura ed equilibrio dalla Caffiero. Tra ebrei e cristiani vi sono molti più rapporti e interazioni di quanto la segregazione del ghetto lascerebbe supporre. Cristiani sono gli avvocati che difendono a nome della comunità ebraica le vittime sequestrate. I papi stessi chiamano talvolta a consulto giuridico dei rabbini. I capi della comunità ebraica sono molto meno passivi di quanto una certa pigra storiografia li dipinga. Con il passare degli anni diventano, anzi, sempre più battaglieri. Posizioni divergenti nel trattare gli ebrei si manifestano tra il Vicegerente della diocesi di Roma (responsabile della Casa dei Catecumeni) e il Sant´Uffizio, che a volte si dimostra garantista e dispone la restituzione dei minori sequestrati.

Emerge, comunque, il quadro di un insistente anti-giudaismo, che unisce popolino e alte personalità ecclesiastiche e che invece di diminuire con l´età moderna si acuisce dopo la Rivoluzione francese. Né va sottovalutato il riproporsi insistente e insidioso del mito antiebraico dell´omicidio rituale. Non è del Medioevo ma del 1761 il volume pubblicato a Venezia dal sacerdote Giovanni Pietro Vitti con l´eloquente titolo Memorie storico-cronologiche di vari bambini, ed altri fanciulli martirizzati in odio di nostra fede dagli ebrei, dove si parla di barbari lupi mannari israelitici che impastano il loro cibo di «sangue, ch´a colpi di ferite, e di trafitture, e di spille spremono da quei teneri corpiciuoli (di bimbi cristiani)».

Torrenti di odio e di veleno cattolico che andranno a ingrossare nel Novecento il fiume esiziale dell'antisemitismo propugnato dal nazi-fascismo e dalla destra reazionaria.

pillole...

Repubblica 29.11.04

Pillola della memoria, la grande corsa


Negli Usa è sfida tra scienziati. Tra due anni i primi risultati dei test

Decine di società al lavoro per mettere a punto un farmaco che aiuti a ricordare

I nuovi scenari aperti dagli studi su una piccola lumaca marina, l'aplysia californicus

Secondo alcuni ricercatori perfino la nicotina avrebbe un'influenza sulla memoria

Il neurologo Steven Siegelbaum: "Per chi indaga sulla mente è un periodo esaltante"

Il premio Nobel Eric Kandel: "Ormai la sperimentazione è vicina al traguardo"

di MARY CARMICHAEL



Affermare che l'Aplysia Californicus è una delle creature meno affascinanti della natura è un eufemismo: questa lumaca marina ermafrodita dalla pelle violacea e maculata quando viene disturbata reagisce emettendo un fluido scuro col quale intorbida le acque intorno a sé. Il suo "cervello", se così lo si può chiamare, è straordinariamente elementare, formato soltanto da qualche migliaio di neuroni di grosse proporzioni. Nonostante tutto, però, tra qualche anno molti potranno essere pesantemente in debito nei confronti di questa bruttissima e piccola creatura.

L'Aplysia in effetti appare alquanto insignificante, ma per gli scienziati che auspicano di trovare grazie a lei un farmaco in grado di potenziare la memoria, è un prodigio in miniatura. Grazie alle ricerche neurologiche del premio Nobel Eric Kandel e di altri suoi colleghi, l´elementare sistema nervoso dell'Aplysia sta aiutando gli scienziati a comprendere in che modo la memoria funziona a livello biochimico: è emerso infatti che le molecole della memoria dei lumaconi marini non sono poi così dissimili da quelle degli esseri umani, tanto che oggi queste creature sono al centro di studi volti a mettere a punto dei farmaci che possano un giorno scongiurare la perdita di memoria che moltissime persone si trovano a dover affrontare a mano a mano che invecchiano.

Se si escludono rimedi di dubbia efficacia, attualmente sul mercato non vi è alcuna pillola in grado di migliorare la memoria, ma sono molte le piccole società biotech al lavoro su sostanze messe a punto nel corso di recentissime ricerche. Alcune di esse si trovano già nelle prime fasi della sperimentazione clinica che potrebbero concludersi «entro due anni, se siamo fortunati» come spiega Kandel, attualmente impegnato al centro di medicina della Columbia University (Cumc) e all'Howard Hughes Medical Institute (Hhmi). Alcuni dei farmaci più promettenti hanno preso origine proprio dagli studi condotti sull'Aplysia, mentre altri sono partiti da fattori ancora più inverosimili, come le conseguenze molecolari del fumo, con una particolare attenzione ai recettori che la nicotina prende di mira. (Chi ha mai pensato che potessero esservi dei benefici nel fumo?). «È un periodo molto esaltante per le ricerche sul trattamento della perdita di memoria» commenta Steven Siegelbaum, neurologo presso il Cumc e l'Hhmi. E ora che le sperimentazioni stanno per concludersi, l'entusiasmo è quanto mai alle stelle.

È stato faticoso, lungo e impegnativo arrivare fino a questo punto: i ricercatori ormai sanno per certo che il cervello - che funziona grazie a una sequenza chimica innescata dai neurotrasmettitori - in un primo tempo immagazzina le informazioni a breve termine nella corteccia prefrontale, e in seguito ne trasforma le parti prescelte in ricordi a lungo termine per mezzo dell´ippocampo, una regione vagamente somigliante a un cavalluccio marino che si trova in profondità nelle pieghe del lobo temporale sovrastanti l'orecchio.

Conoscenze di questo tipo erano del tutto impensabili anche soltanto una trentina di anni fa. «La biologia dell´immagazzinamento dei ricordi era davvero una sorta di buco nero per noi», conferma Kandel la cui idea di risolvere un problema complesso studiando un organismo fin troppo elementare fu accolta con enorme scetticismo. Ma con i suoi studi su una lumaca marina, Kandel scoprì effettivamente qualcosa. Poiché i neuroni dell'Aplysia erano così pochi e di così rilevanti dimensioni, egli fu in grado di identificare le singole cellule nervose responsabili dei singoli comportamenti. Le cellule nervose del lumacone risultarono funzionare grazie ad alcuni degli stessi processi biochimici che fanno funzionare i cervelli di animali molto più evoluti. L'Aplysia californicus, insomma, si rivelò essere un ottimo modello per comprendere i processi molecolari della memoria degli esseri umani. Entrambe le specie, infatti, funzionano grazie all'Amp, adenosin-monofosfato ciclico (ciclyc Adenosine Monophosphate) che modula una proteina detta Creb (Cyclic adenosine monophosphate Response-Element Binding protein): quest'ultima sarebbe una sorta di scultore che nel cervello forma i ricordi rimodellandone le sinapsi, i collegamenti tra i neuroni. Trasformazioni nei livelli dell'Amp ciclico - e conseguenti trasformazioni nei livelli di Creb - influenzano la capacità del cervello di rimodellare e riconfigurare le proprie sinapsi. Meno Creb equivale a meno capacità di formare i ricordi. Il risultato pratico di questa ricerca, così come degli impegnativi test sui topi e sulle cavie, è sfociato nella messa a punto di numerosi nuovi farmaci in corso di perfezionamento presso la Memory Pharmaceuticals, una società fondata tra gli altri da Kandel nel 1998. La sostanza creata in seguito alle scoperte effettuate sull´Aplysia si chiama "Mem1414": poiché l'Amp ciclico, il neurotrasmettitore che determina i livelli di Creb, è solitamente messo fuori uso nel cervello da enzimi detti fosfodiesterasi, l'"Mem1414" inibendo l'attività di questi ultimi incrementa i livelli di Creb, migliorando la memoria a lungo termine nei pazienti che soffrono di disturbi di memoria correlabili all'età avanzata, e allontana altresì le prime fasi dell´Alzheimer, anche se i due disturbi non sono collegati tra loro. Vi sono poi la "Mem1917", una sostanza simile alla 1414, la "MemM1003", che protegge i neuroni dai dannosi accumuli di calcio, e la "Mem3454", una sostanza contro la schizofrenia che prende di mira il recettore che ormai si sa che reagisce anche alla nicotina. I ricercatori ipotizzano che alcuni schizofrenici di fatto allevino i sintomi della loro condizione, compresa la perdita di memoria, autocurandosi con le sigarette.

Le aziende farmaceutiche coinvolte in questi studi sono moltissime. L'Helicon ha un inibitore della fosfodiesterasi tutto suo; la Sention, co-fondata da Mark Bear del Picower Center per l'apprendimento e la memoria del Mit (Massachusetts Institute of Technology), ha messo a punto una sostanza chimica che influisce sull'Amp ciclico e sul Creb. La Cortex Pharmaceuticals, una delle prime società a studiare delle sostanze per il miglioramento della memoria, si sta concentrando altrove, su alcune molecole dette "ampakine" che modulano i "recettori Ampa" nel cervello e che possono rafforzare le sinapsi. Per il momento, i ricercatori sono riluttanti a tessere le lodi di queste sostanze. Ma la corsa alla pillola della memoria, forse, è solo all'inizio.



(copyright Newsweek-la Repubblica traduzione di Anna Bissanti)

Svizzeraricerca sulle staminali

Repubblica 29.11.04

Il referendum

A favore due votanti su tre, nessun Cantone contrario

Svizzera, sì alla ricerca sulle cellule staminali

di RORY CAPPELLI



ROMA - L´esito non era scontatissimo, nonostante governo e maggioranza avessero raccomandato agli elettori di rispondere sì a tutti e tre i quesiti del referendum: ricerca sulle cellule staminali, nuova perequazione finanziaria tra i cantoni; e nuovo regime finanziario. E per la ricerca sulle cellule staminali non lo era anche perché, come del resto in altre regioni d´Europa e negli Stati Uniti, ancora fortissime sono le resistenze all´uso di embrioni umani nella ricerca. In Svizzera le proteste erano guidate da movimenti come l´Appel de Bale, che l´ha lanciato; da antiabortisti; da alcuni ecologisti; e dalla Conferenza svizzera dei vescovi. Ma il risultato è stato un secco 66,4% di voti favorevoli, con nessun Cantone contrario, con le votazioni in relativo bilico in un solo cantone, Valais, che ha dato parere positivo con il 53,7% dei voti, mentre a Ginevra il "sì" è stato pronunciato dall´84,6% dei votanti.

