giovedì 30 giugno 2005

citato al lunedìun articolo a cui dire no

certamente sì ai diritti civili, individuali e privati, di tutti e di ciascuno, ma certamente no all'indicazione di modelli decisamente minoritari di comportamento privato come portatori di particolari e "superiori" significati rivoluzionari collettivi sociali e culturali validi per tutti nella presunta prospettiva che "distruggendo" i - così li chiamano - "ruoli sessuali" di uomo e di donna si darebbe come per magia un colpo decisivo alla "riproduzione del capitale"!

Inseriamo qui un link che permette a chi lo volesse di documentarsi andando a vedere un articolo di Aldo Nove, apparso domenica 26 su "Queer", inserto domenicale di Liberazione, dal titolo "L'ano tra sesso e rivoluzione".

il testo dell'articolo si trova qui: http://www.liberazione.it/giornale/050626/default.asp
e poi cliccando su "Queer" (nella spalla sinistra dell'home page che sarà apparsa) e successivamente su "L'importante lavoro del filosofo...")

la pagina intera in PDF è visibile qui:
http://www.liberazione.it/giornale/050626/pdf/XY_IV-LIB-3+.pdf
Chi eventualmente volesse poi riceverla per posta elettronica può chiederla a "segnalazioni".

hanno detto no con una lettera al giornale anche due redattori militanti di Liberazione

Segnalazione di Roberto Altamura e di Dimitri Nicolau

Liberazione, 28.6.05

Lettere & Rubriche
“Queer”
Sesso e rivoluzione


Caro direttore, è con disagio e anche con senso di umiliazione che abbiamo letto sull’inserto di domenica l’articolo che si fregia dell’evocativo titolo “L’ano tra sesso e rivoluzione” e il cui (penetrante?) incipit fa: «La rivoluzione proletaria passa anche attraverso il buco del culo». Francamente da militanti e giornalisti che scrivono su questo foglio da tanti anni, non ci era mai capitato di imbatterci in temi tanto eccelsi e chic, ancorché “oscuri”. A parte le teorie – anzi rimasticature – malamente assimilate e trascritte di cui l’articolo firmato da Aldo Nove (ma non solo) dà prova, ci domandiamo a chi interessa e chi vuole stupire mai un simile elaborato: vuol forse stupire i borghesi, i carabinieri, i bambini delle primine? Ci sembra strana, e a dir la verità “sospetta”, la martellante frequenza con cui “Queer” insiste e dibatte di sesso di qualsivoglia tipo: non sarà un’ossessione? Non sarà un caso di regressione infantile, appunto anale? Non sarà un modo indecoroso e falsamente trasgressivo di introdurre i pur importanti temi della sessualità? Non sarà un espediente troppo facile e francamente vieto di catturare visibilità a tutti-tutti i costi? Domande umilianti per noi, militanti e giornalisti di vecchia data, per più di una ragione attaccati all’orgoglio e alla serietà di questo giornale, la onorata testata del nostro partito (un sentimento che certo anche tu condividerai). Un fatto ci preme comunque sottolineare: saremo comunisti ortodossi come scrive il signor Aldo Nove (forse intendeva dire trinariciuti), ma lo assicuriamo che il complesso anale noi lo abbiamo superato nell’età giusta (vedi Freud). Non sappiamo se così è stato per lui e “Queer”.
Carissimi, affidatevi al lettino di Lacan, lasciate stare “Liberazione”.

Maria R. Calderoni
Giancarlo Lannutti

Finalmente! Un’importante “polemica sulla sessualità” nella puntuale lettera al Direttore Piero Sansonetti di due giornalisti e militanti di “Liberazione” e del P.R.C.
… ma il «lettino di Lacan» (ancora!) sta dalla parte della cura o della malattia stessa da curare?

Roberto Altamura

Marco Bellocchio a Pesaro

il manifesto 30.6.05
LE MANI DI BELLOCCHIO

Marco Bellocchio, cui è dedicato l'evento speciale della mostra, lascerà oggi (18,30, cortile di Palazzo Gradari) l'impronta delle sue mani sulla piastrella di ceramica creata dall'atelier Franco Bucci. La citazione esplicita è il Walk of fame hollywoodiano, nel progetto di eventi in omaggio agli artisti ospiti del Festival. A Bellocchio è dedicata anche la mostra (Galleria Franca Mancini): bozzetti di preparazione dei film, tra cui anche disegni inediti del suo ultimo (ancora in fase di lavorazione) Il registra di matrimoni. Sabato tavola rotonda sull'immagine «bellocchiana» (Cinema Astra) e a chiudere la retrospettiva la proiezione della Balia . Venerdì sarà a Pesaro anche Barbora Bobulova, già interprete per Bellocchio de Il principe di Homburg, ad accompagnare il corto Spendo i soldi che non ho di Daniela Ceselli.

Marco Bellocchio è stato il protagonista diuna lunga intervista trasmessa questa sera dalle 19 a Hollywood Party, una trasmissione di Rai Radio Tre il cui archivio sonoro dovrebbe essere rintracciabile sul sito dell'emittente:
http://www.radio.rai.it/radio3/

L'Unità 30 Giugno 2005
Delitto Pasolini, un documentario
rimasto «inedito» per trent’anni
«Il silenzio è complicità» girato nel ’76 da registi come Bellocchio, Bolognini, Monicelli
di Francesca De Sanctis

«IL SILENZIO È COMPLICITÀ», questo il titolo del filmato proiettato ieri sera alla Festa dell’Unità agli ex mercati generali (Ostiense). Un filmato in-
chiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini in cui le voci di quindici registi italiani indagano sul movente di quell’atroce delitto e denunciano la voglia di archiviazione dell’omicidio. «Il film era stato proiettato solo una volta, nel settembre del 1976, durante un festival della Fgci» ricorda Gianni Borgna, allora dirigente della Fgci romana e oggi assessore capitolino alla cultura. Ieri sera è intervenuto al dibattito «Ricordando Pasolini» assieme a Goffredo Bettini e a Mario Martone prima che il film venisse proiettato davanti al pubblico della Festa dell’Unità.
In quaranta minuti la pellicola racconta una verità che va cercata nel contesto di quegli anni, gli anni della strage di piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus... Tra i registi che hanno girato quel filmato ci sono Marco Bellocchio, Giuseppe Bertolucci, Mauro Bolognini, Laura Betti, Dario Bellezza, Franco Brusati, Sergio Citti, Dacia Maraini, Ninetto Davoli, Elio Petri, Enzo Siciliano, Ettore Scola, Mario Monicelli, Lietta Tornabuoni. «È un documento molto interessante - sottolinea Borgna -, è impressionante che escano fuori solo ora le verità che questo filmato raccontava già trent’anni fa». Le poche copie del filmato, custodito a Bologna nel Fondo Pasolini, le ha fatte girare Laura Betti, che ne regalò una copia a Borgna e una a Bettini. «“Il silenzio è complicità” denuncia la mancanza di indagini che non furono fatte», insiste l’assessore.
Il filmato fu girato nella primavera del ‘76 e raccoglie le voci dei giovani comunisti di allora che parlano di Pasolini, a volte condividendo coi lui delle cose altre volte meno; ragazzi che parlano del rapporto tra il poeta e i giovani. E sullo sfondo si intravede il Pincio, dove proprio un anno prima della sua morte, Pasolini aveva partecipato al festival della Fgci. «Aveva tenuto il discorso sui giovani e la droga» ricorda Borgna. Ma la questione più importante de “Il silenzio è complicità” riguarda proprio il delitto, perché l’insieme delle testimonianze delinea un quadro non diverso dalla recente rivelazione di Pino Pelosi (finora considerato unico colpevole del delitto), e cioè che l’omicidio sarebbe opera di più persone. La pensava così già allora il regista Sergio Citti che recentemente ha più volte ribadito di voler testimoniare, per raccontare la sua versione in base alle prove da lui stesso raccolte subito dopo l’omicidio.
Ora l’avvocato Guido Calvi ha formalmente fatto depositare a Citti la sua testimonianza che verrà consegnata dal Comune di Roma ai magistrati, spiega Borgna, il quale ricorda che il Comune si è costituito parte lesa e che quindi sta portando avanti le proprie indagini. «Entro l’autunno - assicura l’assessore - il Comune ricostruirà la sua ipotesi ed il movente».

MARCO BELLOCCHIOl'intervista su La Repubblica

REPUBBLICA DOMENICA, 26 GIUGNO 2005, pag. 48
L'INCONTRO
Bilanci artistici

MARCO BELLOCCHIO
di Paolo D'Agostini

«Non credo ai concetti di bene e di male, propri della cultura religiosa.
A proposito degli orrori che accadono nel mondo preferisco parlare di malattia mentale»

Quarant'anni di cinema, quarant'anni di film molto amati, molto stroncati, sempre molto discussi. Quarant'anni in cui il ribelle dei "Pugni in tasca" ha continuato a ribellarsi: anche contro il proprio successo e i cliché che ne derivavano. Ora, in occasione della Mostra di Pesaro che li ripercorre tutti, il regista accetta di mettersi in discussione e di raccontare le sue rivoluzioni

