giovedì 30 settembre 2004

Bruno Accarino:sulla natura umana

Il manifesto 30 settembre 2004

I teologi del male assoluto

Gli attuali teorici del conservatorismo radicale propongono però una idea semplice della natura umana e interpretano il terrorismo alla luce di un'innata aggressività. Una spiegazione che si limita ad accumulare dati sulla crudeltà umana e che esprime indifferenza verso qualsiasi principio composito della realtà sociale

La spettacolarità e la gratuità di alcune esecuzioni in Iraq ripropongono il tema antico della malvagità o della bontà della «natura umana». Il pensiero classico conservatore più avvertito ha sempre messo l'accento sulla complessità dell'animale umano che non può rispecchiarsi nella linearità dei diritti sanciti dai moderni ordini costituzionali

di BRUNO ACCARINO



La ferocia di alcuni episodi recenti di guerra e di violenza politica rimettono in corsa il dibattito sulla natura umana - ed eventualmente sulla sua malvagità. Riprendono quota letture molto diffuse qualche anno fa (René Girard più che il giovane Walter Benjamin, il cui orizzonte di riflessione è politico-giuridico, ma non antropologico), magari colpevolmente accantonate. La spettacolarità e la gratuità di alcuni episodi sono fuori misura, anche se appare scontato che violenze altrettanto efferate non riescono a raggiungere la soglia di visibilità e di percezione e si perdono nel nulla innominato della storia dei vinti. Ma già Kant diceva: se si raccolgono i dati empirici della crudeltà umana o se si stila l'elenco delle guerre in corso, affidando loro una forza probatoria per la definizione del «male radicale», non ne usciamo, perché nemmeno dati empirici accatastati in abbondanza fanno una categoria. L'imponente mole di attestati della cosiddetta aggressività intraspecifica nel mondo animale è certamente preziosa in un certo settore di studi (etologico, poniamo), ma diventa sospetta quando pretende di attingere a generalizzazioni teoriche sulla presenza del male nel mondo. D'altra parte, potrebbero essere invocati anche documenti di segno diverso e opposto: in campo morale è dato riscontrare molti fenomeni di altruismo pacifico e soccorrevole, in campo biologico fenomeni che vengono anche definiti di mecenatismo (l'utero materno è, per esempio o forse per eccellenza, un mecenate della vita). Messa così, la questione rischia di diventare indecidibile o di non poter approdare alle sponde del pensiero politico: pur essendo inaggirabile sul piano scientifico, il pianeta dell'aggressività non può però essere forfettariamente richiamato per evitare la distribuzione delle responsabilità.



La politica dei parvenu



Più agevole è, almeno per il momento, un'altra traccia di discorso: se l'innata, o presunta tale, malvagità dell'uomo sia ancora un ingrediente indispensabile di costituzione e di autoidentificazione del conservatorismo moderno. Nelle tradizioni che contano, la domanda di ordine si accompagna alla concezione dell'uomo come di un essere in preda a passioni che violano anzitutto l'ordine divino. Tra la disposizione al peccato e il rifiuto dell'ordine esistente non c'è soluzione di continuità. Ma si può ragionevolmente sostenere che questo fortilizio sia stato ben presto disertato dal conservatorismo più consapevole; e che sia stato sostituito da una strategia teorica e pratica meno precaria e meno debitrice degli assetti religiosi, incentrata sulla complessità: è l'articolazione stessa dell'esistente, è il groviglio del reale che si incarica di dissuadere i malintenzionati dal progettare mutamenti radicali.

Il pagliettismo macchiettistico di Berlusconi e la ruvidezza dei leghisti sono in questo senso fuorvianti: il conservatorismo classico ha spesso, forse sempre e obbligatoriamente, una componente plebea, ma i suoi esponenti si profilano come portatori di un sacrosanto scatto di insofferenza nei confronti della volgarità e anche della sprovvedutezza dell'antagonista, sia esso un sommesso progressista o un rivoluzionario a tutto tondo. Può darsi che lo sguardo superciliare si limitasse ad ereditare e a trasporre una sensibilità nobiliare, ma in qualche caso si tocca con mano almeno la razionalità sociologica dell'approccio.