Soddisfatti ricercatori e scienziati che paventavano il rischio di rimanere esclusi in un ambito fondamentale per la ricerca che sta avendo, e ancor più avrà in futuro, importanti sviluppi: potenzialmente, infatti, queste cellule sono in grado di dare origine a qualsiasi tessuto o organo e, forse, apriranno nuovi orizzonti per la cura di malattie gravi come l´Alzheimer, le patologie del miocardio, il Parkinson. Anche per l´economia della Svizzera è un traguardo, visto l´alto numero di importanti industrie farmaceutiche nazionali.

Nei cantoni elvetici era in vigore una legge che vietava l´utilizzo a scopo di ricerca di embrioni fecondati che non servivano più per la procreazione: nel 2003, però, era stata approvata dal Parlamento una norma che apriva la possibilità alla ricerca sulle cellule staminali umane a partire proprio dagli embrioni soprannumerari, che in Svizzera, secondo alcune fonti, arrivano a circa 200 l´anno. Norma subito contestata da associazioni di difesa per la vita, ma anche da buona parte della sinistra che temeva, e, come tutti i promotori del referendum, teme ancora, che da tali ricerche si passasse poi alla ricerca sulle tecnologie della clonazione. Secondo la vecchia legge gli embrioni soprannumerari dovevano essere distrutti: oggi queste cellule estratte da un embrione umano e ancora senza una funzione precisa, potranno essere sviluppate in, per esempio, cellule del cuore, del cervello oppure del fegato.

Tra le condizioni della legge, quella che prevede il consenso scritto dei genitori donatori degli embrioni; quella che stabilisce l´esistenza di uno specifico progetto di ricerca che dovrà essere certificato per la sua validità scientifica ma anche per il suo rispetto dell´etica; quella secondo la quale non ci dovranno essere alternative al progetto di ricerca presentato; e quella che obbliga ad utilizzare cellule embrionali non hanno più di sette giorni di sviluppo. Un´importante restrizione è quella che stabilisce che non potranno essere prodotti embrioni per la ricerca; che gli embrioni soprannumerari dovranno essere utilizzati per la ricerca; mentre resterà illegale la commercializzazione delle cellule staminali. Pascal Couchepin, capo del Dipartmento Fédéral Intérieur, ha dichiarato che "questa dimostrazione di fiducia nella ricerca è una risposta di speranza: la speranza di poter, un giorno, guarire malattie fino a oggi incurabili".

lo stress...

La Stampa 29 Novembre 2004

STRESS

di Stefania Miretti



SOTTO Natale (punti 12) il bambino di prima elementare (punti 26) viene strattonato dal corso d'inglese alla lezione di tennis (punti 25) da una mamma appena promossa in ufficio (punti 29) e fresca separata (punti 63) perciò a dieta (punti 15). Al ritorno dalle vacanze (punti 13) la giovane coppia appena sposata (punti 53) scopre di essere in attesa di un figlio (punti 40) e progetta l'acquisto di una casa nuova (punti 20) con conseguente accensione di mutuo ipotecario (punti 31). Un qualunque martedì mattina la nonna da poco rimasta vedova (punti 100) e perciò costretta a modificare alcune abitudini personali (punti 24) si accorge di essersi scordata di pagare in tempo i contributi della badante (punti 11): il fatto che proprio in quei giorni sia cambiato il sacerdote della sua parrocchia parrebbe l'ultimo dei problemi e invece... punti 19.

Non sono numeri da giocare al lotto (e chi volesse farlo, tenga comunque presente che un notevole cambiamento nelle proprie finanze, in peggio o in meglio non c’è differenza, vale un importante: punti 38), ma indicatori del nostro malessere quotidiano. Si chiama Scala di Holmes e Rabe, confidenzialmente «la tabella dello stress», stilata nel 1967 e tutt'ora in auge, nonostante, c'è da supporre, nuove ragioni di malessere e più inquitetanti cambiamenti abbiano fatto irruzione nella vita di quasi tutti noi. Volendo comunque fare un rapido conteggio di quanto siate stressati voi e quanto le persone che vi circondano, compreso il collega di lavoro al quale avete sempre invidiato il proverbiale self control, si tratterà dunque di un calcolo approssimativo per difetto. Perché sappiamo che chi si ammala acquisisce punti 53, chi torna con la moglie 45, che sono da sommarsi e non da sottrarre ai 73 totalizzati quando aveva deciso di divorziare, e che acquistare un'automobile a rate può valere 17 punti stress. Ma quanti ne potrà mai totalizzare il passaggio dalla lira all’euro? La visione degli sgozzamenti in tv? Il crollo delle Torri? Il crac della Parmalat, soprattutto per i piccoli azionisti? In generale, ogni cambiamento che ci veda non attori, ma impotenti e spaventati spettatori?

Fatte le debite supposizioni, in molti di noi s’insinuerà il dubbio che per stare bene convenga non fare assolutamente nulla, o il meno possibile: non innamorarsi e non separarsi, non fare figli e non cambiare casa, non fare carriera, Dio ce ne scampi, e neppure cambiare posto di lavoro; non esagerare con le vacanze, che meno se ne fanno e meno ci si stressa, si sa; e dove possibile passare alla clandestinità onde evitare la questione «pratiche burocratiche», come noto stressantissima. Limitandosi, insomma, a incassare il punteggio base che la vita assegna d'ufficio a ciascuno di noi: i lutti, le perdite, la fine del ciclo riproduttivo e di quello lavorativo, l'alternarsi delle stagioni.

Pare un paradosso, e non lo è. O perlomeno è un paradosso col quale i massimi studiosi di stress vengono quotidianamente a patti: «Complete freedom from stress is death», la libertà totale dallo stress è la morte ha chiarito una volta per tutte Hans Selye, lo scopritore, negli anni Trenta, della Sindrome Generale da Adattamento. E tuttavia tali e tante sono le ricadute sociali ed economiche di questa «non malattia» (ogni anno nei paesi dell'Unione Europea si perdono, per causa dello stress, quasi seicento milioni di giornate di lavoro), che trovare un modo per prevenire e curare lo stress, sia pure parzialmente, è diventato uno degli assilli della società sotto stress.

L’editore Carocci ha appena mandato in libreria un saggio piuttosto esaustivo di Jean-Benjamin Stora, psicanalista, psicosomatista e professore di gestione d’impresa parigino (Lo stress, pp. 130, e11,60). Convinto che lo stress sia la caratteristica delle società industriali evolute, Stora concentra la propria attenzione soprattutto sull’organizzazione del lavoro, sorvegliandone i più recenti cambiamenti: dunque, non solo la sofferenza legata alla carriera o alla frustrazione, ai cambiamenti in generale, ma anche quella causato dal mobbing, dal conflitto tra vita professionale e vita familiare (con particolare attenzione al malessere femminile, dal momento che risulta all’autore del saggio, e non solo a lui, che «le donne, qualunque sia la posizione gerarchica che occupano, siano più stressate dei colleghi maschi e soffrano di maggiori disturbi psicosomatici); sugli effetti delle grandi immigrazioni (la mobilità geografica è considerata fattore di stress che causa malattie mentali e disordini somatici), della crescita della flessibilità (meno ore di lavoro producono aumento dello stress, tra l’altro), della globalizzazione dell’economia che impone alle aziende nuovi metodi di gestione del personale.

I rimedi fino ad ora escogitati dalla società sotto stress per curare se stessa sono noti. Quello farmacologico, soprattutto: il frequente ricorso a vitamine e integratori (accolta la lezione della psicosomatica, pare fondamentale «rafforzare» le difese immunitarie dell’individuo sottoposso a stress), nei casi più blandi; gli psicofarmaci, quando i sintomi diventano più evidenti. Stora annota che nella sola Francia si vendono ogni anno più di 25 milioni di scatole di antidepressivi e 75 milioni di scatole di tranquillanti, un primato europeo che i francesi condividono con i cittadini della Repubblica federale tedesca. Sempre più persone ricorrono poi alle tecniche di rilassamento, mentale e del corpo, molto in voga tra i ceti medio-alti: dallo yoga alla meditazione, dallo stretching al pilates. Altri provano a sopravvivere ai cambiamenti andando alla ricerca «di un senso»: ricerca che, quando non sfocia nella «medicina fai da te», vira verso la frequentazione di astrologi, massaggiatori, erboristi, guru. Cresce infine, in tutto il mondo occidentale, il ricorso alle psicoterapie, nella loro accezione più ampia. Un approccio, quest’ultimo, caldeggiato dall’autore del saggio, che lo consiglia in tutti i casi in cui la situazione di stress si aggrava, e cioè: «la volontà viene meno, l’individuo è colpito dalla percezione della sua impotenza, ferito nel suo amor proprio».

E qui si arriva, o si ritorna, al nodo: è curabile, lo stress? Stora ammette il limite: le armi che abbiamo a disposizione parrebbero perlopiù sintomatiche. «Noi siamo in grado trattare lo stress», afferma, «ma il compito di prevenirlo spetta alla società».

Nell’attesa che venga quel giorno, molti, dopo aver sperimentato i possibili «trattamenti», e aver constatato che inserire anche solo un’ora di nuoto e due di psicoterapia nella propria settimana di cittadino mediamente stressato può far schizzare il punteggio personale a livelli intollerabili, rinunciano a qualunque trattamento. Scelgono di non fare nulla, o comunque il meno possibile, e provano a convivere con la propria «non-malattia», confidando nel fatto che sia cronicizzabile come il diabete. E’ lì, a quel punto, dopo aver perso tre lezioni di yoga per sopraggiunti impegni familiari o lavorativi, dopo aver cercato invano parcheggio nei dintorni dello studio dello psicoanalista, che l’individuo viene «colpito dalla percezione della sua impotenza». Appunto.

i suicidi dei giovani in Giappone

rainet.it 29.11.04

Intervista alla professoressa Flavia Monceri :"Atti simili non fanno parte della cultura orientale"


Il 'pensiero occidentale' dei suicidi collettivi in Giappone



Dal 2003 decine di giovani si danno appuntamento su Internet per suicidarsi. L'esperta: "Non hanno nulla dei kamikaze della seconda guerra mondiale. Penso al mal di vivere occidentale"

Togliersi la vita addormentandosi sotto l'effetto letale del monossido di carbonio. Una pratica che si trasforma in rito collettivo in Giappone.