ROMA. SERGIO CASTELLITTO - protagonista condiviso con
La stella che non c'è di Gianni Amelio - se n'è volato in Cina dove il film si sta girando e Marco Bellocchio dovrà aspettarlo per completare le riprese di Il regista di matrimoni. Bellocchio è immerso in una fase del lavoro che tiene alla larga le distrazioni, troppo "dentro" il film in corso per parlarne. Ma la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (25 giugno-3 luglio) ripercorre l'intera sua carriera rendendo omaggio ai quarant'anni di cinema del ribelle dei Pugni in tasca che oggi, sessantaseienne, soprattutto dopo L'ora di religione, sta vivendo una rinnovata stagione di giovinezza creativa e di consensi. E questo lo ha convinto ad accettare una conversazione, diciamo, retrospettiva.
Ma usa con fermezza l'occasione per difendere "tutta" la sua biografia artistica. In altre parole, Bellocchio non ne può più delle sottovalutazioni o delle ironie dei detrattori su quella parte della sua produzione che più direttamente è stata influenzata dal rapporto con la scuola dello psichiatra e psicanalista Massimo Fagioli e dall'esperienza della "analisi collettiva" propria di quella scuola: la produzione che si situa tra gli anni Ottanta e il ‘94 di
Il sogno della farfalla, quella che culmina nella collaborazione di Fagioli alla costruzione dei film e nella firma dell'analista affiancata a quella del regista sotto le sceneggiature. È noto, infatti, che la comunità critica ha diffidato di quell'incontro artistico. E che il pubblico ne è stato disorientato, forse allontanato. Ma che cosa è successo, da La balia in poi e all'indomani di quella stagione controversa, che ha donato al suo cinema una nuova "accessibilità" - perché questo è un fatto, fuori da ogni polemica - e il recupero di un pubblico giovanile che si era disperso?
Bellocchio non rifiuta, spiega. «La mia vita non prescinde dal mio lavoro e viceversa. Le mie immagini provengono dalla mia esperienza. C'è un film che divide il mio percorso in due: è
Il diavolo in corpo, di vent´anni fa. È stato una rivoluzione per me. Quella novità si è sviluppata poi attraverso altre ricerche e altri esperimenti e da lì, è vero, il mio lavoro è diventato più "accessibile". Ma non ho mai smesso di essere un ribelle. Neanche con L'ora di religione: ribellione alla cultura assoggettata all'autorità della Chiesa. I giovani (si dice: se non si è ribelli a vent'anni... Poi purtroppo molti se lo dimenticano) amano il mio atteggiamento nei confronti del potere culturale istituzionale. Nessun mio film è venuto meno a questo principio, ma negli ultimi forse la mia maturità ha trovato una comunicabilità più diretta».
Ed eccoci al punto, per chi si sentisse ancora autorizzato a pensare che la felicità dell'ultima stagione nasce dal distacco dalla tutela (direbbero i detrattori) fagioliana. «Non c'è stata una rottura da parte mia dopo il periodo di "collaborazione fagioliana" compiuto con
Il sogno della farfalla: c'è continuità, pur nella separazione artistica da Fagioli, per quel che riguarda le mie convinzioni su quella ricerca che non solo non rinnego ma seguo ancora e condivido».
Ma il punto non è quello di ipotizzare una rinuncia, da parte dell'ultimo Bellocchio più comunicativo e più sereno, alla vocazione di ribelle per sempre. Il punto è confrontare la percezione che si ha della sua storia da fuori con quella che lui ha di se stesso. E lui spiega: «Nella tradizione artistica spesso ci sono inizi folgoranti e poi un declino lento ma inesorabile. È come se nei quarant'anni successivi a
I pugni in tasca, che fu un film di ribellione nichilista, io mi sia ribellato al successo di quella ribellione e all'identità che mi aveva dato. Certamente molti ancora mi definiscono "l'autore dei Pugni in tasca". Non ne disconosco la paternità, ma non mi è bastato. Tutto il mio lavoro successivo ha sempre evitato la ripetizione di quell'esperienza. E Il diavolo in corpo è stata una nuova ribellione, un nuovo rischio che per qualcuno è stato un suicidio, ma con il tempo si è rivelato una vittoria. Poi, dopo altri film più aristocratici come La visione del Sabba, La condanna e Il sogno della farfalla, sono arrivati film più "popolari" ma quella "rinascita", rappresentata appunto da Il diavolo in corpo, non l´ho mai annullata».
È piuttosto evidente che Marco Bellocchio gradirebbe un riesame di quella parte del suo cinema che è piaciuta di meno. «Ho chiesto al curatore della retrospettiva di Pesaro, Adriano Aprà, di inserire nel volume pubblicato per l'occasione un saggio dello psichiatra Gabriele Cavaggioni che affronta per la prima volta il rapporto tra il mio lavoro di regista e la mia vita, la mia esperienza nell'analisi collettiva, la mia adesione alla teoria fagioliana. Quel periodo viene spesso "saltato". Ho cominciato l'analisi collettiva nel ‘77, poi ci sono state interruzioni ma il mio rapporto sia pur conflittuale, dialettico o difficile, ha lasciato il segno. Ora in una riflessione sul mio lavoro è indubbio che questa mia scelta debba essere considerata: il mio rapporto con la psichiatria e con la psicanalisi».
A partire dal trentennale del suo storico documentario "basagliano"
Matti da slegare, il festival Anteprima di Bellaria ha da poco celebrato il tema "cinema e psichiatria". Gli sarà capitato spesso, a Bellocchio, di essere coinvolto in convegni psichiatrici o psicanalitici ma c'è da scommettere che non è questo il tipo di attenzione da lui richiesta. «L'ora di religione è stato discusso in un convegno freudiano. Suppongo sia stato interpretato in un modo che non condivido, ma è importante che le idee e le immagini circolino. Io ho capito da molto tempo che la mia identità è quella di regista cinematografico. Mi interesso e mi appassiono alle idee di sanità e di malattia mentale, non credo al male né al bene, sono radicalmente ateo, ma questo riguarda essenzialmente la mia sfera privata».
Ecco un utilissimo snodo che Bellocchio offre prima che una domanda lo solleciti. È immaginabile che sia stato, per uno spirito come il suo, motivo di interesse la vicenda del Papa, la partecipazione di massa, la richiesta di "santità subito". Non si fa pregare: «Il giorno dei funerali mi ha colpito che su tutti i canali televisivi ci fosse la stessa cosa. Nessuna attenzione verso chi, pur avendo grande rispetto per il Papa, volesse veder riconosciuta la libertà di guardare un altro programma. E poi il referendum (io ho votato quattro sì): formalmente la Chiesa non infrange la legge suggerendo di astenersi, ma nella sostanza è un comando. Un soprassalto di autonomia degli italiani sarebbe stato una grande manifestazione di libertà».
Già che ci siamo, un salto indietro:
L'ora di religione è stato inteso come una ricerca di moralità o spiritualità "autentiche" in reazione al conformismo e all'opportunismo. La cosa non lo lusinga e Bellocchio non fa sconti: «È quanto ci hanno trovato molti cattolici. I quali cercano la conversione del non credente: anche soltanto nelle domande che il non credente si pone, nel rifiuto dell'ipocrisia della Chiesa cattolica. Ma io, da quando adolescente ho perso la fede, credo soltanto a questo mondo, alla mia vita breve che cerco di vivere nel migliore dei modi. C'è spesso purtroppo nell'ateo una "confusione" religiosa nel momento in cui usa dei concetti propri della cultura religiosa: bene e male. Ma a proposito degli orrori che accadono nel mondo io preferisco parlare di malattia mentale. Concetto che anche dalla cultura laica non è accettato, secondo l'idea che siamo un po' tutti matti».
Torniamo allo "spettacolo" dell'adesione giovanile di massa all'addio al Papa. Tra i risultati della cultura ribelle di cui Bellocchio è stato portabandiera ci fu l'allontanamento dei giovani dalla Chiesa e dalla religione. Poi che è successo? «Essendo venute a mancare risposte dall'utopia, dal progetto di un mondo sotto l'insegna di principi marxisti, che ha influenzato intere generazioni me compreso, la Chiesa cattolica e la religione sono tornate ad essere l'unico riferimento cui rivolgere entusiasmi ed energie. La politica non risponde più, la sinistra è timida. La Chiesa non solo propone la salvezza nell'aldilà ma anche l'assistere, il prendersi cura, opere di carità non solo benemerite ma necessarie. Senza però mettere in discussione le istituzioni, i principi. Una possibile risposta radicalmente laica trova la sinistra del tutto indifferente».
Vediamo, prendendola da un altro versante, se si riesce ad avere ulteriore prova della sua fedeltà a se stesso. Domanda: riconosce il peso dell'autobiografia nel suo percorso artistico? «Sì, purché non la si voglia relegare all'adolescenza. Le mie immagini sono la mia vita, tutta». Domanda: riconoscerà un particolare accanimento contro la famiglia? «Senz'altro, ma visto lungo tutto l'arco del mio cinema e della mia vita». Domanda: mai pensato che reiterare il motivo della necessità di "uccidere" i genitori le si potesse ritorcere contro, da genitore a sua volta? «Sono contrario all'assassinio del padre e della madre non per paura che i miei figli mi possano ammazzare. No, è pura follia, che non porta a nessuna liberazione». Domanda: c'entra la consapevolezza adulta di non essere migliori di chi ci ha preceduti? «Questo sarebbe un pensiero di rassegnazione: quando si hanno vent'anni si è rivoluzionari, quando si è maturi si ammette che i genitori non avevano tutti i torti. Ho dedicato
Buongiorno notte a mio padre, ma continuo a considerarmi diverso da lui. Lui era un conservatore che ha accettato i valori della società in cui viveva, io li ho rifiutati».
Chissà quanto di tutto questo c'è ancora in
Il regista di matrimoni? «L'attore, che è lo stesso, potrebbe far pensare a una continuazione de L'ora di religione», dice. «Qui è un regista che a un certo punto abbandona una situazione cui non crede più (sta girando un film dai Promessi sposi). Capita in Sicilia dove incontra uno che fa i filmini dei matrimoni, capisce che non gliene frega più niente del suo lavoro e che la sua avventura umana viene prima dell'essere regista. Capisce che deve impedire un matrimonio ("questo matrimonio non s´ha da fare") e il "suicidio" di una ragazza che», sottolinea perché non si pensi a un sordo anticlericalismo, «avverrebbe tanto se il matrimonio venisse celebrato in chiesa quanto in municipio». Per ora è tutto. In attesa di vedere e potergli chiedere se quel regista alle prese con più urgenti priorità è lui.

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Corriere Adriatico 29.6.05
Franca Mancini ospita la presentazione
“Bellocchio” in Galleria


PESARO - Venerdì dalle ore 19 alle 20.30 Franca Mancini, presidente dell'Associazione Culturale " Il Teatro degli Artisti ", con il Circolo della Stampa e la sezione Marche dell'Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d'Azienda, invitano alla presentazione dei volumi

Marco Bellocchio, il cinema e i film
e Bellocchiana

tenuta da Adriano Aprà, direttore artistico dell'evento, alla presenza di Marco Bellocchio, di Giovanni Spagnoletti Direttore artistico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Bruno Torre presidente Comitato scientifico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e Stefano Caselli curatore della mostra.
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Albert Speer, una «totale mancanza di emozioni»

La Stampa 30 Giugno 2005
La colpa tedesca nei misteri di Albert Speer
Alessandro Melazzini

«Chi è Speer?». Solo questo premeva sapere al sergente britannico giunto ad arrestare il favorito di Hitler nel castello in cui si era nascosto insieme ad altri fuggitivi, poco dopo la morte del Führer. È la stessa domanda con cui da anni lo storico tedesco Joachim Fest si arrovella studiando il carattere «dai tratti schizoidi» di Albert Speer (1905 - 1981): ammirato architetto e potentissimo ministro di Hitler, allo stesso tempo intimo del Führer e critico sprezzante verso i rozzi e avidi predatori che brulicavano intorno al dittatore. Dopo l'eccellente biografia dedicatagli qualche anno fa, Joachim Fest torna ora ad occuparsi di lui nel nuovo volume Le domande a cui non è possibile rispondere (Rowohlt Verlag, Reinbek). Titolo enigmatico, ma che merita una riflessione nella sua esemplarietà. Il libro raccoglie tutti gli appunti dei colloqui tenuti per lunghi anni dallo stesso Fest, in qualità di consulente editoriale, con Albert Speer mentre questi, dopo 20 anni a Spandau, si dedicava a redigere le proprie memorie. In questo senso è un testo rivelatore.
Sin dal primo incontro del '67, avvenuto pochi mesi dopo la scarcerazione, Fest venne colpito dalla «totale mancanza di emozioni» del suo interlocutore. Speer appariva come un distinto signore dall'eloquio incerto e impacciato in grado tuttavia di parlare con «meccanica freddezza» del proprio terribile passato. Ovvero degli anni in cui uno dei peggiori criminali della storia, pieno d'entusiasmo per lui, l'aveva ricoperto di elogi e investito di enormi poteri. Fest constatò con sorpresa come Speer mancasse palesemente di senso critico nei confronti del dittatore, che lo aveva innalzato ai fasti del regime.
Tra i suoi compiti, vi era la totale riprogettazione di quella Berlino mai troppo amata dal Führer. Per mezzo del giovane architetto la capitale del Reich avrebbe dovuto trasformarsi radicalmente, sconvolta nella pianta e spogliata persino dell'antico nome, così da diventare Germania, la «metropoli universale». Uno degli edifici commissionatigli da Adolf Hitler, l'enorme sala dei congressi capace di contenere al suo interno 180.000 persone, avrebbe dovuto giganteggiare sulla Porta di Brandeburgo tanto da rendere il monumento simbolo della città sulla Sprea praticamente invisibile. Ma al confronto con una tale enormità anche l'imponente basilica di San Pietro a Roma sarebbe apparsa un edificio dai tratti «intimi» e modesti. Fu il momento in cui si chiese se per caso con i suoi progetti architettonici «non stesse esagerando». Durò poco e presto si rimise al lavoro per i «grandiosi piani» del protettore.
Negli anni di maggior confidenza con il Führer, Speer ebbe a disposizione mezzi pressochè illimitati, oltre a godere come nessun'altro della considerazione del capo, tanto da essere considerato quasi il suo «amore infelice». Il rapporto di ammirazione reciproca tra Hitler e Speer, secondo Fest non scevro da tratti vagamente omosessuali, fu di natura speciale ed esclusiva poiché i due si consideravano innanzi tutto dei grandi artisti: l'uno dedito all'architettura, l'altro alla politica. Entrambi svincolati da ogni norma di rispettabilità borghese ed esentati da qualsiasi imperativo morale in grado di limitare il loro presunto genio. Ma pur avendo vissuto a diretto contatto con Hitler - ecco il punto -, Speer ha sempre sostenuto di non sapere nulla dei crimini contro l'umanità compiuti dal regime nazista. Quello che è certo - secondo Fest - è che durante gli anni della gloria e potere egli condivise l'«assoluta mancanza di scrupoli» del Führer e mai neppure un momento pensò di opporsi agli «sgomberi» degli abitanti ebrei di Berlino necessari per realizzare il ciclopico progetto dello Stato nazionalsocialista.
La più esplicita risposta che l'enigmatico Speer mai diede alle incalzanti domande di Joachim Fest sulla propria responsabilità personale ai crimini hitleriani, fu una richiesta. Quella di smettere di porre domande a cui «non è possibile rispondere».
alessandro@skabadip.com