Edmund Burke, il più grande dei conservatori dell'età classica, annoverava tra le ragioni di inaffidabilità dell'assemblea nazionale francese la sua composizione sociale, zeppa di avvocaticchi, amministratori di piccole giurisdizioni locali, procuratori di campagna: mezze calzette, insomma. A spalleggiarlo, contro la mediocrità del ceto avvocatizio insediato in posizioni di potere, intervenne poi, nello stesso arco di tempo, perfino Hegel. Ma il punto fondamentale non era il disprezzo dei parvenu, era un altro: i lords sanno fare politica, hanno carte plurisecolari per essere titolati a farla e chi li espropria di questa prerogativa mette a repentaglio il benessere collettivo. In fatto di classismo, la Gran Bretagna è sempre stata di una sincerità commovente, non riscontrabile con la stessa intensità in altri paesi europei, ma in questo caso si coglie una tensione alta, non dissimile da quella che spingerà Max Weber, più di un secolo dopo, a distinguere coloro che vivono per la politica da coloro che vivono di politica. Ben si può dire che il problema della selezione di un ceto politico competente e disinteressato è rimasto intatto nei secoli e ci viene incessantemente sbattuto in faccia dalla cronaca. Il lord è allora una sorta di fenotipo dell'affidabilità politica in rapporto alle cariche direttive e istituzionali, perché almeno l'urgenza della pagnotta quotidiana, o l'esigenza di una elementare alfabetizzazione politica, non ce l'ha.

Proprio chi legga le pagine velenose scritte da Burke nel 1790 (con il cadavere dell'ancien régime ancora caldo) si accorge che la problematica della peccaminosità creaturale dell'uomo non ha vera centralità. La si richiama come un omaggio rituale al potere di indirizzo etico-politico in dotazione al cristianesimo, ma l'incisività di Burke (di cui la manifestolibri ha pubblicato i Pensieri sulla scarsità) consiste nell'accusare bensì i rivoluzionari francesi di empietà, tuttavia per una ragione diversa da quella suggerita dal loro istinto di mangiapreti o dai loro eccessi di iconoclastia: è privo di pietas e di antenne religiose chi pretende di stringere e costringere il creato nelle maglie mortificanti di una logica universalistica dei diritti.

Il testo di Burke pullula, a proposito dei diritti, di espressioni polemiche (spesso tradite o mal tradotte nelle edizioni italiane) che vanno dall'«astratto» al «metafisico»: i difensori dello status quo stanno invece dalla parte del concreto. E concreto, da che mondo è mondo, significa complesso: che c'entrano i diritti, che sono necessariamente, come dice la parola stessa, lineari e marciano come un rullo compressore? Al vertice della scala di argomenti non è il peccato originale, ma un'istanza teologica forse altrettanto cogente, però passibile di essere immediatamente politicizzata e di essere spesa con una intenzionalità laica: è assurdo pensare che la ricchezza e la varietà del mondo possano piegarsi a questi scalmanati che hanno la fissazione maniacale dei droits de l'homme e du citoyen.

La benevolenza o la neutralità di cui gode talvolta Burke, perfino da parte di Hannah Arendt o nelle riviste di sinistra, nasce dal fatto che è stato uno dei primi, convinti pluralisti e differenzialisti: il suo odio per la geometria di radice hobbesiana è tale da poter raccogliere molte simpatie tra i filosofi, gli urbanisti e gli architetti di sinistra. Il creato è inimitabile e intrasformabile, dotato com'è di un'armonia in senso letterale: è polifonico, gerarchico, anti-egualitario, di una bellezza che lascia senza fiato proprio perché piena di tutti i colori. Il suono monotono dei diritti riesce invece a pronunciare due bestemmie in una: contro le disposizioni della creazione e contro le leggi estetiche del cosmo.



La potenza del male



Naturalmente non si può ignorare un'altra tradizione, non britannica e grevemente cattolica, che può esibire tanto un Joseph de Maistre (quello che scrisse tra l'altro «L'inquisition est, de sa nature, bonne, douce et conservatrice» e che si divertì a tessere l'elogio del boia) quanto un Donoso Cortés, insomma una teologia politica agguerrita o addirittura una proposta teocratica intransigente e, nel senso stretto della parola, dogmatica. Ma chissà che il vero conservatorismo non l'abbia spesso, o sempre, considerata una imbarazzante zavorra.

Il pensiero controrivoluzionario poteva prendere di mira il laicismo illuministico che accompagna i mutamenti della scena istituzionale alla fine del XVIII secolo, ma oggi non sono in pochi a pensare che la data di nascita del conservatorismo europeo vada cercata molto più indietro: nelle resistenze cetuali, e nei modelli culturali da esse generate, che si oppongono alla separazione tra stato e società, e bisogna pensare ovviamente che questi modelli siano ancora presenti e operanti. Se ciò fosse vero, non sarebbe stato il secolo dei lumi a suscitare per contrappasso la nascita del conservatorismo europeo: la sua componente di fanatismo religioso ne risulterebbe ulteriormente emarginata.