A grappolo, giovani vite si danno appuntamento via web per incontrarsi in luoghi del tutto anonimi e insieme consumare l'atto estremo del suicidio. Internet diventa il luogo dove ritrovarsi, dentro gli angoli oscuri di forum ristretti a pochi eletti si consuma la tragedia per certi versi inspiegabile di decine di adolescenti che decidono di seguire i propri amici in un gioco che non ammette repliche o ripensamenti.

L'11 febbraio 2003 tre giovani, due ragazzi di 24 anni e una ragazza di 22, si lasciarono asfissiare in auto nella prefettura di Saitama, una serie interminabile di citta' satelliti-dormitorio della metropoli di Tokyo, dove piu' di altre si avverte acutamente l'assenza di relazioni sociali.

Da allora proliferano i siti per aspiranti suicidi, dove ci si scambia liberamente informazioni sui posti e sulle tecniche migliori per morire assieme. '' Cerco ragazzi che vogliono morire con me nel tal giorno, nel tal posto e a questo modo'' e' il tema ricorrente delle decine di avvisi che compaiono giornalmente su questi siti.

Uno di questi siti avrebbe ben 8.500 iscritti. Impossibile prevedere dove e quando si consumera' il prossimo rito. Avvolto nel mistero della impenetrabilita' della psiche degli adepti, apparentemente ragazzi normali, si nasconde la ragione (sempre che ci sia) dei suicidi collettivi.

Flavia Monceri, professoressa di Comunicazione Interculturale a Perugia, esperta di cultura orientale non concede spazi a ipotesi che riconducano a un atteggiamento culturale i suicidi di questi giorni: "Non fa parte della cultura giapponese uccidersi senza un motivo. Anzi, la morte volontaria deve nascere da un profondo senso del dovere verso qualcosa o qualcuno. Penso ai piloti che durante la seconda guerra mondiale si lanciavano contro le portaaerei americane".

Insomma tra le piste che andrebbero escluse c'e' quella che vorrebbe ricondurre queste morti a qualche misterioso risvolto della millenaria cultura orientale. "Mi viene da pensare che dietro questi gesti ci sia un gioco, folle o stupido non importa, e dietro questo gioco vedo la presenza invadente di un pensiero ossessivo 'occidentale' piuttosto che orientale. Il disagio della vita, il desiderio di sentirsi per un attimo protagonisti. Sono cose piu' occidentali che orientali."

Il mal di vivere di questi ragazzi potrebbe avere origine lungo la faglia di contatto tra le due culture, quella della loro tradizionale e l'invasione dell'occidente che ha finito per corrompere modelli di vita, ideali, obiettivi.

La professoressa Monceri sottolinea: "E' vero che il concetto della morte per un giapponese e' molto diversa dalla nostra. Per noi la morte e' vissuta in modo drammatico, a Est invece e' vista come un qualcosa di piu' naturale. E' anche vero che e' tipico della cultura giapponese condividere insieme le esperienze e forse in questo senso potrei leggere la volonta' di uccidersi in compagnia, ma l'atto in se' non ha niente a che fare con il comportamento culturale di un popolo".

Suicidarsi collettivamente non e' una cosa nuova. L'atto piu' clamoroso risale al 19 novembre 1978: il suicidio di massa più impressionante di tutta la storia. In Guyana si tolgono la vita col cianuro i 911 membri della setta "Tempio del popolo", guidati dal fondatore, il reverendo Jim Jones. Le vittime sono 293 donne, 398 uomini e 219 bambini. Il giorno precedente alcuni adepti avevano ucciso cinque persone, tra le quali il senatore statunitense Leo Ryan, che guidava una commissione d'inchiesta sulle condizioni di vita dei discepoli di Jones.

Franciala religione: nuovo alibi del liberalismo

L'Humanité 27.11.09

La religion : nouvel alibi du libéralisme

Sarkozy veut faire de la religion et du communautarisme la réponse aux ravages de la politique ultralibérale.



D’abord militer comme un beau diable pour décomplexer la droite d’être foncièrement de droite, au sein de l’ex-RPR où subsistaient encore des « compagnons » sociaux-libéraux. C’était dans les années quatre-vingt-dix. Ensuite appliquer à grands pas la politique vouée au fric. C’était en tant que ministre de l’Économie et des Finances. L’étape de la conversion de son camp au libéralisme gagnée, il restait à Nicolas Sarkozy de trouver le remède le plus approprié pour soigner les milliers de victimes de sa politique. Sa pilule miraculeuse se nomme religion. Une logique qui va bien au-delà d’une simple volonté électoraliste dans la perspective des échéances de 2007.

Parfois insidieusement, à d’autres moments sans détours, Nicolas Sarkozy s’en explique longuement dans son livre (1) : « Maintenant que les lieux de culte officiels et publics sont si absents de nos banlieues, on mesure combien cet apport spirituel a pu être un facteur d’apaisement et quel vide il crée quand il disparaît. » Construire des synagogues, des églises et des mosquées devient le nec plus ultra pour réduire la fracture sociale, celle qui sévit particulièrement dans les cités populaires, où les politiques de la ville ont parqué les familles d’origine étrangère, les plus pauvres des plus pauvres. « Je suis convaincu que l’esprit religieux et la pratique religieuse peuvent contribuer à apaiser et à réguler une société de liberté », estime l’homme de Bercy, qui va au bout de sa démarche en proposant aux jeunes comme seule solution de croire en Dieu. Car, écrit-il, « il est préférable que des jeunes puissent espérer spirituellement plutôt que d’avoir dans la tête, comme seule "religion", celle de la violence, de la drogue ou de l’argent ».

Dans son livre, Nicolas Sarkozy s’épanche longuement sur l’islam, insiste lourdement sur « les cinq millions de musulmans », entretenant ainsi sciemment l’amalgame entre l’identité d’une personne et sa religion. Cultivant l’image d’un homme ouvert à l’islam, il peaufine sa stratégie d’implication des musulmans dans son projet d’adaptation politique. Parmi eux, essentiellement les jeunes, de plus en plus séduits par des prédicateurs aux discours intégristes. La seule question qui vaille est de se demander pourquoi en sont-ils arrivés là ? Réduire les problèmes à la seule création de mosquées ou de formation des imams revient à s’abstenir de faire l’analyse des facteurs extra-religieux, telles que les conditions sociales, économiques et aussi historiques. « Ainsi, explique Dounia Bouzar, membre du Conseil français du culte musulman, on islamise le diagnostic social pour éviter de remettre en cause la politique de ghettoïsation des banlieues. » L’anthropologue ajoute : « On peut ériger autant de mosquées que l’on veut, cela ne rétablira jamais l’égalité entre les individus. »

Mais Nicolas Sarkozy sait que son ultralibéralisme engendre, et engendrera de plus belle, de grandes inégalités, que seule la spiritualité pourra soigner. Il appelle les autres politiques à ne pas se contenter de parler « d’économie, de social, d’environnement, de sécurité. Nous devons aussi aborder les questions spirituelles ». Pour Nicolas Sarkozy, « la dimension morale est plus solide, plus enracinée, lorsqu’elle procède d’une démarche spirituelle, religieuse, plutôt que lorsqu’elle cherche sa source dans le débat politique ou dans le modèle républicain ». Au final, il feint de s’interroger si la loi de 1905 sur la séparation de l’Église et de l’État n’est pas « obsolète ». Allant plus loin dans sa stratégie de transformation de la société française, il brise le tabou sur le communautarisme en tentant d’y greffer le modèle américain d’organisation des communautés religieuses.

Mina Kaci



(1) La République, les religions, l’espérance. Éditions du Cerf.

ricevuto da Pino Di Maula

se (e quando) non avete di meglio da fare

ecco un modo per passare 5 minuti - spero - senza annoiarsi troppo...

il pdf pesa un po'....



http://www.clorofilla.it/pdf/vorreimanonposso.pdf

(scorri fino a pagina 3)



http://www.eidenai.it/

domenica 28 novembre 2004

la Festa della Toscana

ADNKRONOS

MUSICA: FIRENZE, CONCERTO PER "LA FESTA DELLA TOSCANA"*



Firenze, 26 nov. (Adnkronos Cultura) - L'austera e maestosa grandezza della Basilica di Santa Maria Novella, edificio simbolo del capoluogo toscano, ospiterà, martedì 30 novembre alle 21.00, il tradizionale concerto per "La Festa della Toscana". In un'eccezionale cornice di arte, storia, cultura, umanità, l'Orchestra da Camera Fiorentina, un organico di ventuno musicisti, tra violini, viole, clavicembali e solisti diretti dal Maestro Giuseppe Lanzetta, si esibirà sulle note delle partiture musicali di A. Marcello e J. S. Bach



*La Regione Toscana ha istituito la Festa della Toscana con la legge regionale 21 giugno 2001, n. 26: la celebrazione si tiene il 30 novembre di ogni anno per ricordare la ricorrenza dell'abolizione della pena di morte avvenuta il 30 novembre del 1786 - per la prima volta al mondo - ad opera del Granduca di Toscana, per affermare l'impegno per la promozione dei diritti umani, della pace e della giustizia, come elemento costitutivo dell'identità della Toscana. La Festa viene celebrata con iniziative e manifestazioni che coinvolgono contemporaneamente ogni località della regione.