Ernst Bloch

Il Messaggero Giovedì 30 Giugno 2005
Bloch, ancora sperare nonostante tutto
di SERGIO GIVONE

TORNA in libreria Il principio speranza di Ernst Bloch, uno dei testi filosofici più importanti del Novecento. Scritto nel decennio a cavallo dell’ultima guerra mondiale, fu pubblicato nel 1959 e apparve in italiano nel 1994 (trad. di E. De Angelis e di T. Cavallo e introd. di R. Bodei). Opportunamente l’editore Garzanti (2.600 pagine, 39,50 euro) ristampa ora quella traduzione.
Opera sterminata e vertiginosa, Il principio speranza mescola stili, generi, contenuti. Con impareggiabile virtuosismo saggistico, Bloch passa dalla filosofia dura e pura ad analisi minutissime di ordine sociologico e psicologico senza mai perdere di vista l’assunto di base e cioè l’idea che la realtà sia in movimento verso una dimensione utopica. Tutto diventa oggetto di riflessione: le tesi classiche della filosofia della storia, in particolare quelle hegeliane e marxiane, e i grandi processi in corso, giù giù fino alle trasformazioni che incidono sulla vita quotidiana e che trovano espressione nel cinema, nella letteratura, nella produzione delle merci di consumo.
«Lo sperare - scrive Bloch - superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla». Il principio speranza non è bloccato nel nulla poiché tende a qualcosa che trova conferma perfino là dove è smentito: per quanto profonde siano le delusioni patite, per quanto ripetitivi siano i fallimenti che di generazione in generazione accompagnano i progetti e i sogni degli uomini, è lo stesso scacco, col suo carico di sofferenza e di angoscia, a dimostrare che l’ultima parola non può essere il non senso.
Ma come dire questa parola in grado di sottrarsi alla logica della ripetizione del sempre uguale? A tal proposito Bloch mette in guardia la filosofia dal pensiero “anamnestico”, ossia dal pensiero che è tutt’uno con la presa d’atto dell’ordine delle cose, per identificarla invece col pensiero utopico, e quindi con la conoscenza di ciò che non è ancora mai stato ma che un giorno potrebbe essere.

storiaMussolini

Liberazione 30.6.05
L'antisemitismo del giovane Benito Mussolini
Francesco Germinario

Un saggio di Giorgio Fabre mette in luce le radici razziste del leader del fascismo, ben prima del suo arrivo al potere. Dal dibattito sulla razza di fine Ottocento alla pregiudiziale antiebraica di settori della stessa sinistra socialista

Come inquadrare la svolta antisemita del regime fascista, nel 1938, all'interno della biografia politica di Mussolini? E quest'ultimo divenne antisemita solo a partire da quel periodo, oppure atteggiamenti e istanze antisemite datavano nei suoi scritti e nelle dichiarazioni già da tempo?

Questi sono gli interrogativi cui cerca di rispondere il ponderoso e molto documentato saggio, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, uscito in queste settimane per i tipi di Garzanti (pp. 508, euro 25,00). L'autore del saggio, giornalista al settimanale di destra Panorama, non è nuovo a studi sull'antisemitismo fascista.

Il libro di Giorgio Fabre analizza l'atteggiamento di Mussolini davanti alle teorie della razza e all'ebraismo dagli esordi sovversivi del giovane socialista romagnolo fino all'ascesa al potere nell'ottobre del 1922. Malgrado la ormai sterminata bibliografia su Mussolini, Fabre si muove su un terreno pressoché vergine. Del resto, il suo libro incrocia necessariamente alcuni temi e aspetti di quell'enorme dibattito sulla "razza" che caratterizzò la nostra cultura dall'ultimo ventennio dell'Ottocento fino alla prima guerra mondiale. Fu un dibattito che vide la partecipazione di medici, psichiatri, sociologi, criminologi, demografi, giuristi e che solo negli ultimi anni la nostra storiografia ha cominciato a ricostruire nelle sue voci più significative, cominciando a sfatare il mito strapaesano e criptocattolico per cui l'Italia è stata un paese immune dalle culture razziste.

Il giovane Mussolini studiato da Fabre è l'intellettuale del Novecento «che in Italia e non solo ha scritto (e pensato) più a lungo in termini di razza e razzismo» (p. 59). Almeno nei primi anni dieci sarebbe una forzatura parlare di un Mussolini antisemita; ma certamente dai suoi numerosi scritti traspare quella che Fabre definisce «un'ostilità sedimentata (...) anche se controllata» (p. 76) nei confronti degli ebrei. E' comunque necessario riconoscere che a determinare una spiccata sensibilità del giovane Mussolini nei confronti delle questioni della razza fu certamente una cultura personale in cui le suggestioni provenienti dai sociologi élitaristi (a cominciare da Pareto) si integravano con le istanze provenienti dalla frequentazione di opere di autori razzisti, fra i quali spiccavano Gobineau e quel Chamberlain teorico dell'arianesimo, che anche Hitler avrebbe poi inscritto nella galleria dei suoi maestri.

Del resto, anche in certa cultura socialista, i pregiudizi antiebraici erano tutt'altro che infrequenti, sol che si pensi all'opera di un Proudhon. Gli esordi di Mussolini sulla stampa socialista italiana avvengono qualche anno dopo che in Francia, sull'onda dell'Affaire Dreyfus, si era formata la destra del Novecento: una destra "rivoluzionaria", protestataria, esplicitamente antisemita e, a nostro avviso, anche attraversata da forti inclinazioni pretotalitarie, anticipatrice, insomma, di molte caratteristiche ideologiche e politiche dei successivi movimenti fascisti. Dopo alcune esitazioni iniziali, il movimento operaio francese, sotto la guida di Jaurés, si schierò a difesa delle istituzioni repubblicane minacciate dalle destra. Questa scelta di campo fece in modo che l'antisemitismo, fino ad allora molto presente in campo socialista, divenne invece una componente significativa del panorama ideologico delle destre. Anche in Italia, seppure a sinistra continuerà a persistere qualche stereotipo antiebraico, quale quello che identificava l'ebreo col capitalista, a partire dagli anni dieci l'antisemitismo divenne appannaggio della destra. I nazionalisti, ad esempio, faranno dell'antisemitismo esplicito con uno dei loro teorici, Francesco Coppola, e con un Paolo Orano, un transfuga del sindacalismo rivoluzionario approdato al "socialismo nazionale"; non a caso entrambi saranno esponenti del regime, e il secondo giocherà addirittura un ruolo di rilievo nelle campagne antisemite fasciste.

Quando possiamo parlare di un Mussolini esplicitamente antisemita? Sicuramente a partire dal 1917-18. Sono gli anni in cui in Europa comincia a diffondersi la teoria per cui la rivoluzione bolscevica era parte di un più generale complotto ordito dagli ebrei; che gli ebrei, considerate le origini ebraiche di numerosi dirigenti bolscevichi, da Trotsky a Zinov'ev, dopo avere preso il potere in Russia, stavano estendendo il complotto in Europa, suscitando rivoluzioni ad opera di altri ebrei, come la Luxemburg, Bela Kun ed altri. E' in questo periodo che nelle destre estreme europee è elaborata la categoria concettuale di "giudeobolscevismo", destinata a svolgere un ruolo fondamentale nell'ideologia nazista e nell'antisemitismo fascista.

Certamente, come ribadisce Fabre, il fascismo non aveva programmi antisemiti. E tuttavia, almeno due aspetti è necessario sottolineare in proposito. Il primo è che fin dai primi anni Venti il fascismo ebbe come interlocutori i movimenti antisemiti dell'estrema destra europea che, a cominciare proprio dal nazismo, guardavano sempre con molto interesse al movimento mussoliniano. Il secondo è che, quando nell'ottobre del 1922, il fascismo arrivò al potere, era pur sempre un movimento politico in cui le voci antisemite erano circoscritte ad alcuni settori, ma pur sempre presenti.

In Italia è in uso da anni un giornalismo di destra che pretende dalla carta stampata o da qualche pulpito televisivo, di spacciarsi per "revisionismo storico". In genere si tratta di giornalisti che ben difficilmente hanno frequentato una biblioteca e quasi sicuramente mai un archivio per scrivere i loro libri. Gli storici futuri avranno materia di studio, per questo atteggiamento che probabilmente un Gramsci derubricherebbe come paccottiglia utile per soddisfare il modesto appetito intellettuale del popolo delle scimmie. Al contrario dei suoi colleghi "revisionisti", Fabre ha consultato gli archivi e la consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, il suo è un libro che costringe a "rivedere" molti giudizi storiografici; né mancano giudizi critici nei confronti della storiografia italiana e internazionale, a cominciare da quella marxista, per finire a De Felice e Mosse. Ebbene, i colleghi di Fabre che chiacchierano di "revisionismo storico" o "revisionismo liberale" sono invitati ad andare a scuola da Fabre per apprendere i primi rudimenti del mestiere di storico.

mercanzie cattoliche

il manifesto 30.6.05
CHIESA CATTOLICA
Il mercato on line delle anime

LORIS CAMPETTI


Il contenitore riproduce una classica scatola di medicinali, tipo compresse di antistaminico o pillole anticoncezionali. E' il nome che suscita curiosità: «Rosario in grani». Per capire qualcosa siamo andati a leggere le istruzioni sul classico bugiardino: «Santificante effervescente». Composizione: «Ogni rosario contiene 50 Ave Maria, 5 Pater Nostro, 5 Gloria al Padre, 1 Salve Regina» per un totale di 61 grani «in plastica fosforescente, corona di tipo classico con 5 decine e croce». «Il prodotto - spiega la lettera inviata a una libreria per sollecitarne l'acquisto - è composto da: una scatola "Rosario in grani"; un foglietto con le indicazioni terapeutiche (...); una corona del rosario tipo classico. Il prezzo per l'intero prodotto (...) è di soli 2,00 euro più spese di spedizione (particolari condizioni di vendita solo per quantità rilevanti». Segue il nome della ditta produttrice (Net Magazine, via Antonelli 4 Milano) con tanto di numero di telefono e indirizzo di posta elettronica che vi risparmiamo. Non è uno scherzo, è il mercato della fede, anzi della Fede, «un simpatico modo per proporre la recita del Rosario a tutti, ma in special modo ai bambini per farli crescere sempre più nell'amore a Maria, Madre di Gesù», commercializzato «come se fosse un medicinale da banco». Vi chiederete, gente di poca fede, quale sia il principio attivo del farmaco: ovviamente «la Grazia di Dio». Occhio alle «indicazioni terapeutiche: contro la tiepidezza spirituale, aiuta nel cammino verso la Santità, elimina pruriti al Sacro, scoraggia dalle tentazioni, toglie acidità e pesantezza di coscienza, libera le anime dal Purgatorio». Infine, «effetti indesiderati: «Se recitato bene e ogni giorno può provocare un cerchio alla testa (vedi illustrazione)». Nell'illustrazione c'è un bimbo con aria sognante e aureola intorno alla testa.

