domenica 30 maggio 2004

su L'espresso in edicola:colloquio con Marco Bellocchio

una segnalazione di Dina Battioni



L’Espresso n.22 anno L, in edicola

Cultura

Ciak, è tornata l’avanguardia


“Dopo Mezzanotte”, “Radio West”, “La spettatrice.

Il cinema italiano riscopre il film d’autore.

E il regista dei “Pugni in tasca” l’analizza e gli dà le pagelle

colloquio con Marco Bellocchio di Alessandra Mammì




Sì. Qualcosa è cambiato. All’improvviso è scomparso l’aggettivo carino che aveva invaso cronache e recensioni. Qualcosa è davvero cambiato nel nuovo cinema d’autore italiano. Se non altro siamo usciti dalla carineria...

Parola di Marco Bellocchio che non apprezza molto la “carineria”. Ma apprezza invece molte di quelle opere prime e seconde che hanno coniato un’altra definizione: la rinascita del film d’autore italiano. Opere a volte bizzarre, a volte a bassissimo budget, altre provocatorie. Piccoli film che conquistano il pubblico, trovano sale che li difendono e soprattutto raccontano storie nostre. Come la poetica cinefilia del guardiano del museo del cinema di Torino, una sorta di Quasimodo rinchiuso nella Mole Antonelliana ‘”Dopo Mezzanotte” di Davide Ferrario). L’incapacità di vivere di una giovane interprete (Adele H postmoderna più ossessione che passione) che segue da Torino a Milano un uomo visto da una finestra (“La spettatrice” di Paolo Franchi). Amori e rapine sullo sfondo di nordiche periferie marginali e multietniche (“A/R. Andata+ritorno” di Marco Ponti). O infine lo stordimento di una pattuglia di soldati italiani in Kosovo a cui sono state insegnate tutte le più avanzate tecniche belliche, ma niente della cultura del paese che dovrebbero pacificare. È “Radio West” di Alessandro Valori con Marco Bellocchio che firma la sceneggiatura insieme al regista e a Francesco Colangelo. Ordine alfabetico e il massimo dell’understatement.

Lo stesso che usa quando parla della sua scuola, sia quella che fa ogni estate a Bobbio sia i corsi più estemporanei qua e là per l’Italia, da cui nascono sempre cortometraggi realizzati insieme agli studenti. Laboratori che raccolgono giovani attori, aspiranti registi, apprendisti sceneggiatori, debuttanti direttori della fotografia.

Quindici giorni per “Fare cinema” accanto a un regista che si rifiuta di insegnare, ma preferisce far vedere quel che sa fare: un film. Non da solo. Perché a Bobbio sbarcano ogni anno giovani colleghi da Edoardo Winspeare a Ciprì e Maresco chiamati a lavorare in bottega. Perché forse è proprio da botteghe così che parte il Rinascimento del cinema italiano.



Professor Bellocchio...

«No, professore non lo sarò mai. Non sono portato».



E la scuola, gli allievi, i corsi ogni estate a Bobbio?

«Non è una scuola. È un lavoro pratico. Un tempo il cinema era arte elitaria, ora c’è un proliferare di questi corsi a ogni livello, europeo, regionale, cittadino. Evidentemente molti giovani vogliono farei registi. cosa misteriosa perché mi sembra che oggi riservi più gratificazioni partecipare a un reality show».



Non è stato sempre così diffuso tra i giovani l’amore per il cinema?

«Quando mi sono iscritto al Centro Sperimentale, tra cinema e televisione non c’era nessuna relazione. Il cinema aveva una totale autonomia tecnica ed economica. Fare film era un privilegio, un'arte aristocratica. Ora i confini tra cinema, tv, videoclip sono molto più labili. Le tecnologie si sono popolarizzate e tutti sono in grado di fare un film. Ho visto una trasmissione dove anonimi turisti mostravano filmini girati durante i viaggi. Era sorprendente quanto fossero tecnicamente corretti. Sapevano girare una scena e orientarsi nello spazio e nel tempo. Chiunque ha ormai una tale educazione all’immagine da poter prendere in mano una macchina da presa. O un telefono, visto che si fanno i film anche con il telefonino».



E allora cosa c’è da insegnare?

«Di certo non la tecnica. Quasi tutti i ragazzi che arrivano a frequentare un corso hanno già girato un loro piccolo film. Da questo punto di vista non ho nulla da insegnare. Quello che fa la differenza è lavorare in gruppo, partecipare alla ricerca di immagini originali. Uscire dalla superficialità televisiva e riflettere sull’immagine. Si è già cominciato a farlo, dopo anni di deserto in cui il cinema italiano si divideva tra film carini e la triste inclinazione a imitare i padri e i nonni. Ora invece vedo molti registi che seguono ricerche personali sperimentando modelli innovativi».