La Festa della Toscana 2004 è dedicata alla pace e alla guerra vista con gli occhi dei bambini


dieci secoli di medioevo

La Stampa 28 Novembre 2004

Sesso, bugie e MEDIOEVO

di Renato Rizzo



TORINO. LO «jus primae noctis» su cui si sono costruite pruriginose commedie e tragedie di gotica atmosfera? Mai esistito: solo un esempio di quell’irregolarità del pittoresco che coinvolge e affascina chi cerca nel Medioevo vacue Beautiful da secoli bui. I templari? Sotto l’armatura, quasi niente: il mito che ha ammantato questi cavalieri dalla gloriosa figura è poco più d’una allegoria del vuoto. Non stavano a guardia del Tempio, avevano poco a che spartire con l’epica e con l’etica della ricerca del Graal: usando una certa forzatura prosaica li si potrebbe definire un gruppo di volontari pronti ad assistere i pellegrini lungo le strade che conducevano in Terra Santa. I grandi monasteri? Più ancora che silenti luoghi del sacro, eccoli proporsi - grazie alla loro sterminata produzione d’immagini destinate all’indottrinamento di fedeli in gran parte analfabeti - come pervasivi detentori d’una sorta di «monopolio televisivo» con annesso e immancabile conflitto d’interessi: al punto da spingere l’imperatore bizantino a una smania iconoclasta politicamente calcolata. Tre esempi di Medioevo come mondo nebbioso e fluttuante sull’orizzonte del nostro sapere: spesso riplasmato in modo contraddittorio dal tempo che trasforma la storia in radice di favola.

Sono tanti e labirintici i Medioevi che coesistono nei 10 secoli dell’Età del Mezzo: c’è quello dei mercanti e quello degli artisti, quello della Chiesa e quello dei prìncipi, quello delle invenzioni e quello delle rivisitazioni più o meno apocrife. Oggi, a collezionare e a raccontare questi panorami diversi, quattro volumi della collana Grandi Opere dell’Einaudi, nati da un progetto dello storico dell’Arte Enrico Castelnuovo e del medievista Giuseppe Sergi: s’intitolano Arti e Storia nel Medioevo e si propongono «di mettere in scena un dialogo tra storici dell’arte, attenti alla portata culturale dei documenti figurativi, e storici delle realtà sociali e politiche medievali, che sanno cogliere i molteplici punti di contatto con la nascita e lo sviluppo delle civiltà artistiche».

Un coro di cento specialisti tra i più prestigiosi d’Europa per raccontare insieme un viaggio tra arte e storia durato mille anni: era mai accaduto?

Sergi: «Credo proprio di no. Sino a ora non esisteva un’opera nella quale gli storici fossero riusciti a mettere da parte i loro due principali vizi: superare la tradizione secolare che, a ragione, li presenta come i più presuntuosi tra gli scienziati sociali e che, di conseguenza, li consegna al secondo vizio: ignorare l’importanza della storia dell’Arte».

Castelnuovo: «In questo lavoro non c’è né contrapposizione né egemonia tra le due discipline: il rapporto è visto e vissuto nella sua complessità».

Vediamoli, allora questi «Medioevi» che riaffiorano scorrendo i vari volumi: via via si dipana il racconto dei «tempi», degli «spazi» e delle «istituzioni» con i «paesaggi scritti» e quelli «rappresentati», i «luoghi del potere», i modelli. Quindi si descrivono i protagonisti: gli artisti, gli artigiani, i committenti e i nessi tra immagini, letteratura e predicazione. Per approdare a «ciò che resta dell’età di mezzo» nei secoli successivi, agli usi politici che se ne sono fatti, ai revival, alle reinvenzioni.

C.: «Il primo sforzo è stato quello d’entrare nel vivo della produzione artistica con i problemi e le meraviglie delle singole tecniche prendendo in esame, soprattutto, la “ricezione” dei contemporanei che, sovente, stravolge la gerarchia delle arti alla quale siamo abituati: stoffe, decorazione di vetri, oreficeria, illustrazione di codici erano considerati, spesso, più importanti degli affreschi e dei quadri».

S.: «Prendiamo il caso di pitture murali con o senza iscrizioni di precetti: erano vere opere d’arte funzionali, a volte promemoria per chi non sapeva leggere. Quasi nobilissimi riquadri di cantastorie. Il problema è che noi, oggi, osserviamo il Medioevo in base a quella deformazione prospettica che vizia sempre ogni rapporto con il passato. Così d’un periodo storico durato ben 10 secoli ci resta impressa soprattutto l’immagine dei suoi ultimi duecento anni. Un altro esempio? Il castello. Siamo abituati ad immaginare come prototipo quello residenziale - le costruzioni che vediamo in Val d’Aosta, per intenderci - ignorando che nei secoli centrali era totalmente diverso».

Medioevo è spesso sinonimo di cattedrali: le chiese che Goethe definiva «opere di architetti che hanno fatto salire le montagne sino al cielo».

C.: «Questo argomento ci induce a gettare uno sguardo di più ampio respiro su ciò che di quell’Età rimane nei periodi storici successivi. Se parliamo d’arte in senso stretto vediamo che il Medioevo offre una “lettura a partire dai vuoti”: da quell’1% di opere sopravvissute alle varie campagne iconoclaste. Ma l’arte ci guida a considerare anche gli usi politici di quel passato, i molti revival gotici e neogotici. Ho scritto che se un fantasma ha percorso l’Europa nel XIX secolo non fu solo quello del comunismo, ma anche quello della cattedrale. Distrutta, abbandonata, pianta, restaurata, esaltata, essa rappresentò il sogno di un’opera d’arte totale in cui, di volta in volta, s’incarnava lo spirito d’uno Stato, l’anima e la dottrina del cristianesimo, la rinascita delle città».

Simbolismi, interpretazioni che s’addentrano nelle ideologie. Victor Hugo vede Notre Dame come «l’opera colossale d’un uomo e d’un popolo, di operai disciplinati dal genio dell’artista», Chateaubriand paragona la cattedrale a una delle foreste in cui il genere umano ha ricavato il suo primo tempio, la Germania del 1800 la riconosce come simbolo della nazione tedesca. Ma consentite la provocazione: il Medioevo è di destra, di centro o di sinistra?

S.: «Per capire bisogna prendere le mosse dai pregiudizi negativi dell’Illuminismo che ha valutato quest’Età come quella del disordine, della decadenza, della superstizione. Poi si arriva ai pregiudizi positivi del Romanticismo che l’ha interpretata come infanzia delle nazioni, con radici identitarie non più soffocate dall’impero romano. Su quest’onda approdiamo al Novecento. Già nell’Italia fascista, che pure guardava ai miti dell’antica Roma, s’affaccia un Medioevo di destra: è nostalgia d’una società intrisa di religiosità, con una forte organizzazione gerarchica, di valori della forza militare e dell’obbedienza considerati come caratteristiche della nobiltà».

Nella «battaglia» delle ideologie avanzano, però, anche letture d’altro segno.

S.: «Certo: di centro e di sinistra. A ispirarle ci sono i principi di solidarietà che, secondo un’immagine edulcorata, muovono le comunità rurali, ma anche i feudatari visti come grandi possessori terrieri con poteri di vita e di morte sui contadini, i roghi delle streghe, l’inquisizione, le chiese e i palazzi edificati sul sudore e sul sangue dei poveri. E, poi, il capitalismo, giudicato positivamente da Adam Smith e negativamente da Karl Marx, aveva bisogno per contrasto di un “prima” che fosse autoritario, chiuso, statico».

Sulle tracce di questi mille anni non si sono messi solo gli storici sociali e dell’arte: c’è stata e c’è una moda sguinzagliata alle calcagna d’un Medioevo riprodotto. Nel vostro lavoro si discute di quest’epoca lontana, spesso «ambiguamente verosimile», immaginata attraverso nuove arti: le illustrazioni, il fumetto. E soprattutto il cinema in un fiorire di «Gothic revival» con opere mediocri, ma anche con quelle intellettualmente impegnate di Bergman, Buñuel, Pasolini.

C.: «Ci sono casi in cui l’Età di Mezzo diventa spazio privilegiato per raccogliere miti e favole e, sovente, si fonda su un repertorio cristallizzato che sfrutta e rievoca stereotipi nati, magari, da leggende. Pensiamo, ad esempio, a quella del Santo Graal, di cui ciclicamente compaiono “rivelazioni” e rivisitazioni: risale all’Ottocento».

S.: «E i Templari? Oggi i siti Internet che trattano questi argomenti sono, con ogni probabilità, tra i più frequentati. Eppure tutto ciò di cui si parla e si discute altro non è che storia mal digerita da sedicenti intellettuali in cerca di legittimazione».

Emanuele Severinol'Essere e il Divenire

Il Sole 24 ore DOMENICA 28.11.04

VESPE

Il terremoto ha distrutto Parmenide



Tra i danni più gravi del terremoto di mercoledì scorso va segnalato lo scardinamento dell'edificio teorico pazientemente costruito da Emanuele Severino in decenni di speculazione filosofica. Un edificio che poggia su un fondamento incrollabile: l'eternità e l'immobilità di tutte le cose. Interpellato a caldo nel cuore della notte da un cronista del Corriere, il nihilista bresciano ha ammesso che l'epicentro era proprio sotto casa sua: «Si è sentito fortissimo, e pure a lungo, sarà durato almeno 11 secondi. Che sono tanti, le assicuro».