Dal mercato delle indulgenze al supermercato del Santificante effervescente on line. Il povero Martin Lutero si sarebbe divertito.

mercoledì 29 giugno 2005

stati mentali e esperianza visiva cosciente

lescienze.it 29 giugno 2005
Meditazione buddista e rivalità percettiva
Lo stato mentale può influire sull'esperienza visiva cosciente


Con un'insolita ma fruttuosa collaborazione fra monaci tibetani buddisti e neuroscienziati, alcuni ricercatori hanno svelato indizi su come gli stati mentali - e i meccanismi neurali che vi stanno alla base - possono influire sull'esperienza visiva cosciente. Nello studio, pubblicato sul numero del 7 giugno della rivista "Current Biology", Olivia Carter e Jack Pettigrew dell'Università del Queensland hanno trovato le prove che le capacità sviluppate dai monaci buddisti nella loro pratica di un certo tipo di meditazione può influenzare fortemente la loro esperienza di un fenomeno, chiamato "rivalità percettiva", che ha a che fare con l'attenzione e la consapevolezza.
La rivalità percettiva ha origine normalmente quando a ciascun occhio vengono presentate due differenti immagini, e si manifesta come una fluttuazione - di solito nell'arco di pochi secondi - nell'immagine "dominante" che viene percepita coscientemente. Gli eventi neurali alla base della rivalità percettiva non sono ancora del tutto compresi, ma si ritiene che siano coinvolti i meccanismi cerebrali che regolano l'attenzione e la consapevolezza.
Alcuni studi precedenti avevano suggerito che la meditazione potesse alterare determinati aspetti dell'attività neurale dl cervello. Ora, con il beneplacito del Dalai Lama, 76 monaci tibetani hanno partecipato a uno studio condotto presso i loro ritiri montuosi nell'Himalaya e in India. L'addestramento meditativo dei monaci variava da 5 a 54 anni, e fra di essi ce n'erano tre con almeno 20 anni di esperienza di totale isolamento.
Misurando la rivalità percettiva dei monaci durante la pratica di due tipi di meditazione, gli scienziati hanno scoperto che alcuni di essi presentavano una completa stabilità visiva superiore ai soggetti di controllo.
I risultati suggeriscono che i processi particolarmente associati con il tipo di meditazione nel quale si mantiene l'attenzione su un singolo oggetto o pensiero contribuiscono alla prolungata stabilità percettiva sperimentata dai monaci. Gli individui addestrati alla meditazione possono alterare considerevolmente le normali fluttuazioni nello stato conscio che vengono indotte dalla rivalità percettiva. Lo studio, dunque, confermerebbe che la rivalità percettiva possa essere modulata da influenze neurali top-down di alto livello.

O. L. Carter, D. E. Presti, A. Callistemon, Y. Ungerer, G. B. Liu, J. D. Pettigrew, "Meditation alters perceptual rivalry in Tibetan Buddhist monks". Current Biology, Vol. 15, pp. R412-R413 (7 giugno 2005).

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neocon franco-tedeschi all'attaccoma Heidegger fu senza dubbio un nazista

Corriere della Sera 29.6.05
In Francia e Germania appelli pro e contro il celebre filosofo tedesco che avrebbe redatto i discorsi di Hitler
Heidegger «nazista»: gli intellettuali vanno alla guerra
Frediano Sessi

Martin Heidegger suggeritore, addirittura estensore di alcuni discorsi pubblici di Adolf Hitler? L’ipotesi, sostenuta dal filosofo Emmanuel Faye in un saggio pubblicato dall’editrice francese Albin Michel (L’introduzione del nazismo nella filosofia, presentato sul Corriere del 3 giugno, con un intervento di Carlo Augusto Viano il 4), suscita polemiche in Francia e Germania, dove il voluminoso studio ha creato due fazioni in conflitto. Da una parte coloro che denunciano, anche in modo offensivo e volgare, il «delirio» dell’autore, proponendo un «eterno e universale omaggio» al maestro della filosofia contemporanea (tale è l’appello, tradotto in tredici lingue e inviato dallo scrittore Stéphane Zagdanski a migliaia di persone nel mondo); dall’altra coloro che sostengono la serietà del lavoro di ricerca di Faye e ne difendono l’operato. In particolare, viste le tesi del libro, dimostrate da un’ampia documentazione inedita, che vedono Heidegger e i suoi lavori filosofici, compreso Essere e Tempo, compromessi con le posizioni antisemite, guerrafondaie ed eliminazioniste di Hitler, una buona parte degli heideggeriani radicali (francesi e tedeschi), ha tentato di infierire sul saggio, gettando discredito sul suo autore; sia con attacchi diffamatori diffusi su Internet, sia sostenendo, sui maggiori giornali e media, la falsità della nuova documentazione raccolta. Da qui una petizione a favore del volume e in difesa del suo autore, firmata da molti intellettuali e germanisti che, tra l’altro, scrivono come esso «ripercorra l’impegno di parte a favore della politica hitleriana del pensatore tedesco, e metta in luce in modo puntuale, documentato e argomentato, i legami profondi tra l’opera di Heidegger e la dottrina nazista, in particolare nei seminari inediti del 1933-1935». «Noi pensiamo - aggiungono - che la ricerca critica sull’opera di Heidegger, quanto al suo rapporto con il nazismo, debba proseguire e approfondirsi; auspichiamo inoltre che sia data una larga diffusione internazionale ai nuovi elementi della ricerca scientifica apportati da questo saggio di Faye, e al dibattito di fondo che ne dovrebbe seguire». Tra i firmatari, filosofi e saggisti come Jacques Brunschwig, Claude Imbert, Richard Wolin, ma anche intellettuali del calibro di Jean-Pierre Vernant, noto per i suoi fondamentali studi sul mito, Pierre Vidal-Naquet, storico e autore di importanti studi sul genocidio nazista, Serge Klarsfeld, avvocato e filosofo, animatore del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Parigi e cacciatore di criminali nazisti, iniziatore delle ricerche sui Libri della memoria; e ancora André Jacob, autore di saggi sulla cultura occidentale, Jean-Claude Margolin, insigne studioso del Rinascimento e di Erasmo, Georges-Arthur Goldschmidt, scrittore e saggista di fama, Arno Munster, filosofo e teologo, Paul Veyne, filosofo e studioso del mondo antico, e altri ancora. Una petizione in difesa della ricerca, contro i pregiudizi e gli steccati delle scuole di pensiero, dietro i quali, è probabile che si nascondano ancora tanti heideggeriani italiani, fermi nel loro proposito di diffondere tra le schiere di studenti dei nostri atenei il pensiero «sacro» del filosofo tedesco, come se, in questi anni, nulla fosse accaduto.
Secondo quanto afferma Stéphane Zagdanski, «questo giovanotto minaccioso (Faye) ha beneficiato del sostegno dei più incompetenti salariati mediatici. È il piccolo personale del giornalismo - coloro che Nietzsche soprannominava già gli schiavi della carta stampata -, che muove la coda fremendo di gioia malsana, all’idea di postillare queste sciocchezze».
Dunque i difensori a oltranza di Martin Heidegger alzano ancora una volta le spalle. Hitler era profondamente ispirato da Sein und Zeit? Il maestro di Friburgo era un militante convinto del progetto nazista? Poco male. Non è forse vero che il «Linguaggio» è un «Grande Mentitore»? Non sarebbe sbagliato, in ogni caso, cominciare a pensare che una filosofia dovrebbe anche farsi interprete delle sofferenze, delle ingiustizie e dell’orrore patito; o, più in generale, dei «sentimenti dei vivi» e, insieme, del grido dei «sommersi» come suggeriva Heinrich Böll.

quale fu il filosofo più grande di tutti?

Corriere della Sera 29.6.05
Sondaggio online della Bbc. L’Economist si mette alla guida del fronte pro Hume: «È l’unico che può fermarlo»
Il filosofo più grande? Marx in testa. E i liberali si mobilitano
di
STEFANO MONTEFIORI

Karl Marx è in testa al sondaggio della Bbc, la radio-tv pubblica britannica, sul «più grande filosofo della storia». Il concorso è stato organizzato dal programma radiofonico In Our Time, che dopo una fase preliminare ha individuato 20 filosofi finalisti: chiunque, anche dall’Italia, può votare su Internet il suo pensatore favorito (www. bbc.co.uk/radio4/). Nella classifica provvisoria, dietro Marx il logico Wittgenstein e l’empirista Hume, seguiti da Platone e Kant. Ultimi l’esistenzialista Heidegger, Epicuro e Hobbes. «Votano Marx perché è un vecchio con la barba bianca ed è così che la gente si immagina un filosofo», «E’ solo il nome più familiare per i radical chic del servizio pubblico», protestano gli intellettuali. Lo storico comunista Hobsbawm difende il pensatore tedesco - «È stato capace di predire la globalizzazione» -, mentre l’ Economist lancia una campagna elettorale a favore di David Hume: «È l’unico che può fermare Marx».
Questi che seguono sono i commenti di Luciano Canfora e Giulio Giorello

CON MARX
Genio antidogmatico Nessuno storico può prescindere da lui
di
LUCIANO CANFORA

Karl Marx proveniva da una famiglia di ebrei renani per i quali la tradizione ebraica aveva avuto un rilievo importante. Studiò la filosofia partendo, come è ovvio, dai greci e continuò a leggere i greci per tutta la sua intensa vita di intellettuale battagliero e non accademico. Epicuro ed Appiano di Alessandria furono tra i suoi autori prediletti. Ha scritto François Furet che Marx potrebbe considerarsi soprattutto uno storico della società inglese tra Sette e Ottocento. Il che equivale a dire che fu il maggiore interprete della dirompente fioritura del capitalismo ottocentesco. Ma fu anche molto altro. La sua intuizione geniale secondo cui la storia dell’Occidente è stata sin qui scandita dal succedersi drammatico di «modi di produzione», e dunque dal costante conflitto di classi in lotta, ha insegnato a tutti - reazionari e conservatori, progressisti e rivoluzionari, studiosi degli antichi e studiosi dei moderni - a capire il movimento storico nel suo incessante divenire. Nessuno storico può prescindere da lui. Fu polemista sferzante e talvolta sprezzante, demolitore antidogmatico di pregiudizi, ostico ad ogni ortodossia ed autorità precostituita. Il «potere temporale» creato in suo nome gli nocque ma senza quel fardello è ovvio che giganteggi di fronte ai conflitti smisurati del mondo attuale