E quali fra questi giovani registi sono quelli che la interessano di più?

«Sicuramente Edoardo Winspeare, Matteo Garrone, Roberta Torre, Vincenzo Marra e soprattutto Ciprì e Maresco visivamente i più originali, capaci di utilizzare il cinema in modo più provocatorio. Ed è interessante il fatto che questi giovani autori riescano a conquistare il pubblico con tutti i rischi che questo comporta. Perché il successo di pubblico per un regista esordiente è sempre un rischio. Induce a ripetere il film e dunque a sbagliare. È difficile raddoppiare il successo e difendere al tempo stesso la propria strada, la propria fantasia, la propria immaginazione. Sono abbastanza cresciuto per aver visto passare nel nostro cinema decine di meteore, partite con grandi successi e subito scomparse. Non si deve mai dimenticare che la cosa più importante è la fedeltà alla propria identità artistica».



In tanto cambiamento tecnologico che ruolo ha svolto la tecnologia?

«Un ruolo rivoluzionario. Un tempo si diceva che essere registi significa trovare soldi. Ora questa moltiplicazione di film e di talenti è anche dovuta al fatto che si può girare in digitale senza pellicola, montare il film in casa, partecipare alle miriadi di festival dedicati ai video e corti. Essere in poche parole padrone dei propri mezzi di produzione. Fare un film diventa sempre più simile a fare musica riunendosi in cantina con una piccola band».



Ma bisogna anche avere buone storie. Uno dei difetti che è stato rimproverato al nostro cinema è di rinchiudersi nell’intimismo o nel minimalismo e non riuscire più a raccontare la realtà del paese.

«Questo non riguarda solo il cinema. La caduta catastrofica delle grandi utopie negli anni ‘70 e ‘80 ha fatto deserto della coscienza civile e dell’interesse per la storia. È stato il fallimento di un progetto, la morte di una parola fondamentale come trasformazione. Sono rimaste le parole d’ordine della religione: carità e assistenza. E oggi gli ex marxisti hanno solo la bandiera dell’assistenzialismo. La storia come trasformazione è scomparsa».



Eppure lei, in “Buongiorno, notte” racconta una dolorosa pagina della nostra storia

«Non solo io. I francesi si sono stupiti di rivedere dopo anni la storia italiana in film come il mio o come “La meglio gioventù” di Giordana. Ma anche “Caterina” di Virzì, sia pure con accenti leggeri ed evasivi, racconta l’attuale storia. Qualcosa, come ho già detto, sta cambiando».



Dalla storia ai classici. Nei corti realizzati con i suoi allievi ricorrono autori come Pascoli o Checov. Anche questo è un modo per allontanarsi dalla superficialità televisiva?

«Non è un passaggio obbligato leggere Checov, ma di certo aiuta a costruire la profondità di un’immagine. Drammi, tragedie, lieto fine sono sempre gli stessi. Io non so se un giovane sappia riconoscere nella rabbia dei “Pugni in tasca”la sua rabbia. Come non credo all’eternità delle passioni umane. Ma ci sono delle costanti che ci legano tanto alla Russia di Checov che alla Grecia di Eschilo, e che possiamo ritrovare nelle nostre vite. O nel nostro cinema».



Un corto lungo un festival



Dai corti alla celebrità. Così fu per l'utarchico Moretti con "Come parli frate2 e per l'anglo-salentino Winspeare che presentò la sua breve opera prima "A Toilet Short Story" al Festival Arcipelago nel 1989. Festival sui generis dedicato a film brevi e brevissimi che in sette giorni produceoltre 200 titoli firmati da studenti di scuole e corsi d'ogni pare d'Europa, più retrospettive e repêchage dei cordi esordi di registi dalla carriera lunghissima. Quest'anno, dal 4 al 10 giugno, nelle tre sale del cinema Intrastevere a Roma, Arcipelago presenterà sia i lavori della scuola di Bobbio di Bellocchio (con incontro con il regista l'8 giugno alle 18) sia i primi lavori e dolori del giovane Winspeare, ma soprattutto una panoramica dei talenti emergenti in Italia (sezione ConCorto), con tanto di premio offerto da Sky e due commossi omaggi: a jacques Tati e ai suoi imperdibili film brevi e a François Truffaut con l'intervista inedita per l'Italia girata nel 1971 dalla tv franco-canadese Radio Canada.