Undici interminabili secondi in cui, in barba a Parmenide, le cose si sono messe in movimento, il Divenire ha sbertucciato l'Essere e la Struttura Originaria è rimasta seriamente lesionata. Ma «il più grande filosofo italiano» non poteva non presentire ciò che stava per accadere: «øra che mi ci fa pensare - confessa al giornalista - sono uscito dal sonno e subito c'è stata quella scossa». Un attimo prima? Già che c'era non poteva anticipare il risveglio di dieci minuti o mezz'ora, in tempo utile per avvertire la Protezione Civile? Sarà per un'altra volta. Intanto, però, quelli dell'Istituto di Geofisica, che non sanno niente di Parmenide e passano il loro tempo a studiare terremoti che non riescono mai a prevedere, farebbero bene ad assumere Severino: funziona meglio di un sismografo.

week enduna mostra a Milano

La Provincia di Como 28.11.04

MITI GRECI La via che arriva fino all'oggi

Tutto il fascino della mitologia classica nella mostra aperta a Palazzo reale di Milano fino al 23 gennaio



Le gesta di Ettore, eroe troiano, dipinte su un'anfora attica del V secolo a.C. e riprese oltre duemila anni dopo dal Canova, in un calco in gesso tratto a sua volta dai rilievi del Partenone. La saga di Oreste, uno dei personaggi mitici più amati dai ceramografi magnogreci. Il dramma di Medea, donna e maga dai potenti sortilegi, amante e madre, narrato su vasi e affreschi, rivisitato a teatro, al cinema - indimenticabile l'interpretazione di Maria Callas diretta da Pasolini nel 1970 -, nella letteratura. È la forza eterna del mito la protagonista della mostra Miti greci. Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al collezionismo, esposta a Palazzo Reale a Milano fino al 23 gennaio 2005. Il percorso espositivo si trasforma in un viaggio attraverso il quale lo spettatore fa esperienza della presenza del mito nei secoli e della sua continuità in epoca moderna e contemporanea. A ricreare il fascino della mitologia classica si susseguono trecento opere tra affreschi, sculture, vasi, armi e gioielli trovati durante gli scavi archeologici in Italia meridionale e giunti a noi grazie alla passione dei collezionisti e alla mania di "vivere alla greca" esplosa tra Settecento e Ottocento nelle dimore aristocratiche e borghesi di tutta Europa. Accanto ai vasi dipinti in Magna Grecia tra il V e il IV secolo a.C., testimonianza preziosa delle pitture andate perdute di Polignoto, Zeusi e Apelle, spiccano i corredi funerari scoperti all'inizio dell'Ottocento nella necropoli di Ruvo di Puglia. Da qui provengono pezzi di rara bellezza come il cratere di Archémoros, la kalpis attica a figure rosse con la dea Atena che rende omaggio ai vasai, il fregio della Tomba delle danzatrici, dipinto a fresco con un corteo di donne che danzano tenendosi per mano. Qui si sono formate la raccolta della famiglia Jatta, i settecento pezzi della collezione Lagioia, acquistata nel 1997 dalla Regione Lombardia e conservata al Civico Museo Archeologico di Milano, e la collezione Caputi, oggi di Banca Intesa, una della poche giunte a noi intatte. Nell'ambito del collezionismo, accanto a Raphael Mengs, a Pelagio Palagi, Ala Ponzone e Gian Giacomo Poldi Pezzoli, è collocato il comasco, canturino di nascita, Alfonso Garovaglio (1820-1905). Le opere selezionate dalla sua raccolta ed esposte in mostra sono cinque: un'anfora apula con personaggi recanti doni, un oinochoe e un lekythos con figure femminili, skypos con una civetta fra rami di ulivo. «La mostra ha voluto dare rilievo al fenomeno del collezionismo in Lombardia. Non poteva quindi mancare il Garovaglio, interessante figura di collezionista ottocentesco, studioso e intenditore che sapeva scegliere. Lo dimostrano la qualità del materiale e i pochissimi falsi da lui acquistati», spiega Isabella Nobile, la conservatrice del Museo Archeologico Paolo Giovio che ha seguito da vicino l'organizzazione della mostra in collaborazione con l'Università degli Studi di Milano e con i curatori Gemma Sena Chiesa ed Ermanno A. Arslan. «La collezione Garovaglio, che comprende circa cinquemila pezzi, colpisce per ricchezza e varietà. Non ci sono solo vasi greci e magnogreci, ma anche egizi, raccolti in gran parte nel 1869 durante un viaggio in Egitto, gemme, bronzetti, reperti precolombiani, etruschi, assir», precisa Isabella Nobile. Ben poco sarebbe rimasto, se Alfonso Garovaglio non avesse donato l'intera collezione al museo di Como alla sua morte, della quale tra pochi mesi ricorrerà il centenario. Proprio nell'intento di continuare idealmente questo gesto e far conoscere la collezione di vasi al pubblico, il museo ha preparato schede e percorsi didattici per bambini, ragazzi e adulti. Un'iniziativa che si inserisce all'interno degli eventi che accompagnano la mostra milanese coinvolgendo musei e teatri lombardi alla scoperta del mito.



Silvia Bernasconi Miti greci

Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al collezionismo

Palazzo Reale, Milano, 6 ottobre 2004 - 23 gennaio 2005

Orari: 9.30-20; giovedì e sabato 9.30-22; lunedì chiuso

Ingresso 9 euro

Catalogo Electa

Info 02.54914

Pietro Ingrao

Swg: il 78% non crede al conflitto giusto

Ingrao: con la non violenza spezziamo la spirale della guerra.



ROMA. Sia la non violenza, insieme valore e prassi, la risposta alternativa all'uso della forza, alla guerra che, un tempo giustificata per necessità di difesa o per offese, è oggi diventata preventiva e domani per salvare il mondo. A ribadire il valore della non violenza che è una svolta culturale per la sinistra, è Pietro Ingrao, il novantenne leader storico dell'ex-Pci, assertore convinto della necessità assoluta di rompere la crescente spirale di conflitti armati nel mondo. Un sentimento, la "non violenza", assai diffuso tra la gente come si evince dal sondaggio Swg per conto di «Famiglia cristiana» svolto su 600 soggetti maggiorenni: il 77% è contro l'uso della forza e a favore della mediazione; per il 68% la guerra è «distruzione e morte» e per il 78% non ci sono le «guerre giuste». La guerra come mezzo di soluzione delle situazioni di crisi e dei conflitti, registra «un mutamento del suo carattere - come ha detto Ingrao al convegno «Non violenza e Giustizia Sociale» dove ha discusso con Don Ciotti, Gino Strada e Gianni Rinaldini leader della Fiom - Un tempo chi la faceva (erano i dittatori) la giustificava perché, diceva, doveva difendersi o perché diceva di essere stato offeso, oggi è divenuta preventiva e domani, è il rischio cghe si corre, è che si faccia per salvare il mondo». Affermare la non violenza come valore e prassi politica è via nuova ed obbligata su cui far ricerca per costruire, secondo Ingrao, un sogno: «Mai più guerra, pacifismo assoluto, come del resto prevede l'art. 11 della nostra Carta Costituzionale». «Non ci sono più fini nobili che possano giustificare il ricorso alla forza armata che, come dimostrano le guerre moderne, non risolve nessun problema ma innesca solo la spirale di altre guerre infinite», è la tesi di Strada, per il quale oggi, «la maggioranza degli italiani è contro la guerra rispetto invece alla maggioranza del parlamento che è a favore».

Edipotra due mitologie

Repubblica edizione di Firenze 28.11.04

Domani a "Leggere per non dimenticare" l'incontro con il filologo classico e romanziere

Edipo dai Greci a Freud: che mito

Bettini: viviamo dentro due mitologie, dinamiche e conflittuali

Con Guidorizzi firma il terzo volume della collana

di BEATRICE MANETTI



I miti hanno le gambe lunghe. Forse perché non raccontano bugie, o se lo fanno ne inventano di sempre diverse, e sempre rivelatrici di noi a noi stessi. Lo sa bene Maurizio Bettini, filologo classico e romanziere (il suo Le coccinelle di Redrun ha appena vinto il premio Mondello), che dirige per Einaudi la collana «Mitologica», dedicata appunto alle metamorfosi e alla sopravvivenza dei miti dell´antichità. Insieme a Giulio Guidorizzi, Bettini firma il terzo volume della collana, Il mito di Edipo, che i due autori presentano domani (alle 17.30, Biblioteca Comunale di via S. Egidio 21) a «Leggere per non dimenticare».

Professor Bettini, nel corso dei secoli il mito di Edipo ha assunto significati diversi. Ma gli antichi Greci, i primi a confrontarcisi, che cosa ci vedevano?

«La storia di una creatura molto sfortunata, quasi il paradigma dell´uomo perseguitato dal destino, e però, contemporaneamente, anche quello dell'individuo colpevole, in una prospettiva culturale che non distingueva bene la responsabilità individuale dalla colpa. Del resto il mito di Edipo continua a dimostrare ancora oggi l'inadeguatezza di ogni categoria morale».

Nel Novecento, con Freud, tutto cambia.

«Freud dichiara di aver scoperto dentro ciascuno di noi un lato edipico, e quindi trova nel mito qualcosa che per lui rimanda al coraggio e alla libertà della Grecia: i Greci erano coraggiosi perché erano liberi, cioè non repressi, per questo ebbero il coraggio di trasformare in mito una pulsione presente in ciascun bambino. Ma la riflessione freudiana è tutta interna all'idea che la cultura tedesca tra Otto e Novecento aveva dell'antica Grecia, e che era un mito a sua volta».

Ma tutto il secolo breve è ossessionato dai miti classici. Da Joyce a Brecht a Pasolini, moltissimi artisti ne hanno subito la suggestione. A cosa si deve questa longevità?

«Credo dipenda dal fatto che la nostra cultura occidentale non ha una mitologia sola, ma due: quella cristiana, legata alla religione, e quella dell'antichità classica, con cui non ha mai perso il contatto. Questa compresenza, che è spesso conflittuale, ha impedito a entrambe di isterilirsi e ne ha favorito il dinamismo. In alcuni periodi prevale l'una, quella greca nel Settecento e nel Novecento, in altri periodi l´altra, come mi sembra stia succedendo adesso. Ma l'alternanza non finirà qui».

il Settecento

Corriere della Sera 28.11.04

La sfida della ragione alle antiche gerarchie

Il Settecento nasce tradizionale e muore moderno con il trionfo del paradigma scientifico di Newton

di Carlo Capra*



Il Settecento: secolo dei Lumi, della ragione trionfante, dell' Encyclopédie e della corrosiva ironia voltairiana; secolo dei salotti, delle damine incipriate, dei cicisbei. Immagini stereotipe, ma non prive di una loro verità, purché inquadrate nella giusta prospettiva: la diffusione di una nuova cultura in un'Europa ancora dominata dalle forze della tradizione, l'affermazione di una nuova socialità in contrasto con le antiche gerarchie e le antiche distribuzioni di ruoli (fra uomo e donna, fra ricchi e poveri, fra nobili e plebei). Soprattutto, se arretriamo al 1660 l'inizio di questa stagione della storia europea, come fa William Doyle nella sua densa e brillante ricostruzione in edicola con il Corriere , non possiamo fare a meno di collocarla sotto il segno del mutamento, della transizione alla modernità. I concetti di «età moderna», «storia moderna», legati alle nostre convenzionali partizioni accademiche e riferiti ai tre secoli abbondanti che vanno dalla fine del Quattrocento al 1815, tendono a oscurare questa realtà. Meglio sarebbe distinguere una «prima età moderna», corrispondente all' ancien régime francese, alla early modern history degli inglesi o alla frühmoderne Geschichte dei tedeschi, da una «piena modernità» che si dispiega a partire dal Settecento inoltrato e celebra i suoi trionfi nel secolo XIX; mentre la Zeitgeschichte , o «età contemporanea», non si dovrebbe far cominciare prima della fine dell'Ottocento o della grande guerra del 1914-18.