CON HUME
Lo scettico spensierato
di GIULIO GIORELLO

Non è la Rai ma la Bbc: la classifica dei filosofi dell’emittente britannica non vede in testa pensatori da salotto, bensì agitatori di popolo (Karl Marx) o purificatori del linguaggio (Ludwig Wittgenstein). Io preferisco il terzo della lista, lo scozzese David Hume, che rappresenta il tentativo più audace e coerente di indagare la natura umana senza nulla concedere alle chimere della metafisica, e di guardare al corso degli eventi senza ricorrere alle consolazioni della Provvidenza. Ben sapeva che non sempre il futuro sarà simile al passato (anche se dai tempi del mitico Adamo l’umanità ha constatato ogni mattina il sorgere del sole, nulla esclude che questo un giorno possa spegnersi), e che non poche delle nostre costruzioni intellettuali non sono che proiezioni delle nostre speranze o delle nostre paure. La ragione non è signora, ma «schiava» delle passioni. Eppure, la critica riesce a dissolvere i fantasmi che evochiamo per compiacere o intimorire gli altri. Con la distinzione tra ciò che è e quel che vorremmo che fosse Hume ha tolto (in anticipo) la terra sotto i piedi a chi, come Marx, pretenderà di risolvere scientificamente l’enigma della storia. E con l’elegante impiego degli esempi ha dato vita a un’analisi che non ha avuto bisogno di denunciare le trappole del linguaggio per essere rigorosa. Lui stesso si definiva «uno scettico spensierato», capace di «diffidare non solo delle sue convinzioni più radicate, ma dei suoi stessi dubbi». Amici - filosofi e non - stavolta non astenetevi: votate per lui.

Il concorso organizzato dal programma «In Our Time»
L'Economist: «Meglio Mill, ma votate per l’empirista scozzese contro l’autore del Capitale»
«Solo Hume può fermare Marx»
Alla Bbc la sfida sui grandi filosofi

Il sondaggio appassiona la Gran Bretagna. In testa il pensatore comunista
«Lo votano perché è un vecchio con la barba bianca ed è così che la gente si immagina un filosofo», protesta la professoressa Lisa Jardine dell’università di Londra. «Era solo un giornalista che sapeva di economia, non dovrebbe neppure partecipare alla gara», dice la parlamentare conservatrice Ann Widdecombe. In ogni caso Karl Marx è in testa al sondaggio della Bbc sul «più grande filosofo della storia» e si avvia a vincere una libera - se non regolare - elezione, privilegio in genere non toccato ai suoi epigoni. Il concorso è stato organizzato dal programma In Our Time di Bbc Radio 4, che dopo una lunga fase preliminare ha indicato il 5 giugno scorso i 20 filosofi finalisti: chiunque può votare su Internet il suo pensatore favorito (www.bbc.co.uk/radio4/). L’andamento del sondaggio doveva restare segreto ma è stato lo stesso conduttore del programma, Melvyn Bragg, a lasciare trapelare nella sua newsletter che in testa c’è l’autore del Capitale e non - come sperava - l’amato Kant, padre dell’etica europea. La mossa ha funzionato, l’interesse è cresciuto finché il Sunday Times è riuscito a ricostruire buona parte della classifica provvisoria: Marx davanti al logico Wittgenstein e all’empirista Hume, seguiti da Platone e Kant. Ultimi l’esistenzialista Heidegger, Epicuro e Hobbes. Nelle posizioni centrali, San Tommaso, Aristotele, Cartesio, Kierkegaard, Mill, Nietzsche, Popper, Russell, Sartre, Schopenhauer, Socrate, Spinoza. Il gioco per gli ascoltatori di Radio 4 diventa passione nazionale, con storici e intellettuali impegnati nella campagna elettorale per fermare Karl Marx.
«Uno spettro si aggira per la Bbc», titola l’Economist, anche perché nel 1999 un altro sondaggio online del servizio pubblico aveva suscitato polemiche incoronando Marx «massimo pensatore del millennio» davanti a Einstein e Newton. Madsen Pirie, presidente del think-tank liberale Adam Smith Institute, se la prende con l’audience della Bbc - «Radical chic sempre più separati dalla realtà» - ma Eric Hobsbawm, celebre storico comunista, ricorda che «Marx ha predetto la globalizzazione; e poi il suo pensiero ora è libero dall’incarnazione nell’Unione Sovietica».
La democrazia elettronica della Bbc permette di votare ogni giorno e così l’Economist si getta nella contesa: «Non è da noi suggerire scorrettezze, nonostante il talento dei marxisti per i brogli; piuttosto, offriamo un consiglio tattico. Al posto del nostro preferito Mill, che purtroppo si trova a fondo classifica, raccomandiamo un liberale scettico con buone chance di vittoria: amici lettori, fermate Marx e votate David Hume». La lobby a favore di Hume guadagna posizioni, il filosofo Julian Baggini sul Sunday Herald invoca il voto a favore dell’«unico capace di sconfiggere lo scetticismo della nostra epoca senza ricorrere ai dogmi». L’empirista di Edinburgo contro il materialista di Treviri: il sondaggio sembra ormai una gara a due. C’è tempo fino al 7 giugno per deciderla, anche dall’Italia.

il manifesto, Liberazione, Vittorio Foa: troppo poco"disagio" a sinistra su Radetzky

Corriere della Sera 29.6.05
«Dubbi su Ratzinger: è intervenuto su questioni politiche»
Maria Latella

ROMA - Un’intera pagina sul manifesto, totalmente devoluta ai rapporti tra Stato e Chiesa dopo la recente visita di papa Ratzinger al presidente Ciampi. «La laicità - scrive sul quotidiano Giovanni Miccoli - si basa sulla consapevolezza dei diversi protagonisti di rispettarne e attuarne fino in fondo i principi e i criteri. Principi e criteri costantemente messi alla prova», giacché «... la tradizione politica italiana presenta, non da oggi, una particolare fragilità». Anche Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, affronta lo stesso tema con un accorato editoriale firmato da Rina Gagliardi. Comincia con un dubbio retorico, l’editoriale di Liberazione: «Sbaglieremo, chissà. Ma l’escalation della Chiesa cattolica, ovvero dei suoi massimi vertici, ci preoccupa e ci allarma». Termina con una cifra secca, una denuncia pesante e una condanna senz’appello: «Novecentotrentasei milioni di euro, estorti ai contribuenti italiani grazie alla truffa dell’otto per mille: tanto è costato a tutti noi il nuovo Catechismo».
A sinistra insomma, come scrive Rina Gagliardi, si vive con un misto di allarme e preoccupazione l’intenso attivismo della Chiesa, soprattutto in campo italiano. E dunque, vale la pena di ascoltare le riflessioni di Vittorio Foa, voce autorevole della sinistra che, a differenza di altri, non sempre sceglie di dare ragione alla sua parte. Quale opinione avrà, Foa, sull’argomento? Per citare una sua posizione eterodossa: nel ’93, quando i radical chic di casa nostra si guardavano bene dal considerare Gianfranco Fini un interlocutore, ebbene, nel ’93, Foa dichiarava che il Msi lo preoccupava meno della Lega e che dal giovane leader bolognese si sarebbe aspettato una Predappina, una svolta a imitazione della Bolognina di Occhetto. Previsione peraltro puntualmente avveratasi. A Fiuggi. Che cosa pensa, dunque, il non prevedibile Foa di quanto sta accadendo in Italia, tra Stato e Chiesa?
«In questo momento ho una preoccupazione più generale. E’ una preoccupazione che non riguarda soltanto la situazione italiana, ma la politica della Chiesa, in termini per l’appunto generali».
Qual è allora il suo punto di partenza?
«Penso a un problema che tocca tutto l’Occidente. Dobbiamo inviare a un miliardo di musulmani un messaggio semplice e limpido: non date al Corano un’autorità che non sia puramente religiosa. Non trasformate quella che è una legittima direttiva religiosa in una direttiva politica. Ci stiamo davvero affannando perché, nel mondo, lo Stato sia separato dalla Chiesa, da tutte le Chiese. E io trovo contraddittorio, rispetto alla generale necessità politica, che il Papa tedesco, il nuovo Papa, uomo di cultura estesa e raffinata, con una capacità di comunicazione interreligiosa importante, trovo contraddittorio - insomma - che Papa Ratzinger sia caduto lui stesso in una incredibile contraddizione».
Sta pensando agli interventi del Pontefice, quelli che hanno preceduto il voto sul referendum per la procreazione assistita?
«Papa Ratzinger è esplicitamente intervenuto, con autorità religiosa, in una questione politica italiana. Aggiungo che la questione nella quale il Papa è intervenuto riguardava perfino la tecnica della politica, vale a dire l’atteggiamento rispetto al referendum. Insomma, non si trattava nemmeno più di una questione di principio. Era tecnica politica. L’intervento del Papa mi ha stupito e la mia speranza... Posso dirlo?»
Certo che può.
«Ecco, la mia speranza è che il fenomeno non abbia seguito».
Non mi pare che gli interventi del nuovo Papa abbiano carattere estemporaneo. Pare, piuttosto, che tutto faccia capo a una strategia ben meditata.
«Tutto in papa Ratzinger è pensato. Questo è chiaro. Ma ci sono momenti in cui la politica si impone ed altri in cui invece si impone un pensiero più ampio, religioso. Io spero che nel nuovo Papa, forse anche per il fatto che è tedesco, possano prevalere ragioni che vanno ben oltre la politica italiana».
Anche il cardinal Ruini è molto presente sulla scena pubblica italiana, in qualità di presidente della Cei.
«Penso che le due azioni vadano distinte. Una cosa è Papa Ratzinger, un’altra il cardinal Ruini, legato mani e piedi alla politica italiana. Credo di essere un laico e proprio per questo rispetto profondamente la sfera religiosa del cardinal Ruini. Ma proprio per questo gli grido "W il presidente della Repubblica italiana, W Ciampi", che ha affermato con forza il carattere laico dello Stato».
E tuttavia, in alcuni non credenti italiani, per brevità ribattezzati teocon, e in alcuni politici, anche neoconvertiti, si avverte una totale solidarietà con gli interventi del cardinal Ruini...
«Può ben immaginare quale sia il mio giudizio su questa gente, su certi politici... In questo momento prevale in loro una visione che è diventata una moda: parlare senza riflettere troppo rispetto a quel che si dice. Le parole sono assai facili da pronunciare e molti le pronunciano senza pensarci».
Qualche settimana fa, in un dibattito dedicato al Partito d’azione, lei ha parlato di «irrilevanza del linguaggio». E’ a questo che si riferiva?
«C’è in Italia una preoccupante irrilevanza del linguaggio. E’ un male dal quale si può guarire. Io sono vecchio, ma su questo specifico terreno spero di poter dare, anzi voglio dare, il mio contributo. Bisogna guarire dal male dell’irrilevanza del linguaggio, una malattia che consente di poter dire qualsiasi cosa nella certezza che non lascerà traccia e che domani si potrà dire l’esatto contrario. Le parole sono un impegno. Devono tornare a essere un impegno».

panico

Repubblica 29.6.05
Due milioni di italiani bloccati dalla paura di volare o di salire su una nave. Gli esperti: un disturbo che oggi si può curare
Il panico esiste, l'hanno fotografato
Ecco cosa succede nel cervello. "Sugli aerei è colpa dell'anidride carbonica"
Un'equipe italiana ha utilizzato la risonanza magnetica per vedere le reazioni nei pazienti
Nei luoghi chiusi e affollati è l'aria povera di ossigeno la prima causa dell'ansia
ELENA DUSI

