lunedì 31 maggio 2004

contestazione del linguaggio razionale nel mondo vittorianoAlice, di Lewis Carroll

La Stampa 31.5.04 - 31 Maggio 2004

IL CAPOLAVORO DI LEWIS CARROLL

In viaggio con Alice nel paese del nonsense


Esperto di matematica e di scienze occulte, lo scrittore racconta una favola per mettere in discussione il linguaggio

di Claudio Gorlier




UN viaggio nel nonsense, è stato definito Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, apparso nel 1855. Nonsense è una parola intraducibile, a indicare il controsenso, l’assurdità, l’illogico. Nella letteratura inglese costituisce un vero e proprio genere, un filone soprattutto in versi, di cui è autore proverbiale e celebrato Edward Lear. Con Alice, Carroll seppe portarlo ai vertici, creando un libro assolutamente unico, una riuscita e un modello senza pari.

Carroll era lo pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, un signore timido, afflitto da balbuzie, modesto diacono e professore a Oxford, amico del poeta Alfred Tennyson. Aspetto non trascurabile della sua personalità, Carroll eccelleva nella matematica, ma si interessava pure alle scienze occulte. Ci racconta egli stesso che, nel 1832, raccontò a una fanciullina, figlia di amici, «una storia fantastica» da lui scritta. La ragazzina ne fu entusiasta, e lo incoraggiò a pubblicarla.

Ora, il passaggio tra la realtà quotidiana e il fantastico scatta, all’inizio, proprio mentre la protagonista «moriva di noia» sbirciando il libro che stava leggendo la sorella, senza «figure né dialoghi», e pensando che non serve a nulla un libro senza figure né dialoghi. Proprio allora sbuca un coniglio davvero singolare, visto che estrae un orologio dal taschino del panciotto. Il coniglio «bianco dagli occhi rosa» mormora «Ohimè! Ohimè! Farò tardi, troppo tardi!».

Su questo primo, sbalorditivo episodio, i critici si sono sbizzarriti: non stupitevi, Alice è stata sottoposta a una valanga di interpretazioni. Dunque: il coniglio simboleggerebbe l’urgenza del tempo per così dire industriale. In piena età vittoriana, non esiste più tempo libero: bisogna investirlo per lavorare, per produrre. Ma quello che conta riguarda l’iniziativa di Alice, che segue il coniglio nella sua tana, letteralmente sprofondando in un mondo altro, del tutto surreale, il paese delle meraviglie, del fantastico, ove l’incredibile si trasforma in concreta realtà. Intanto, ad Alice si allunga innaturalmente il collo, mentre la caduta non sembra mai avere fine, magari fino al centro del mondo, riflette Alice, diligente studentessa.

Il nonsense acquista la dimensione della favola, in una cultura come quella inglese, curiosamente scarsa di tradizione favolistica in senso stretto, anche se annovera, per fare un caso lampante, gli swiftiani Viaggi di Gulliver. Il libro si popola di animali parlanti, ciascuno con caratteristiche assai peculiari. Ad esempio il Topo, di considerevoli dimensioni, si rivela una sorta di professore, e impartisce agli altri una pedante lezione di storia inglese; il Gatto del Cheshire, regione nota per i suoi felini, ovviamente detestato dal Topo, si distingue per la sua capacità di fare ampi sorrisi. Ognuno dei numerosi animali possiede una definita, spesso imprevedibile, personalità.

Si afferra qui un altro degli aspetti fondamentali del nonsense di Carroll, vale a dire il perenne gioco sul linguaggio in prosa e in versi, messo continuamente in discussione, non meno del modo di ragionare. Ad esempio il Gatto spiega, che, al contrario di un cane, lui ringhia quando è contento e dimena la coda quando è arrabbiato. «Perciò», aggiunge, «io sono matto». Come si vede, Carroll introduce la categoria della follia per spezzare la concezione del mondo come razionalità. Il Cappellaio, una delle poche apparizioni di tipo umano che compaiono in Alice è, per definizione, Matto. E si trova perfettamente a suo agio con il Leprotto Marzolino e il Ghiro, tanto da prendere il tè con loro. Se rimanessero dei dubbi, è stato proprio il Gatto a scioglierli: «Siamo tutti matti qui. Io sono matto. Tu sei matta... Devi esserlo, altrimenti non saresti venuta qui».

La razionalità si esprime in un suo linguaggio, e allora Carroll scompagina il linguaggio, smonta i meccanismi verbali. In una simile prospettiva, acquista una particolare importanza la reversione, alimentata spesso dagli indovinelli. Ecco, ad esempio, il Cappellaio domandare ad Alice perché un corvo assomiglia a una scrivania. Lei pensa di saper rispondere, ma Cappellaio e Leprotto la mettono in guardia, chiarendo che non si dice necessariamente ciò che si intende dire, e viceversa. Altrimenti, dire «Vedo ciò che mangio» è la stessa cosa che dire «Mangio quello che vedo». Il gioco linguistico, lo stravolgimento del banale significato, non si arresta più.

Per chiudere il cerchio, si arriva alla suprema autorità, la Regina e il Re. La Regina è autoritaria e crudele: vorrebbe far tagliare la testa a tutti quelli che le stanno antipatici. Il Re, bonario e legalitario, si appella al verdetto. Qui l’ironia di Carroll tocca il vertice, poiché il suo rifiuto dell’autorità, oltre che il suo noto antifemminismo, che privilegia le adolescenti, opera l’ultimo colpo di scena. I due monarchi sono Regina di Cuori e Re di Cuori. «Un mazzo di carte!» esclama sollevata Alice. Il mazzo di carte vola via, e Alice si risveglia da quello che le è sembrato un sogno, come spiega alla sorella. Qui sopravviene l’interpretazione che ha preso corpo nel Novecento, quella freudiana. Ma si tratta di una semplificazione, e lo dicevo a proposito della fretta del Coniglio. Che Alice abbia viaggiato nel subconscio, si può lecitamente accettare, ma è riduttivo a fronte della complessità del libro. La favola, intanto, resiste in quanto tale. In secondo luogo, più di un critico ha giustamente sottolineato che Carroll, nel montare il suo nonsense, si attiene a una logica interna, una logica matematica, anticipando postulazioni novecentesche.

Ancora: che cosa intende Carroll quando, negli ultimi capoversi, scrive che la sorellina, a sua volta, ha imparato a sognare e sa che, se riaprisse gli occhi, si ritroverebbe nell’«opaca realtà di sempre»? Più di un commentatore ha affermato che Carroll, a somiglianza del radicale Thomas Carlyle, esprimeva la sua inquietudine di fronte alla crisi del rapporto tra individuo e società. La sua Alice che qualcuno esagerando ha paragonato alla Lolita di Nabokov, cerca di superare quella inquietudine. Ma il timido Carroll-Dodgson, morto nel 1898, non era un rivoluzionario, e riporta Alice nell’«opaca realtà». Salvo concederle una nuova fuga con Attraverso lo specchio, l’altro suo capolavoro, con almeno tre personaggi divenuti proverbiali, si tratta di Humpty Dumpty, mezzo umano e mezzo uovo simbolo dell’equilibrio instabile a livello esistenziale e espressivo e della coppia Tuidoldàm Tuidoldii, gli ometti che incarnano la fraterna contraddizione. Si può ancora sognare.