Il Settecento europeo, possiamo dire con una battuta, nasce tradizionale e muore moderno. Proviamo a delineare questo percorso in alcuni settori chiave della vita associata. Il grido d'allarme lanciato nel 1798 dal ministro anglicano Thomas Robert Malthus circa lo squilibrio tra popolazione e risorse, che sarebbe l'inevitabile risultato dell'incremento demografico, rifletteva l'esperienza storica piuttosto che le condizioni del presente, in via di rapida trasformazione per effetto dell'incipiente rivoluzione industriale. Dalla bottega artigiana al sistema di fabbrica e alla produzione di massa, dall'utilizzo della forza muscolare di uomini e animali (o al massimo dell'energia eolica e idraulica) alla macchina a vapore e quindi allo sfruttamento di fonti di energia minerali, è questa una svolta nella storia della civiltà materiale che è stata definita la più importante dopo quella dell'età neolitica. E la rivoluzione industriale è preceduta o accompagnata da non meno vistosi cambiamenti nel regime demografico (calo della mortalità e aumento della natalità), nell'agricoltura, nei trasporti, nel rapporto città-campagna.

Più indietro, agli ultimi decenni del XVII secolo, a quella che Paul Hazard ebbe a definire «la crisi della coscienza europea», dobbiamo risalire per trovare le origini delle idee e degli atteggiamenti mentali che si usano raggruppare sotto l'etichetta di Illuminismo.

I padri nobili sono Spinoza, Bayle, Locke, che posero le basi del deismo, la concezione di un Dio orologiaio, che ha dato la carica all'universo una volta per tutte e non interviene più nelle sue faccende; l'inventore o il perfezionatore del paradigma scientifico a lungo dominante fu Isaac Newton, il cui metodo, basato su osservazione spregiudicata dei fenomeni, sperimentazione e formulazione di leggi in termini matematici, scienziati e philosophes del Settecento cercheranno di estendere anche allo studio della vita e della psiche umana.

Da Londra e da Amsterdam, i centri di diffusione dei Lumi si sposteranno più tardi a Parigi, e in sottordine a Edimburgo, a Milano, a Napoli, a Ginevra, a Berlino, a San Pietroburgo. Da un lato le nuove idee si fanno strada in un pubblico più vasto di lettori di libri e giornali, sono veicolate da istituzioni ufficiali come le accademie o da nuove forme di socialità, non solo i salotti ma le logge massoniche, i caffè, i club; anche se bisogna guardarsi dall'errore di estendere la civiltà dei Lumi, patrimonio pur sempre di ristrette minoranze, alle classi subalterne ancora in gran parte immerse in un universo magico-religioso e fedeli alla visione del mondo tradizionale. Dall'altro la filosofia vola in soccorso dei governi: per riprendere la frase del nostro Filangieri, siede sul trono accanto ai despoti illuminati: Federico II, Caterina di Russia, Carlo III di Borbone, Pietro Leopoldo, Giuseppe II.

Ma il dispotismo (o assolutismo) illuminato è fenomeno tipico delle aree arretrate d'Europa, dove è lo Stato a fare premio sulla società civile. Se guardiamo all'Inghilterra e alla Francia, il quadro della vita politica cambia, coinvolge non solo i sovrani e i loro collaboratori, ma un'opinione pubblica sempre più avvertita ed esigente, propensa a giudicare secondo il metro della ragione e dell’utilità comune; e se oltre Manica essa è in grado di influire sull'azione dei governanti attraverso i canali del Parlamento e della libera stampa, sulle rive della Senna il confronto scivola fatalmente verso la contrapposizione frontale, la contestazione globale di quello che ben presto si chiamerà l'antico regime.

La convocazione degli Stati generali nel 1789, immaginata come strumento per puntellare la monarchia pericolante, si trasformerà nella levatrice di una nuova società, di cui è parte essenziale la transizione della sovranità dal monarca per diritto divino alla nazione, con tutto ciò che ne consegue (e contro cui vanamente lotterà la Santa Alleanza) in termini di eguaglianza di diritti, di rappresentanza dei cittadini e di autodeterminazione dei popoli. Non è una rivoluzione borghese secondo lo schema a lungo difeso dalla storiografia marxista, di una vittoria della borghesia e del capitalismo sul regime feudale, ma è comunque la fine (o il principio della fine) del vecchio assetto gerarchico e corporativo della società europea.



* Professore ordinario di Storia dell’età dell’illuminismo presso l’Università degli studi di Milano

«La Cina e l'Antonioni proibito»

DOMENICA, 28 NOVEMBRE 2004

La Cina e l'Antonioni proibito

di FEDERICO RAMPINI



PECHINO. Le proteste di chi non è riuscito ad avere i biglietti, un tafferuglio all´ingresso, la polizia che deve contenere gli spettatori, l´immensa sala gremita, e tantissimi giovani. È successo ieri sera a Pechino e non era un concerto rap. All´Accademia del cinema si proiettava un didascalico documentario, vecchio di 32 anni, lungo quattro ore, commentato in lingua straniera coi sottotitoli. Ma per i cinesi quel documentario è un mito. Fu realizzato qui in un periodo terribile della loro storia, tutti ne conoscevano l´esistenza, nessuno lo aveva visto. Era stato messo all´indice come un oltraggio alla Cina, il suo autore fu definito «un verme al servizio degli imperialisti» e additato come un traditore perfino nelle scuole.

Il film-tabù è Chung Ku-Cina di Michelangelo Antonioni, che ieri sera per la prima volta dal 1972 è stato riabilitato e proiettato davanti al pubblico cinese. Il regista italiano lo aveva filmato qui nel bel mezzo della Rivoluzione culturale, su invito del governo di Pechino che - per sua stessa ammissione - condizionò i suoi movimenti e scelse le cose che doveva vedere. Salvo poi censurarlo duramente con un editoriale del "Renmin ribao" (Quotidiano del Popolo) del 30 gennaio 1974 intitolato «Intenzione spregevole e manovra abietta».

Antonioni divenne pedina inconsapevole di un regolamento di conti tra fazioni. Lo aveva invitato il premier moderato Zhou Enlai, l´artefice dello storico incontro tra Mao e Nixon, che stava avviando la normalizzazione diplomatica con il resto del mondo. Antonioni doveva servirgli per rivelare la Cina agli occidentali dopo anni di isolamento, mostrandone un volto bonario e rassicurante. Ma contro Zhou Enlai era in agguato la «banda dei quattro», il gruppo estremista ispiratore della Rivoluzione culturale che includeva la moglie di Mao, e ci andò di mezzo Antonioni.

Eppure Chung Ku non prestava il fianco alle accuse. Non a quelle accuse. Rivisto oggi, colpisce per la sua simpatia verso il maoismo. La scelta dei soggetti è quasi sempre apologetica, una elegante traduzione della propaganda ufficiale: il patriottismo delle operaie in fabbrica, le sedute di dottrina rivoluzionaria, i canti e le gare dei bambini a scuola, il duro ma gratificante lavoro dei contadini nei campi, la giovane partoriente che subisce un cesareo senza anestesia (sostituita dall´acupuntura) con un beato sorriso sulle labbra. I commenti trasudano ammirazione. Durante il cesareo: «Anche le tecniche mediche vogliono dimostrare che si possono vincere grandi ostacoli con mezzi semplici». Di fronte alla povertà di massa: «Ci si sente contagiati da virtù dimenticate come il pudore, la modestia, la decenza». In sala scoppiano fragorose risate tra i ventenni.

La grande assente in Chung Ku è proprio la tragedia della Rivoluzione culturale. Nulla nel documentario lascia intuire ciò che sta accadendo davvero in quegli anni: l´uso golpista dell´esercito da parte di Mao per far fuori i moderati, le purghe di massa, le persecuzioni, i processi sommari, le autocritiche umilianti in pubblico, i lager dedicati alla «rieducazione», la chiusura delle università, gli studenti e i docenti mandati al confino nelle campagne, la paralisi della ricerca scientifica vittima delle battaglie contro la «cultura borghese». Certo Antonioni non fu il solo a non vedere. Alberto Moravia, che lo aveva preceduto in Cina esplorandola all´inizio della Rivoluzione culturale (1967), esaltò Chung Ku: «Le cose più belle del film sono le notazioni eleganti e autentiche sulla povertà sentita come fatto spirituale, prima ancora che economico e politico».

Mentre cresce la mia delusione, comincia a parlarmi nell´oscurità della sala la mia vicina di poltrona, una donna sulla cinquantina. Il 1972 era un anno importante per lei: «Il mio ritorno a Pechino, dopo che mi avevano costretto a servire nell´esercito». Di fronte al mio stupore per la censura ad un film così poco critico, mi corregge: «Io capisco che lo abbiano proibito. Mostrando come vivevamo, questo film ci rivelava più poveri e arretrati di quanto i nostri leader volevano far credere. Guardi quei contadini dello Hunan che fuggono dallo sguardo della cinepresa. Il commento del regista dice che non sono abituati a vedere stranieri ma la ragione è un´altra: si vergognano, come tutti i poveri del mondo». Grazie a lei vedo Chung Ku con altri occhi, quelli cinesi. Diventa meno innocuo. Nel centro di Shanghai appaiono nel 1972 casupole di una miseria africana, con tetti di paglia e mura di terra; lungo le strade senza automobili ragazzini seminudi trainano a braccia enormi carretti. «Sembra la Corea del Nord» sospira la mia vicina. Il suo giudizio su un´intera classe dirigente: «La loro colpa peggiore fu di tenerci nella povertà». Lo dice con la rassegnazione della generazione perduta, che vede la Cina di oggi e pensa che tutto sarebbe potuto accadere trent´anni prima.