ROMA - Per trentasette milioni di italiani è tempo di vacanze. E per altri due milioni è tempo di paura. Paura di partire: di prendere l'aereo prima di tutto, ma anche l'auto, la metropolitana, la nave. Sotto sotto c'è il terrore di cambiare le proprie abitudini e le certezze quotidiane, atterrando per le vacanze in un luogo sconosciuto, senza punti di riferimento. La paura di andare in vacanza, per quanto assurda possa sembrare, non è che una delle manifestazioni del "disturbo da attacchi di panico", una sindrome di cui soffre il 3 per cento della popolazione, con le donne che due volte più numerose rispetto agli uomini.
Ansie create dal nulla? In realtà il cervello durante gli attacchi di paura vive degli sconvolgimenti profondi. «Si attivano aree come la regione frontale inferiore, il giro del cingolo e l'ippocampo» spiega Stefano Bastianello, direttore del servizio di neuroradiologia dell'università di Pavia, che è riuscito con i suoi colleghi a fotografare un attacco di panico nel cervello, usando la risonanza magnetica funzionale. «Per chi soffre di attacchi di panico non basta molto: è sufficiente pensare alla causa della propria paure, per esempio immaginare di dover prendere un aereo, ed ecco scatenarsi tutte le alterazioni anatomiche e psicologiche come ansia, mancanza di respiro, vertigini, dolori al petto, sudorazione e tremore. In una parola, si tratta di una sensazione di morte imminente». Ai volontari sottoposti alla risonanza magnetica sono state proposte esattamente le immagini dei loro incubi. Dopo di ché ai medici è bastato osservare la cascata di reazioni che si innescava nel cervello impaurito, con l'attivazione del cosiddetto "sistema limbico", una rete di aree cerebrali coinvolte nell'attacco.
La paura di andare in vacanza non è dunque pura invenzione. Rosario Sorrentino, neurologo dell'Unità italiana attacchi di panico della Paideia, è convinto che a giocare un ruolo chiave sia l'anidride carbonica, il gas "di scarico" che immettiamo nell'aria con l'espirazione. «In luoghi affollati e chiusi come ascensori e metropolitane. O in luoghi pressurizzati come all'interno di un aereo, le concentrazioni di questo gas assumono valori molto più alti del normale. Alcuni recettori del nostro cervello registrano la cattiva qualità dell'aria e lanciano l'allarme, un codice rosso istantaneo».
Chi, prima di partire, suda freddo e cerca scuse come «Non voglio lasciare solo il cane», «Non ho soldi» o «Mi sento poco bene, non vorrei ammalarmi proprio in viaggio» non è dunque in preda a una semplice fissazione. Né valgono i semplici consigli di "farsi coraggio". «Le paure di queste persone - prosegue Sorrentino - non sempre hanno a che fare con la sicurezza dei mezzi che prendono. Il timore riguarda piuttosto il dover rinunciare alla quotidianità, ai riti che danno certezza. Si teme di andare verso l'ignoto, in luoghi dove non sarà garantita alcuna possibilità di fuga». Per scrollarsi di dosso questo disturbo si ricorre in genere ai farmaci a alla psicoterapia cognitivo-comportamentale. Anche se gli annunci di nuovi possibili attentati fanno il gioco di chi alle vacanze preferisce la tranquillizzante afa cittadina.

Tom Cruisese l'Apa se la prende tanto con uno di Scientology non sarà che ha la coda di paglia?

Reuters People, Tue June 28, 2005 8:14 AM GMT
Tom Cruise: "Psichiatria pseudoscienza", psichiatri insorgono

LOS ANGELES (Reuters) - L'American Psychiatric Association ha duramente criticato l'attore Tom Cruise, che in televisione ha definito la psichiatria una "pseudo-scienza" mettendo in discussione il valore dei farmaci antidepressivi.
"E' irresponsabile che il signor Cruise usi il tour pubblicitario del film per diffondere i sui personali punti di vista ideologici e dissuada le persone con problemi di salute mentale dall'usufruire delle cure di cui hanno bisogno", ha detto in una dichiarazione il presidente dell'Apa, dottor Steven Sharfstein.
Nel corso di interviste per promuovere il suo ultimo film, "La guerra dei mondi", Cruise ha parlato del suo profondo scetticismo sulla psichiatria per spiegare la sua fede negli insegnamenti della Chiesa di Scientology, fondata dallo scrittore di fantascienza L. Ron Hubbard.
In un'intervista venerdì scorso allo show di Nbc "Today", è stato chiesto a Cruise delle sue recenti critiche all'attrice Brooke Shields per aver rivelato di aver preso antidepressivi Paxil, per affrontare una depressione post parto.
"Prima di essere uno scientologista, non sono mai stato d'accordo con la psichiatria", ha detto Cruise. "E quando ho iniziato a studiare la storia della psichiatria, ho capito molto ma molto di più sul perchè non credo nella psicologia. ... E so che la psichiatria è una pseudo-scienza."
Contestando l'efficacia in genere degli antidepressivi, Cruise ha detto: "Tutto quel che fanno è mascherare il problema", ha aggiunto. "Non c'è nulla come uno squilibrio chimico".
Mentre il conduttore di "Today" Matt Lauer lo incalzava, l'attore 42enne ha ribattuto: "Qui sta il problema. Tu non conosci la storia della psichiatria. Io sì".
Nella sua replica l'Apa, che rappresenta circa 36.000 medici specializzati nella diagnosi e trattamento delle malattie mentali, ha contestato l'affermazione di Cruise secondo la quale la psichiatria non ha valore scientifico.
"Una ricerca rigorosa, resa pubblica e attentamente verificata ha dimostrato chiaramente che la cura (della malattia mentale) funziona", ha detto l'Apa. "E' una sfortuna che di fronte a questo rilevante progresso scientifico e clinico un piccolo gruppo di persone e gruppi insistano nel metterne in discussione la legittimità".

la pervicace lotta del Vaticano contro la sessualitàconfusa a bella posta con ciò che sessualità non è

L'Adige 29.6.05
CITTÀ DEL VATICANO:
Adulterio, masturbazione, fornicazione


CITTÀ DEL VATICANO - Adulterio, masturbazione, fornicazione, pornografia, prostituzione, stupro, atti omosessuali. Sono (n. 492) i «principali peccati contro la castità», espressione del «vizio della lussuria». Il Compendio del catechismo della Chiesa cattolica se ne occupa nel capitolo dedicato al sesto comandamento, che parte dall´affermazione che (n. 487) «Dio ha creato l´uomo maschio e femmina, con eguale dignità personale, e ha iscritto in lui la vocazione dell´amore e della comunione». Il Compendio afferma che le autorità civili «sono tenute a promuovere il rispetto della dignità della persona» (n. 494), «anche impedendo, con leggi adeguate, la diffusione delle suddette gravi offese alla castità, per proteggere soprattutto i minori e i più deboli». Il capitolo si occupa anche dell´amore coniugale «santificato dal sacramento del Matrimonio», i beni del quale sono (n. 495) «unità, fedeltà indissolubilità e apertura alla fecondità». Ad «offendere» la dignità del matrimonio sono (n. 502) «adulterio, divorzio, poligamia, incesto, libera unione (convivenza, concubinato), l´atto sessuale prima o al di fuori del matrimonio». Ma è l´apertura alla fecondità a prevedere particolari possibili «comportamenti immorali». Tali sono (n. 498) «ogni azione, come, per esempio la sterilizzazione diretta o la contraccezione, che, o in previsione dell´atto coniugale o nel suo compimento o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione». Sono immorali anche inseminazione e fecondazione artificiali, perché (n. 499) «dissociano la procreazione dall´atto con cui gli sposi si donano mutualmente, instaurando così un dominio della tecnica sull´origine e sul destino della persona umana». Inoltre l´inseminazione e la fecondazione eterologa «ledono il diritto del figlio a nascere da un padre e da una madre conosciuti da lui, legati tra loro dal matrimonio e aventi il diritto esclusivo a diventare genitori soltanto l´uno attraverso l´altro».

CITTÀ DEL VATICANO - Cerimonia nella Clementina con consegna delle copie ai fedeli. Appello a pregare anche in latino, la lingua dell´unità della Chiesa. Affidamento «ideale» del testo non solo ai credenti ma «a tutti gli uomini di buona volontà» che cercano «la verità». Il Papa ha solennizzato in ogni modo la presentazione del compendio del catechismo della chiesa cattolica, che riassume, senza modificare, nè aggiungere nè togliere nulla, il catechismo del ´92.
In 598 domande con le relative risposte il compendio espone ciò che la chiesa suggerisce ai fedeli per orientarne i comportamenti concreti in campo personale, sociale, sessuale. La forma dialogica è stata scelta per semplificare il testo, e la diffusione vuole essere popolare: il libro è stato diffuso in oltre 150.000 copie dell´edizione tascabile anche nei supermercati, autogrill, aeroporti. Nel compendio ci sono tutti i no della morale sessuale e c´è il richiamo ad ogni persona ad accettare la «propria identità sessuale», posto che «Dio ha creato l´uomo maschio e femmina».
Una ampia sezione è quella sui confini del non uccidere, viene ribadito il no della dottrina cattolica ad omicidio, aborto, distruzione di embrioni ed eutanasia, ma anche il no «pratico» alla pena di morte ed all´accanimento terapeutico. Sulla pena di morte, avendo presente la enciclica Evangelium vitae del ´94, quindi successiva al catechismo, il compendio riafferma che «oggi, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte "sono ormai molto rari se non addirittura praticamente inesistenti"».
La dottrina sociale della chiesa viene ribadita sui temi del lavoro e dell´economia. Si afferma che la pace «non è solo assenza di guerra», e il dovere di tutti di contribuire alla pace nel mondo, si condanna il mercato incontrollato delle armi, si ribadiscono le condizioni per l´uso internazionale della forza militare. L´inferno c´è, riafferma il compendio, e la pena maggiore è la «lontananza eterna da Dio». E ci sarà il giudizio finale, alla fine del mondo, «di cui solo Dio conosce il giorno e l´ora». Si stigmatizza inoltre il «culto del corpo e gli eccessi» salutistici.
Il testo è diviso in quattro sezioni e ha un´ appendice con le preghiere comuni. Le quattro sezioni riguardano: La professione della fede, La celebrazione del mistero cristiano, La vita in Cristo e La preghiera cristiana. Voluto da papa Wojtyla, che affidò la direzione dei lavori all´allora cardinale Joseph Ratzinger, il compendio è preceduto da un Motu proprio di Ratzinger divenuto Benedetto XVI, che spiega genesi e scopi del documento. Il segretario della Congregazione per la dottrina della fede mons.
Angelo Amato spiega che il compendio intende anche «risvegliare l´interesse dei fedeli» per la dottrina e vuole essere un «utile sussidio per soddisfare la fame di verità soprattutto dei giovani», per questo suggerisce di diffonderlo soprattutto alla Gmg di Colonia, il prossimo agosto.
Nel compendio c´è anche uno spiacevole errore: papa Wojtyla viene definito di «venerata memoria», cioè considerato morto, in una introduzione datata 20 marzo 2005, quando era ancora vivo. Giovanni Paolo II infatti è morto il 2 aprile alle 21,37.
L´errore ha una spiegazione abbastanza semplice: l´introduzione del 20 marzo è quella in cui il cardinale Joseph Ratzinger, capo della commissione per la stesura del compendio, spiega la genesi del testo. Una volta divenuto Papa, nella stesura definitiva qualche estensore zelante deve aver aggiunto «di venerata memoria» alla citazione di papa Wojtyla quale «committente» del compendio, senza rendersi conto che in quella data Giovanni Paolo II era ancora vivo. È sicuro che il Vaticano si è accorto dell´errore, perchè «di venerata memoria» è stato cancellato nella introduzione su carta diffusa ai giornalisti, ma cancellarlo dalle centinaia di migliaia di copie in circolazione evidentemente è risultato antieconomico.

