mercoledì 21 luglio 2004

«ve le spiego io»Umberto Galimberti su anoressia e bulimia

Repubblica 21.7.04

SE IL CIBO È UN DRAMMA

perché si soffre di anoressia e bulimia


L'imperativo di dovere essere magre a tutti i costi

Lo stallo di coppia e la crescita del figlio

Patologie che si incrociano non solo con la psicologia ma anche co la società e la famiglia

Colpiscono l'adolescenza e le donne Uno studio rileva perché il disturbo nasce a Occidente

di UMBERTO GALIMBERTI




Ogni tanto la psicologia ha un colpo d´ala. Esce dagli schemi interpretativi abituali e, senza il timore di rinnegare se stessa, sottrae l´individuo alla solitudine delle sue dinamiche interne, per collocarlo là dove vive: nella famiglia, nella società, nella cultura d´appartenenza, per ricavare da tutti questi scenari indicazioni sul suo disagio. Operazione complessa, che richiede molte competenze, ma soprattutto il coraggio di non limitarsi all´utilizzo di categorie psicologiche, ma di aprirsi alla sociologia, all´antropologia e soprattutto alla filosofia, che originariamente è nata, ce lo ricorda Aristotele, come ricerca della vita buona e della vita felice.

Per questo si distingue dai suoi simili il libro scritto da Luigi Onnis insieme ai suoi collaboratori del Dipartimento di Scienze psichiatriche dell´Università «La Sapienza» di Roma. Il tema è l´anoressia e la bulimia, la cui crescita esponenziale consente di considerare questo disturbo come una sorta di «epidemia sociale». Il titolo è Il tempo sospeso (Franco Angeli, pagg. 282, euro 24), una categoria dalla risonanza filosofica, che vuole segnalare nella nostra cultura il tentativo di congelare l´evolvere del tempo, che per l´individuo significa non crescere e, per la famiglia di appartenenza, non accettare le trasformazioni che al suo interno il tempo produce.

Ma incominciamo dalla cultura della nostra società dove il disturbo alimentare può essere considerato come una sorta di «disturbo etnico», dal momento che non si riscontra nelle altre parti del mondo dove il cibo non abbonda. Qui da noi, dove una pubblicità su due, è un invito a inghiottire, chi ha bisogno, per ragioni sue, di esprimere un rifiuto, che cosa prova di più facile che rifiutare il cibo? Questo rifiuto si accorda con l´altra metà degli spot pubblicitari che segnalano la magrezza, soprattutto femminile, come un imperativo categorico, non solo per ragioni di seduzione, ma soprattutto per ragioni di efficienza.

Nella nostra cultura, infatti, la donna è alla ricerca di una nuova identità e di una nuova relazione col maschile all´insegna dell´autonomia e dell´autorealizzazione che, nella cultura dominante dell´immagine, ha come suo primo segno il corpo asciutto ed efficiente, quella sorta di «bella presenza» che sembra un pre-requisito per il lavoro, senza di cui non si dà né autonomia, né autorealizzazione. E allora bisogna essere magre, come segno di autocontrollo, bisogna avere le epidermidi levigate in cui ogni traccia dello scorrere del tempo sia cancellata. Tutto ciò non è causa dell´anoressia o della bulimia di chi mangia e vomita, ma vi concorre. E non principalmente per ragioni di seduzione, lo ripetiamo, ma per ragioni di autonomia e di autorealizzazione, a cui tende la trasformazione della donna nelle civiltà evolute (e opulente).

Il secondo fattore che interviene a innescare comportamenti anoressici o bulimici è la «frattura adolescenziale» come la chiama Luigi Onnis con riferimento a quel processo di differenziazione e individuazione a cui ogni adolescente va incontro per diventare se stesso e autonomizzarsi nel e dal contesto familiare. Perché ciò avvenga è necessario che si inneschi quella dinamica del «rifiuto» che tutti i genitori, più o meno drammaticamente, conoscono nei processi di crescita dei loro figli.