Antonioni ha la sua rivincita. I commenti invecchiano male. Le immagini, anche incomplete, hanno una forza che non si piega

venerdì al Piccolo EliseoFausto Bertinotti ha presentato il proprio programma

Liberazione 27.11.04

Bertinotti: «Vogliamo vincere la sfida»A Roma, al Teatro Piccolo Eliseo stracolmo di gente, il segretario del Prc ha presentato il documento congressuale della maggioranza: «Cacciare Berlusconi e costruire l'alternativa»



«A chi ci chiede dove andiamo faccio un'altra domanda. Che cosa saremo ora se non fossimo stati a Genova, se non ci fossimo liberati dello stalinismo, se non avessimo marciato con i movimenti, se non avessimo introdotto l'idea e la pratica della nonviolenza? Saremo una inutile formazione ortodossa». E' forse il momento più emozionante dell'ampio discorso del segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, alla presentazione del documento congressuale L'alternativa di società. Un discorso complesso che ripercorre le tappe di un lungo cammino. Con orgoglio. Lo stesso delle donne e degli uomini presenti che, alla domanda «che cosa saremo ora se?», scoppiano in un lungo applauso. Non rituale, non di maniera, ma carico di passione politica. Sono in tanti, troppi per la sala del Teatro Piccolo Eliseo, nel cuore della capitale. Stanno in piedi, seduti, ai lati e in fondo la sala. Sono dirigenti del partito, parlamentari, intellettuali, registi, tanti compagni e compagne, tutti pronti a stringersi attorno a un ospite d'eccezione: Ali Rashid, il rappresentante palestinese minacciato da Forza Italia di espulsione dal nostro paese. Lo saluta per primo la segretaria della federazione di Roma, Chicca Perugia, che introduce i lavori: «A lui - dice - va la nostra solidarietà e un forte abbraccio per l'attacco ricevuto in questi giorni. Non solo perché è un nostro amico, ma anche perché avremo detto le stesse cose». «L'unico posto in cui vorremmo che andasse - sottolinea Bertinotti - è nel libero stato di Palestina».



Sfida al partito

in vista del congresso

Il discorso del segretario del Prc vola alto. E' il discorso di un partito che vuole fare un ulteriore salto. Un grande salto. Per questo Bertinotti, in occasione del sesto congresso con cinque mozioni che considera un segno di democrazia, lancia una sfida, più sfide. Intanto al partito: «Se non passerà questa linea politica, verrebbe messa in discussione la modalità di governo del partito». La linea è presto indicata. «E' la linea di un partito che da sempre cerca una uscita a sinistra dalla crisi del movimento operaio». Niente a che vedere quindi con le accuse di voler rifare una sorta di Bolognina di Rifondazione comunista, ma una sfida di tutt'altra natura, perché diverso è anche il contesto. Il Prc non è più il partito del '98, isolato nella sua scelta coraggiosa di rompere con Prodi. Intorno c'è una sinistra allargata, dentro e fuori il Parlamento, dentro e fuori l'Italia. E' un partito più forte che vuole battere Berlusconi e costruire un'alternativa di società. «Per noi - spiega Bertinotti a proposito di una delle questioni più discusse - il governo non è un valore assoluto. La collocazione al governo o all'opposizione è una opportunità. A noi interessa andare al governo per cacciare le destre e fare un'altra politica. Non per fare qualunque politica, ma per cambiarla». Il movimento da solo non regge la sfida; la politica, senza la connessione col popolo, non ce la fa. «Si tratta di mettere insieme queste due dimensioni per fermare la guerra e il neoliberismo. Per sconfiggere Berlusconi». «Chi ci garantisce - si chiede Bertinotti tra gli applausi - che ce la faremo? Nessuno. Ma possiamo provare. Dobbiamo provare».



Per avvalorare la sua proposta, il segretario del Prc si sofferma in maniera dettagliata sull'analisi sia del governo attuale che sull'inadeguatezza delle opposizioni della Grande alleanza democratica.



La Gad: presenti proposta sul fisco

Prima di entrare in teatro le domande dei giornalisti mettono l'accento sulla cronaca. Gli attacchi della Lega allo Stato di diritto con l'idea di mettere una taglia, prima di tutto: «Costituiscono - risponde - uno strappo alla civiltà giuridica del paese, sono un soprassalto di barbarie». Poi la questione tasse: «Il governo leva dieci per dare sei, ma solo a chi è già ricco. E' una sorta di peronismo dei ricchi, con qualche mancia per i poveri, che pagano i lavoratori». E' per questa ragione che Bertinotti chiede alla Gad di presentare la sua proposta sul fisco in occasione del prossimo incontro di lunedì. Non c'è tempo da perdere. Questa destra sta «creando una desertificazione di tutte le autonomie democratiche. Non si può pensare - dice rivolto alle opposizioni - che siccome il governo è in crisi, cada naturalmente. E' quanto di più sbagliato si possa fare».



La Grande alleanza democratica deve battere uno, più colpi, connettendosi con il popolo. Con la sua voglia di cambiamento. Un popolo che non è un «blocco sociale» compatto, è una soggettività complessa, ricca, incrocio di tante esperienze e culture: il movimento operaio con la sua scalata al cielo e i suoi errori, il femminismo e il partire da sé anche in politica, l'ambientalismo, il pacifismo, tutte le culture critiche. Non è un caso che Bertinotti parta dalla sfida più grande: rinnovare la politica. Su questa strada c'è la pace, la nonviolenza. «C'è - sottolinea - una parola difficile a cui però bisogna tornare: l'ideologia. Ci hanno detto che le ideologie erano finite. Invece Bush ha vinto grazie a una ideologia forte. Noi dobbiamo partire da qui. Senza questa sfida la politica si riduce a miseria».



I giovani e la parola comunista

La sala diventa sempre più gremita. Il discorso del segretario del Prc, pur puntualizzando diversi passaggi del dibattito interno, guarda al mondo fuori del partito. Alla società che definisce «la barra» del lavoro svolto e da fare. Per fare cosa? Per vincere. «Vogliamo vincere - conclude Bertinotti - per tutto il partito, anche per quello che vorremo far perdere. Per restituire al paese una sinistra anticapitalistica, protagonista. Vogliamo vincere affinché il termine comunista possa essere inteso e fatto proprio anche da un giovane che si affaccia ora al mondo della politica».



Angela Azzaro

angela. azzaro@liberazione. it



il manifesto 27.11.04

Bertinotti lancia Rifondazione


Presentata a Roma la sua mozione congressuale: «L'alternativa di società per cacciare Berlusconi e rifondare la politica». Paletti e stop a Ulivo e alleati di sinistra

Una confederazione di sinistra? «Capisco il fastidio per le formule misere delle federazioni, delle confederazioni, gli accrocchi tra diversi partiti. Noi non vogliamo scimmiottare le forze riformiste»

di MATTEO BARTOCCI



ROMA.
«Guidare la rifondazione della politica e della democrazia costruendo l'alternativa di società». E' questa la «stella polare» che Fausto Bertinotti propone al Prc in vista del prossimo congresso. Presentando la sua mozione (intitolata «L'alternativa di società») il segretario di Rifondazione ha tracciato il futuro possibile del suo partito. Non lesinando segnali e paletti chiari verso l'opposizione interna, gli alleati dell'Ulivo e le altre forze di sinistra. La presentazione di una mozione è un fatto «inusuale per il nostro partito - ammette Bertinotti di fronte alla folla del Piccolo Eliseo - ma stavolta bisogna spiegare bene le ragioni di una scelta impegnativa». «Perché il congresso, con tutti i suoi limiti, parlerà di noi, ma soprattutto di una grande politica, e noi vogliamo vincere». Stavolta si dovrà fare chiarezza: «Vincere al congresso è la condizione unica e indispensabile per questo cammino e difendere il partito. Se non raggiungessimo la maggioranza dei consensi - avverte Bertinotti - il governo complessivo del partito dovrebbe essere ripensato». Avvisata a distanza l'opposizione interna (circa il 40%), il vero punto di partenza è una sorta di «elogio dell'ideologia», che nell'accezione bertinottiana rappresenta «l'idea di società», l'evoluzione dei pensieri «resistenziali» sopravvissuti al pensiero unico neoliberista in un corpo di principi articolato in tre «direzioni».



Idee di società: non violenza e non solo

Non violenza, altermondialismo e uguaglianza sono le tre eredità del `900 che devono passare al centro della nuova politica. Politica che se le accoglie si muoverà in due direzioni non opposte ma non sovrapponibili: dall'alto, tramite il ruolo dei partiti nell'amministrazione e nel governo; dal basso tramite la forza dei movimenti. Movimenti però (intesi nella loro accezione più vasta) che devono mantenere intatta la loro autonomia e indipendenza dal potere. «Non è che se andiamo al governo non ci sarà più uno sciopero generale - dice il segretario del Prc - perché nei movimenti c'è la principale risorsa anche della nostra politica».

«A chi ci chiede dove andiamo rispondo così, - dice Bertinotti - cosa saremmo se non fossimo stati al primo forum di Porto Alegre e a Genova, se non avessimo ripudiato lo stalinismo, se non avessimo esplorato la via della non violenza e incontrato il movimento della pace? Saremmo stati una inutile formazione ortodossa». Gli applausi scrosciano e qualcuno dalla platea sussurra: «Saremmo cossuttiani».



«I movimenti da soli non bastano»

«Il nostro obiettivo - spiega Bertinotti - pur tra mille strappi e svolte è stato sempre lo stesso: l'uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio. Chi dice che stiamo facendo la nostra Bolognina dice una sciocchezza. Noi vogliamo dare al termine `comunista' un significato che anche un giovane che si affaccia oggi alla politica possa intendere e fare proprio». La nuova via parte dalla crisi del comunismo, dalla critica del potere e dello stalinismo fino all'incontro con i movimenti. Il «superamento della società capitalistica» resta una «aspirazione» ma è una definizione di «partito» che si allontana dall'«identità» e si concentra invece sui «processi»: «C'è una spinta dal basso che dovremmo saper raccogliere, contaminandoci».