martedì 28 giugno 2005

Spagnala radicalità paga

In Spagna il partito socialista di Zapatero ha vinto le elezioni in Galizia, da sempre feudo del partito popolare e della destra post-franchista

storiai Celti

Corriere della Sera 28.6.05
Il segreto dei Celti, popolo misterioso
Non ebbero mai un vero regno e vissero divisi in clan. Eppure sconfissero Roma La religione impediva loro di scrivere: la loro storia fu tramandata solo oralmente


Ci sono cose che arrivano sino a noi percorrendo il passato con la stessa energia con cui s’imprimono nella nostra immaginazione. Sappiamo anche che ci sopravvivranno, dimostrando di possedere un segreto talmente potente da superare la barriera millenaria degli anni. I Celti sono una di queste cose. Il popolo più antico nel quale gli europei possano rispecchiarsi appare una definizione quanto mai attuale in tempi d’Europa unita. Il loro nome deriva da Keltoi , accezione greca della parola celtica che significa «popolo segreto» e appare per la prima volta negli scritti del geografo Ecateo, verso il 500 a.C. Poiché per volontà religiosa la scrittura era proibita, buona parte della loro storia è stata tramandata oralmente e rimane per molti versi misteriosa. Capitolarono nel 51 d.C., con la resa di Caratacos all’imperatore Claudio. Questa la versione storica; quella popolare più romantica coincide con la morte di Re Artù sull’isola di Avalon.
A differenza di Egizi, Greci e Romani, i Keltoi non ebbero mai un regno, coabitando per migliaia d’anni accomunati da usi, costumi e incantesimi simili tra i vari clan, o tùath , o tribù. Quest’etnia di probabile matrice indoeuropea, si espanse dalla Scozia alle coste di Cartagine, dalla Galizia spagnola all’Ungheria, dalla Bretagna francese alla Galazia turca. Tutto ciò quando Roma era ancora un’accozzaglia di capanne di poveri pastori. Quella stessa Roma imperiale che i Celti conquistarono nel 390 a.C., all’epoca del massimo splendore militare, nell’episodio più clamoroso della loro storia. In una disputa tra nobili etruschi, venne assoldato un esercito di Celti capitanato da tale Brennos per espugnare Chiusi, a soli tre giorni di marcia da Roma. Con un simile pericolo alle porte vennero inviati quattromila uomini al comando di Quinto Sulpicio per respingere i Celti. Brennos lasciò perdere Chiusi e mosse incontro al nuovo nemico battendolo sull’Allia, un torrente a undici miglia dalla città. Roma era in preda al panico. I suoi occupanti si trincerarono sulla collina del Campidoglio mentre Brennos e il suo esercito avanzavano per le vie sino al Foro, dando inizio al saccheggio per il bottino di guerra. La rocca con i romani asserragliati aveva un punto debole: un accesso segreto che Brennos scoprì assaltandolo nel modo più silenzioso possibile. Fu allora che i difensori non si fecero sorprendere grazie allo starnazzare delle famose oche sacre del tempio che diedero l’allarme a differenza dei cani da guardia. L’assedio si prolungò per sei mesi, poi vennero aperti i negoziati: Roma avrebbe pagato l’equivalente di mille libbre d’oro. Nella contestazione che ne seguì per il prezzo esorbitante, fu Brennos a gettare sulla bilancia la propria pesante spada declamando la famosa frase citata da Livio: «Vae Victis! Guai ai vinti!».
Oltre a non scrivere niente, avevano parecchie altre brutte abitudini. Platone nelle Leggi li dipinge come razza avvinazzata e attaccabrighe e, dopo il saccheggio di Delfi, li descrive in atti di barbara ferocia. Poiché nella testa albergava l’anima, la mozzavano volentieri ai nemici per assimilarne il coraggio, esibendola in battaglia appesa al morso dei cavalli. Tenevano in gran conto l’ardimento incaricando i druidi di ogni villaggio di preparare beveraggi corroboranti che stimolassero un cieco furore in battaglia; chi non rammenta la magica pozione del fumettistico Panoramix? Un banale errore nella gerarchia dei posti alla tavola dei guerrieri andava lavato nel sangue, col risultato che spesso ne falcidiava più la spada per simili duelli che non le già frequenti battaglie fra clan o le malattie epidemiche. Superstiziosi e smargiassi, gran bevitori amanti delle abbuffate e delle sfide di forza, vennero persino accusati di praticare sacrifici umani.
Per contro Eforo ne traccia un ritratto poetico e lo storico Ellanico di Mitilene li definisce «popolo giusto e retto». Il coraggio li rendeva guerrieri di prim’ordine, con una fama apprezzata da Etruschi, Cartaginesi e persino faraoni tolemaici che li schierarono fra le file dei propri eserciti come mercenari. L’onore imponeva loro di darsi la morte piuttosto che accettare la sconfitta; i Romani stessi tributarono a questa fermezza la nota statua del Galata morente , oggi conservata nei Musei capitolini. Credevano nella reincarnazione dopo un periodo di canti e duelli, fuochi ruggenti e idromele a fiumi nell’Aldilà ultraterreno. Contemplavano il divorzio e la donna godeva di pari diritti dell’uomo: se meritevole poteva condurre un intero clan, come fu per la regina degli Iceni, Boudicca, immortalata su un cocchio marmoreo a Londra. Amanti della musica di arpa e flauto, lira, corni e tamburi, erano abili poeti e cantori di fatti e leggende con poemi composti dai bardi. La loro astronomia contiene intuizioni che stupiscono ancor oggi mentre cromlech megalitici come la celebrata Stonehenge restano un inno alle capacità costruttive dell’uomo di allora.
Rinomati artigiani di tessitura e tintura nonché pregevoli orafi, la recente mostra di Palazzo Grassi a Venezia ha contribuito a riscoprirli come popolo sensibile e creativo che ha loro valso l’appellativo di «nobili selvaggi» dediti all’arte e al culto della natura. Halloween, Calendimaggio, Ferragosto e la Candelora sono solo esempi del retaggio celtico che ci coinvolge ancora oggi. Nelle vicende di casa nostra dobbiamo a un nobile dei Galli Biturigi la fondazione di Milano al centro del territorio degli Insubri; Mediolano significa infatti «al centro della pianura» e - secondo la leggenda - il celta vi sarebbe giunto al seguito d’una scrofa semilanuta , ossia una femmina di cinghiale ancora oggi visibile in un bassorilievo sul Palazzo della Ragione in piazza Mercanti.
Combattendo disuniti, vennero sconfitti dall’efficiente macchina da guerra romana. A quel punto iniziò l’oblìo della magia e dei riti dei druidi: a grandi passi s’avvicinava l’Era Cristiana. Rispetto ai loro parenti continentali, i ceppi isolani britannici ed irlandesi sono oggi i principali custodi di miti e leggende, idiomi e tradizioni celtiche poiché non subirono influenze culturali pressanti. È a costoro che va chiesto perché i Celti siano stati riscoperti così ampiamente. Vi risponderanno che hanno percorso tutto il cammino della storia recando un messaggio naturalistico e spirituale profondamente positivo. Che possano incedere ancora per molto tempo.

psichiatri americanidepressione e insonnia

Le Scienze 28.06.2005
Il legame fra depressione e insonnia
Il sonno potrebbe rivelarsi un potenziale trattamento per alcuni disturbi psichici

Due studi di Michael Perlis dell’Università di Rochester e colleghi hanno rivelato che l’insonnia, ben lungi da essere un semplice sintomo o effetto collaterale della depressione, potrebbe invece precederla e rendere alcuni pazienti più suscettibili ad ammalarsi mentalmente. Una delle due ricerche è stata presentata al 19esimo convegno annuale dell’Association of Professional Sleep Societies (APSS) a Denver, l’altra verrà pubblicata sulla rivista “Journal of Behavioral Sleep Medicine”.
Recentemente i ricercatori hanno determinato che l’insonnia e la depressione sono collegate, ma non avevano ancora capito quale delle due condizioni venisse prima. Molti esperti ritenevano che la depressione causasse l’insonnia, fino a quando non sono stati sviluppati farmaci che migliorano i casi di depressione ma non l’insonnia. L’ipotesi che quest’ultima possa contribuire o addirittura preannunciare la depressione ha così guadagnato credito.
Lo studio presentato all’APSS è il primo a mostrare che l’insonnia prolunga i periodi di tristezza, disperazione e perdita di interesse nelle attività quotidiane che caratterizzano la depressione, rendendo più difficile la guarigione ai pazienti. In particolare, lo studio ha rivelato che i pazienti depressi che soffrivano di insonnia avevano 11 volte più probabilità di essere ancora depressi dopo sei mesi rispetto ai pazienti che invece dormivano regolarmente, e 17 volte più probabilità di essere ancora malati dopo un anno. I dati sono stati tratti dal progetto IMPACT, uno studio sulla depressione in tarda età.
Nella seconda ricerca, Perlis e colleghi hanno scoperto che i pazienti con insonnia (e nessun caso precedente di depressione) hanno sei volte più probabilità di sperimentare un primo episodio di depressione rispetto agli individui che non soffrono di insonnia. Il rischio risulta particolarmente elevato per le donne anziane.