Quando l´adolescente non ce la fa, o non gli è consentito dal contesto familiare percorrere questa tappa evolutiva del rifiuto per raggiungere la propria autonomia e indipendenza, ricorre, come tutti quelli che non ce la fanno, all´espediente della malattia e maschera nel rifiuto del cibo la sua incapacità a esprimere altrimenti il rifiuto. In questo modo, come sempre accade in ogni contorcimento della psiche, si ottiene l´effetto opposto, perché se il rifiuto è una tappa per diventare autonomi, il rifiuto del cibo, esaurendo il corpo, impedisce non solo ogni autonomia, ma anche il raggiungimento di quell´aspetto peculiare dell´identità che è la sessualità femminile, con conseguente compromissione di tutto il mondo delle relazioni.

Ancora una volta un «tempo sospeso» tra l´infanzia e l´età adulta. E siccome ogni disagio psichico, come insegna Freud, porta un vantaggio secondario, col rifiuto del cibo l´anoressica può da un lato soddisfare il bisogno adolescenziale di rifiuto del mondo genitoriale e soprattutto della madre (prima procacciatrice di cibo) e dall´altro non abbandonare il mondo dell´infanzia e i bisogni fusionali di dipendenza. Ma le tendenze sociali dominanti e i processi psichici individuali ancora non bastano a spiegare l´insorgenza e la diffusione dei disturbi alimentari. Bisogna anche dare un´occhiata al contesto familiare. E qui i ricercatori hanno riscontrato che le dinamiche familiari dove insorgono problemi di anoressia e bulimia sono intrusivi e protettivi, come se i genitori avessero difficoltà ad accettare i processi evolutivi dei loro figli, e quindi in qualche modo volessero fermare il loro tempo in quel «corpo familiare» in cui erano contenuti quando erano piccini.

Si tratta di famiglie in cui sembra che l´unico ideale sia quello di evitare i conflitti bloccando in questo modo, oltre all´esplicitazione del dissenso anche il processo di differenziazione e di individuazione. Evitare i conflitti non significa che non ci siano, semplicemente non vengono esplicitati. Si determina in questo modo quello che Selvini Palazzoli, la prima grande studiosa italiana dell´anoressia, chiamava «stallo di coppia», dove l´insoddisfazione reciproca dei genitori, non esplicitandosi, si manifesta in modo criptico e segreto, strumentalizzando la figlia («gioco di istigazione»), la quale ricorre all´espediente anoressico per rivendicare, sia pure in modo fallimentare, che non è «strumento», ma «persona».

Queste dinamiche non conflittuali, o dalla conflittualità segreta e nascosta sono frequenti nelle famiglie affette, per ragioni ideologiche o di potere o di salvaguardia della proprietà, da quello che Luigi Onnis chiama «mito dell´unità della famiglia», assunto come valore supremo da tutelare contro i «fantasmi di rottura» che potrebbero incrinare la propria ideologia, o avere effetti catastrofici sulla propria posizione di potere o sul proprio patrimonio. In queste famiglie, mi auguro inconsciamente, ce la si mette tutta per arrestare i processi psicodinamici dei figli, i cui spunti di individuazione sono vissuti come minacce irreparabili. Anche qui si assiste a un arresto del tempo, dove il vincolo a un mito che non si può infrangere ipostatizza la famiglia in un eterno presente che non concede evoluzioni, perché ogni processo di autonomia evoca l´angoscia della perdita.

Il libro di Onnis porta in apertura una bella citazione di Heidegger, il filosofo di Essere e tempo. Chissà se la filosofia non può essere d´aiuto alla psicologia quando questa, attenendosi all´ortodossia dei suoi strumenti, non riesce ad arrivare al fondo enigmatico e buio della nostra anima? Io penso assolutamente di sì, e sono contento che un gruppo di neuropsichiatri abbia imboccato con coraggio questa via, da cui la medicina è nata e poi, per ragioni di autonomia, ha disertato, dimenticando l´insegnamento di Ippocrate: «Il medico che è anche filosofo è pari a un Dio».