«Ma i movimenti - registra il segretario - da soli non bastano, anche lì ci sono fragilità e debolezze», non solo nel mondo (vedi la vittoria di Bush) ma anche in Italia. Qual è la «ratio» comune di atti berlusconiani come la desertificazione del parlamento, la controriforma della magistratura, il controllo del sistema delle comunicazioni, l'attacco alla scuola, al sindacato e al mondo del lavoro, la demolizione dello stato sociale, il peronismo fiscale... «E' la cancellazione di tutte le autonomie, e sul deserto che verrà ci sarà una sola piramide con in cima il capo del governo. E' una concezione prima che autoritaria a-democratica».



La cruna dell'ago del governo

Parte da qui la sfida che attende Rifondazione: «L'esistenza del governo Berlusconi impone alla nostra radicalità un obiettivo temporalmente prioritario: cacciare il centrodestra e costruire un governo di alternativa». E' adeguata l'alleanza guidata da Prodi? No, «è inadeguata - spiega Bertinotti - noi dobbiamo essere la spina nel fianco dell'opposizione, per arrivare rapidamente alle elezioni anticipate». Da lì la sfida del governo, che «non è il cuore della nostra proposta ma è il mezzo per la costruzione di un'alternativa di società. Stare a palazzo Chigi non è un valore assoluto, dipende da cosa si va a fare». E per stabilirlo il programma non basta, è «soltanto un accordo tra partiti, per noi il programma è un processo aperto, una costituente che viva nelle esperienze del paese e da queste costruisca la trasformazione della concezione del governo». «Abbiamo rischiato l'osso del collo quando abbiamo rotto con Prodi - ricorda Bertinotti - ma oggi questo partito è lo stesso che dice: ci riprovo, per cacciare Berlusconi e per tentare di cambiare la politica». Intanto, dice tra gli applausi, «cominciamo con l'abolire la legge 30, la riforma Moratti, la Bossi-Fini....».



L'unità a sinistra non è tra partiti

Bertinotti riconosce che esiste una «sinistra larga, collocata diversamente tra le forze politiche e che tutta insieme vuole spostare l'asse della coalizione prodiana». Per esempio ci sono «convergenze con la sinistra Ds», ma l'altolà a chi propone aggregazioni di partiti come il Pdci arriva forte e chiaro: «Capisco il vostro fastidio - dice Bertinotti alla platea - per le formule misere delle federazioni, delle confederazioni, per gli accrocchi tra i diversi partiti. Noi non vogliamo scimmiottare le forze riformiste. Dobbiamo guardare al territorio, ai movimenti, ai sindacati, alle città». Il cammino inizia da qui.

sabato 27 novembre 2004

videocassette e dvd

dell'incontro con Fausto Bertinotti

a Villa Piccolomini

sono adesso disponibili anche a Firenze

da STRATAGEMMA

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un concerto jazz, questa sera a LatinaStefania Tallini e Gianluca Persichetti

Latina Oggi 26.11.04

Jazz: "Cordas Duo"

Domani (sabato 27.11) al "Torrione" Stefania Tallini e Gianluca Persichetti

Di Licia Pastore



UN PIANOFORTE e la chitarra... Due nomi: Stefania Tallini e Gianluca Persichetti, un appuntamento di grande emozione per chi apprezza l’originale espressività della creazione musicale femminile. La serata che domani si svolgerà al Torrione di Bassiano riunirà il linguaggio jazzistico di una pianista deliziosa alle sonorità di ascendenza brasiliana dell’ottimo chitarrista. Una convivenza, quella dei due strumenti, che in molti pensano sia complicata per le rispettive risorse armoniche che potrebbero provocare un’insanabile conflittualità. Un luogo comune che in ambito jazzistico è stato ampiamente smentito da celebri e indimenticabili collaborazioni (quelle tra Jim Hall e Bill Evans, ad esempio); e da felici connubi sfociati in validissimi progetti, come quelli realizzati da Ralph Towener e John Taylor. Sabato sera alle 21 l’accogliente ristorante della città lepina, sarà inondato dalla musica di Stefania Tallini e Gianluca Persichetti: «Cordas Duo», presenta brani originali della pianista e composizioni di Enrico Pieranunzi, Towner, Jobim appositamente riarrangiate dalla stessa Tallini. Stefania è considerata una delle più affermate e apprezzate pianiste italiane. Compositrice ed arrangiatrice si è diplomata in pianoforte al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e al Conservatorio di Frosinone, nel 2001 ha conseguito con il massimo dei voti anche il diploma di Jazz (Arrangiamento e Composizione per Big Band). Ha vinto numerosi concorsi tra cui «Lagomaggiorejazz 1999» ed è stata più volte ospite di trasmissioni radiofoniche in onda su Radiotrerai.

Ha all’attivo, oltre ad alcuni dischi come Sideman, , due cd da leader: il primo «Etoile» e il secondo «New Life». Entrambi presentano progetti interamente basati su musiche scritte e arrangiate da lei. «New Life» è stato presentato in Germania e ancora presso lo storico jazz club «Le Duc Des Lombardes» di Parigi nell’aprile di quest’anno. Il concerto è stato trasmesso in diretta da Radio France.

la musica di Dimitri Nicolau

Program 5 December 2004, 11 AM

Municipal Gallery (Fruchthalle)

Rastatt

Portrait-concert with works of

Dimitri Nicolau

Dimitri Nicolau born in Greece (1946) and lives in Rome. Its extensive creating includes many works for orchestra, also operas and ballets and a great number of chamber music. The Nicolau's music connects different influences, artistic on highly original manner contemporary techniques with Greek melodies or classic traditions.

Dances and Melodies op. 125, First Part

Countess and Peasent – Parmi la blonde et la brune

In Memoriam a S. Behrend op. 102

Zwei Goethe-Lieder op. 138

Gretchens Klage – Mignon

Dances and Melodies op. 125, Second Part

Fille de Mars, Garcon d’Avril; Amoureux de Mai …

For two blue Eyes – Lover’s dance

Gertraud Erhard, Sopran

Das Badische Zupforchester,

Leitung Arnold Sesterheim

anoressia e bulimia, un convegno al Forlanini

Il Messaggero Sabato 27 Novembre 2004

Al Forlanini un convegno sulla doppia terapia per guarire corpo e psiche

Anoressia e bulimia: superati i 30 mila casi

di MARIA GRAZIA FILIPPI



Anima e corpo. Dal tunnel buio dove lo scheletro prende il sopravvento sulla carne o, al contrario, dove la carne ti avvolge fino a soffocarti, non è più immaginabile sfuggire senza che corpo e anima ritrovino il loro originario equilibrio: «Perché anoressia, bulimia e obesità non sono disturbi dell'appetito ma espressioni di un disagio soggettivo profondo che riguardano le relazioni che il soggetto ha con il suo mondo, prima di tutto con la famiglia». Elisabetta Spinelli, psichiatra del Dipartimento Salute Mentale della Asl RM D, psicoanalista e docente dell'Istituto Freudiano, è l'organizzatrice della giornata di studio "I disturbi alimentari: pratiche cliniche a confronto" che si è tenuta nell'aula magna dell'ospedale Forlanini. Obiettivo, il trattamento di queste patologie mettendo a confronto i diversi approcci terapeutici, dalla psicoterapia individuale, di gruppo e familiare, alle comunità terapeutiche fino ai trattamenti farmacologici. E a Roma, il numero dei casi conclamati oltrepassa i 30mila, con 11mila diagnosi di anoressia e 20mila di bulimia.

Il convegno, promosso dal professor Andrea Balbi, direttore del DSM della Asl RM D e dal dottor Sergio Lupoi, direttore del IV Distretto della stessa Asl presso il quale è stato aperto il Centro Disturbi dell'Alimentazione, ha riunito intorno allo stesso tavolo alcuni dei maggiori esperti del settore tra cui Massimo Cuzzolaro, presidente della Società italiana per i disturbi del comportamento alimentare e docente alla Sapienza e a Tor Vergata; il professor Antonio Ciocca, responsabile dell'Unità disturbi della condotta alimentare del Gemelli e il dottor Domenico Cosenza, direttore scientifico dell' Associazione Bulimia e Anoressia. D'altronde i dati del ministero della Salute fotografano un fenomeno che ha lo stampo di un’ epidemia: attratti dolorosamente dall'abbuffata patologica o dallo sfinimento del digiuno sono in Italia una fascia di adulti che oscilla dal 10 al 30% della popolazione, con un aumento dei casi nell'adolescenza. E sono le donne di tutte le classi sociali, tra i 12 e i 25 anni, a subire di più il fascino di questa attrazione fatale che fa del rifiuto del cibo il modo autolesionistico di esprimere il desiderio di riconoscimento, di amore, di non essere lasciate cadere nel vuoto da parte dell'“Altro da sé”. «L'esperienza maturata in questi tre anni nel nostro centro - spiega la dottoressa Spinelli - ci ha portato a riconoscere la terapia con un piccolo gruppo monosintomatico come il modo più adatto per coagulare la debole e conflittuale richiesta di cura di questi soggetti che tendono a misconoscere la sofferenza legata al disturbo alimentare». Fondamentale, è la creazione di una rete d'intervento multidisciplinare che comprenda diverse figure professionali e la possibilità di rinviare le competenze mediche (esami, anamnesi alimentari, approfondimenti diagnostici ecc) in un luogo diverso da quello dedicato alla cura della psiche. «Così si può tessere una rete - conclude la dottoressa - che ha la funzione molto importante di contenitore psicologico con un luogo per la cura del corpo e un luogo per la cura della mente dove essere accolti e ascoltati, con una riduzione progressiva dell'angoscia e l'introduzione della dimensione del limite: il messaggio è "non puoi abusare del tuo corpo come vuoi"».