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Brasile e lotta contro l'AIDS

inviato da Francesco Troccoli

aboutpharma.it

"Il Brasile minaccia di violare il brevetto dei farmaci anti-AIDS"
(Il Sole 24 Ore: pag. 6, Corriere della Sera: pag. 18, Il Messaggero: pag.
17, la Repubblica: pag. 22 - 26 giugno 2005)


Il Governo brasiliano minaccia di violare il brevetto di Kaletra, farmaco
anti AIDS, se la casa produttrice Abbott non accetterà di abbassare il
prezzo. Il Brasile realizzarà quindi il medicinale, entro un anno, nel
laboratorio statale Farmanguinhos della Fondazione Oswaldo Cruz di Rio de Janerio. Il farmaco costerà quasi la metà: 68 centesimi di dollaro, rispetto a 1,17 dollari. Trattative analaghe sono previste anche per efavirenz (Merck Sharp & Dohme) e tenofovir (Gilead). Le due società americane, a differenza di Abbott, sembrano propense a cedere alla proposta del Governo brasiliano.
http://www.aboutpharma.it/notizia.asp?id=8727
http://www.aboutpharma.it/notizia.asp?id=8727

cattolici ladricon la complicità del governo

una segnalazione di Claudia Calesini

L'Unità 26 Giugno 2005
L’8 per mille «poco caritatevole» della Chiesa
Alla Cei per il 2004 sono andati 960 milioni di euro, grazie all’«astensione» degli italiani
Solo il 20% va ad opere di bene. L’introito cresciuto di 160 milioni tra il 2001 e il 2002
di Fabio Amato / Roma

PIÙ DI 960 MILIONI DI EURO È il montepremi che la Chiesa ha incassato nel 2004 grazie al meccanismo di ripartizione dell’otto per mille. Un montepremi in costante aumento, ma che dedica agli interventi caritativi una quota inferiore al 20%. Una cifra che rappresenta il risultato delle scelte di quel 65% di italiani che ogni anno lascia in bianco la casella dell’otto per mille. La «scelta non espressa» infatti, non implica la destinazione diretta all’erario della quota Irpef, come sarebbe lecito aspettarsi in uno Stato laico. Al contrario, questi soldi finiscono in massima parte alla chiesa cattolica. Come questo sia possibile è la legge 222/85 a stabilirlo, all’articolo 47. «In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti - recita il testo - la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse». Una specie di sistema elettorale proporzionale con un lauto premio di maggioranza, in cui la preferenza di tre votanti su dieci - la quota di astensione è salita in dieci anni dal 55 al 64% - decide anche per gli altri sette. Così facendo nell’anno 2000 (redditi ‘99), ultimo di cui si conosce l’esatta ripartizione percentuale dei fondi dato il ritardo nella produzione dei dati, la chiesa cattolica ottenne l’87% del totale: un assegno da 755 milioni di euro. A tutti gli altri, tranne lo Stato che partecipò alla torta per un marginale ma sostanzioso 10%, andarono solo le briciole, anche in virtù degli accordi successivi alla legge che escludono le congregazioni minori dalla ripartizione delle preferenze inespresse. Ma questa non fu l’esatta volontà dei cittadini contribuenti. Non proprio almeno: solo il 38% di essi mise la propria firma nel riquadro, e ciò significa che solo il 33% dell’universo dei contribuenti Irpef scelse di devolvere i propri soldi alla Chiesa. Questa, a rigor di logica, avrebbe perciò dovuto ottenere ‘solo’ 287 milioni di euro. Gli altri 500 milioni sono il premio di maggioranza di due misere righe di testo di legge, la cui conoscenza meglio dovrebbe essere garantita.
Al contrario, a fronte delle 56 pagine di istruzioni per il solo modello 730, per ritrovare l’argomento «ripartizione» bisogna cercare una riga e mezza del secondo capoverso di pagina otto, senza peraltro che dal modello alle istruzioni ci sia alcuna nota che segnala l’inghippo. A completare l’universo fiscale sopracitato ci sono poi i lavoratori dipendenti, che godono di un bonus di scomodità nel far valere la propria intenzione. Questi, infatti, hanno sì la possibilità di esprimere la preferenza sull’otto per mille, ma per renderla valida devono compilare e spedire l’apposito tagliando contenuto nel Cud.
A beneficiare della complicazione sarà perciò sempre e comunque chi può contare sulla guida di una fede che muova la penna, cioè la Chiesa. A guardare la tendenza, infatti, si scopre che i 755 milioni stanziati nell’anno 2000 sono diventati 908 nel 2002, un miliardo di euro nel 2003, 936 milioni nel 2004, e quest’anno - resoconto dell’assemblea generale della Cei alla mano - la quota dovrebbe avvicinare nuovamente la soglia del miliardo di euro. Cifre a cui, in realtà, corrispondono spostamenti nelle scelte dell’ordine di uno o due punti percentuali, come ha sottolineato Paolo Naso, della Tavola Valdese, ricordando anche la differenza di trattamento per cui «la chiesa cattolica viene informata ogni anno della quota percepita, mentre a noi dicono adesso quello che ci spettava nel 2000». Una vera e propria miniera d’oro, quella gestita dai vescovi, che ha portato le casse della conferenza episcopale italiana a vantare un ‘residuo’ di 79 milioni di euro nell’esercizio 2003 e un totale di 936 milioni di euro del bilancio 2004, di cui solo 180 milioni però, destinati alle opere di carità. Niente di male, sia chiaro, nel sostenere la chiesa cattolica, ma, a voler entrare nello specifico, l’incremento dei fondi è a dir poco singolare. È l’opinione dei Radicali, che più volte hanno parlato di «sistema truffaldino». In particolare, è il passaggio fra il 2001 e il 2002 a destare l’attenzione maggiore, con un aumento dei fondi stanziati da 762 a 908 milioni di euro. Una maggiorazione vicina al 20% in un solo anno, difficilmente spiegabile, anche volendo sommare l’aumento del gettito fiscale all’effetto prodotto dalla riduzione delle firme.
Difficile avere conferma della posizione ufficiale, rappresentata dalla segretaria della commissione per l’otto per mille, la dottoressa Anna Nardini, secondo la quale «l’incremento si deve all’aumentato gettito Irpef», poichè i documenti amministrativi prodotti da questa commissione non sono pubblici. Dal marzo 2004 giace infatti inevasa una domanda di accesso presentata dai Radicali italiani, tuttora bloccata in attesa di sentenza del Tar di fronte al diniego del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Scettici sulla conclusione gli stessi Radicali, per voce di Marco Staderini, secondo il quale è «l’Avvocatura dello Stato ha ricevuto forti pressioni perchè lavorasse ad un esito favorevole».
La soluzione migliore resta allora quella di prendere la calcolatrice e cercare di verificare se la concomitante diminuzione delle quote espresse e l’aumento tra queste delle preferenze alla chiesa cattolica sia un motivo sufficiente a giustificare gli aumenti. Ammesso che sia possibile riuscirci, per garantire la trasparenza del sistema sarebbe sufficiente apporre una firma.

a Roma: cento anni di cinema cinesegrazie a Marco Muller

Adnkronos 28.6.05
MOSTRE: ROMA, I CENTO ANNI DEL CINEMA CINESE AL VITTORIANO
ESPOSTI MANIFESTI CHE RACCONTANO VICENDE ARTISTICHE E SOCIALI

Roma, 28 giu. (Adnkronos Cultura) - In occasione dei festeggiamenti per il centenario del cinema cinese, il Complesso del Vittoriano di Roma ospita la mostra “Cento anni di cinema cinese 1905 – 2005. Ombre Elettriche”, a cura di Marco Müller, direttore della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, e Alessandro Nicosia, presidente di Comunicare Organizzando. La storia del cinema orientale è narrata attraverso gli oltre 250 manifesti pubblicitari originali provenienti dall’archivio Nazionale del Cinema di Pechino e dallo “Shangay Film Group” di Shangay, che potranno essere ammirati da domani al 24 luglio, tutti i giorni, dalle ore 10 alle 19.

“Siamo molto orgogliosi di ospitare questa originale mostra al Complesso del Vittoriano – ha dichiarato Alessandro Nicosia, nel corso della conferenza stampa tenutasi oggi presso il Complesso del Vittoriano – per la quale abbiamo scelto il linguaggio del manifesto pubblicitario, con tutto il suo valore storico e sociale. Manifesti estremamente vitali questi del cinema cinese, che ben rispondono all’intento portato avanti dal Vittoriano: diffondere un messaggio culturale di alto valore artistico, ma sempre popolare”.

Cento anni di cinema cinese, dunque: una storia che inizia nel 1902, quando il cinematografo arriva a Pechino, e nel 1905, quando viene creata, nella stessa città, la prima sala cinematografica stabile, il Daguan Iou. Nel 1919, a Shangay viene costruito il primo teatro di posa che garantisce un ritmo regolare alla produzione, attingendo alle fonti della letteratura fantastica, dei romanzi cavallereschi, dei libretti di cantastorie e di teatro. La prima major è del 1922, la Mingxing, attraverso la quale la produzione si indirizza verso il rifacimento dei successi hollywoodiani, di derivazione letteraria o ispirati al teatro borghese. Nasce il film cinese “di cappa e spada”, o “dei cavalieri erranti”, come lo definisce Müller. Tra 1928 e 1931 esplode il genere “arti marziali”, un ibrido tra western, film del mistero, commedia sentimentale. Alla fine del 1932 si costituisce alla Mingxing un comitato di sviluppo delle sceneggiature che rispecchia la volontà del “gruppo cinema” del Partito Comunista, deciso ad impadronirsi di quella che veniva considerata “l’arma ideologica più acuminata”.

I film che si realizzano in questo periodo sono opere d’impianto naturalistico, che raccontano le contraddizioni degli strati più poveri della società cinese, sia in città che nelle campagne. L’occupazione militare nipponica, iniziata a Shangay nel 1937, genera invece film che fanno appello alla mobilitazione antigiapponese: film bellici o polizieschi che raccomandano la vigilanza contro spie e collaborazionisti. Con la Repubblica Popolare Cinese (1949 – 1965), uno dei primi gesti del nuovo governo in materia di politica cinematografica è quello di chiedere a produttori e registi un nuovo finale, teso verso un futuro radioso e ottimistico: il cinema deve assolvere ad una funzione pedagogica, tipica dell’arte di regime, illustrare il senso delle campagne politiche e mostrare alle nuove generazioni gli orrori degli anni della schiavitù. Il dettato maoista è imperativo. È negli anni Ottanta che i classici vengono riadattati e nasce la mitologia “kung-fu nazional-rivoluzionaria”, fino ad arrivare agli esperimenti delle ultime due generazioni di registi, le cosiddette “Quinta Generazione” e “Sesta generazione”.

Questa appassionante storia, e il suo intrecciarsi con le vicende culturali e politiche del paese e con il mutamento della società cinese, viene ricostruita attraverso i manifesti che tracciano le tappe fondamentali del cinema e dei suoi vari generi: dai film popolari ai film di guerra e di avventure partigiane, dai musical ai film di propaganda. Il manifesto, infatti, come prima forma di messaggio pubblicitario, assolve a diverse funzioni, permettendo di contestualizzare, attraverso immagini, colori e segni linguistici, momenti ed epoche precise. I manifesti, scelti personalmente da Marco Müller, colpiscono per la loro ricchezza pittorica, per la forza dei colori e quella interpretativa, mentre gli elementi estetici offrono uno straordinario quadro d’insieme che traccia i cento anni della storia che accompagna il cinema cinese, consentendo la lettura dei mutamenti recenti e contemporanei. “L’Italia è stata al centro della riscoperta del cinema cinese – ha dichiarato Marco Müller - a partire dalla grande retrospettiva torinese ‘Ombre elettriche’ del 1981 fino ad arrivare a oggi, con questo evento organizzato per festeggiare il centenario del cinema cinese. Il legame tra Italia e Cina, che sta dando risultati fruttuosi nel restauro della Grande Muraglia e della Città Proibita, prosegue idealmente nell’opera della Biennale di Venezia e della Mostra del Cinema che si stanno occupando del restauro di dodici capolavori della cinematografia cinese.”

Contemporaneamente alla mostra, il Nuovo Cinema Olimpia di Roma organizza la rassegna cinematografica che prevede la proiezione di film classici e recenti del cinema cinese. La rassegna cinematografica vedrà la proiezione di una ventina di film tra i capolavori più o meno noti della cinematografia cinese: si inizia domani con “Li Shizhen” di Shen Fu e si concluderà l’8 luglio con “L’Oriente è rosso” di Wang Ping, con un programma che prevede quattro proiezioni al giorno, a partire dalle ore 16.30 e che passa attraverso opere quali “Sbocciano i gelsomini” di Shou Yong, “Il borgo dell’ibisco” di Xie Jin, “Diciassette anni” di Zhang Yuan. Di sei tra i film proiettati, l’Istituto Luce ha acquistato i diritti per immetterli nel mercato in un prestigioso cofanetto che li ripropone nella versione originale sottotitolata e masterizzata per dare una grande lezione di cinema.