A tutto questo bisogna aggiungere che il patrimonio religioso di stampo occidentale è strutturato in modo tale da poter fare da sostegno, seppure per vie paradossali, ad una teoria secolarizzata del progresso illimitato o almeno del futuro aperto e migliorativo dell'esistente. A contatto con gli eventi storici, il messaggio cristiano non è quietistico, regressivo o reazionario, tutt'altro: può anzi minimizzare il male classificandolo come una potenza non autonoma, ma equivalente solo alla limitatezza del bene, e può così moltiplicare le speranze e la ricerca attiva della salvezza nel mondo terreno. Accade certamente, come in Italia con la legge sulla fecondazione assistita, che risulti vincente la cupezza penitenziale e punitiva (e anche il puritanesimo americano non scherza, quando decide di farsi sentire sull'aborto, sulla pena di morte o sulla condizione di povertà come destino meritato di una colpa individuale), ma altre sensibilità religiose e altri paesi cattolici non sono sulla stessa linea. Per il resto, non si può non vedere che dall'alto non arrivano certo, in condizioni di temperatura politica ordinaria, inviti all'ascesi, alla continenza o alla mortificazione della carne, semmai alla spensieratezza edonistica e alla frenesia consumistica: il vecchio stile parruccone e patriarcale di moralità è andato a farsi benedire per tutti ed è stato sostituito semmai dalle sirene dell'imprenditorialità esistenziale ed economica.

Il punto è: se il paesaggio classico del conservatorismo è stato dominato, a grandi linee, dalla tutela della complessità contro il dilettantismo distruttivo dei rivoluzionari, come è cambiato? Quando è accaduto che la destra cominciasse, o ricominciasse, a sponsorizzare la semplicità, anche a voler prescindere dalle soluzioni apertamente autoritarie o dittatoriali? Si cerca spesso un filone aureo nascosto nel conservatorismo contemporaneo, ma è preoccupante proprio il fatto che non lo si trovi: il malcapitato Leo Strauss, uno che a vent'anni maneggiava sofisticati strumenti di filologia biblica e che per una virgola fuori posto nei suoi scritti avrebbe forse malmenato il tipografo (mando un saluto solidale al mio amico Carlo Altini, che da anni ne viene ricostruendo con pazienza il pensiero e la vicenda biografica: si veda a questo proposito il bel volume La storia della filosofia come storia della filosofia politica. Carl Schmitt e Leo Strauss lettori di Thomas Hobbes, Ets, pp. 236, 12), è accusato di aver fatto da balia, con la sua scuola di Chicago, ai cow-boys del neoconservatorismo americano e addirittura da remoto ispiratore ideale di certe mosse dell'amministrazione americana. Pur di incriminare un cattivo maestro, non si sa più a che santo rivolgersi.

La verità è che non siamo preparati alla pacchianeria del conservatorismo, che infatti scompagina i nostri schemi mentali: uno come Bush ci sorprende prima ancora di irritarci, sembra uscito da un fumetto e appartiene, come del resto molti esponenti della coalizione governativa italiana, alla sfera dell'inverosimiglianza dell'essere. Eppure basta guardarsi intorno, magari anche a casa nostra: che ne è stato della grande, a tratti intellettualmente squisita tradizione europea dell'equilibrio e del balance of power internazionale? Stupidaggini, prima si comincia a sparare meglio è. Le lungaggini procedurali della democrazia costituzionale? Tempo perso, roba che denuncia un deficit di virilità e di attributi, e lo stesso vale per i labirinti fiscali dello stato sociale, per i meandri delle contrattazioni sindacali e in genere per l'idea stessa di negoziato. Il segno supremo di insofferenza nei confronti della complessità degli ordinamenti democratici è poi il disprezzo del parlamento, per impoverita o impallidita che sia la sua effettiva rappresentatività: ormai si fa fatica a fare la conta delle decisioni extraparlamentari che cambiano la vita della gente.



Ottimismo antropologico



Tutto ciò non toglie che, se si ritiene opportuno riscrivere periodicamente la mappa del conservatorismo, sia necessario riprendere anche il filo della riflessione sulla natura umana e in qualche modo accettare la sfida. Si può però scansare in anticipo qualche equivoco e qualche trappola. Un equivoco tutto sommato evitabile rischia di addensarsi attorno alla linea di ricerca di antropologia filosofica tracciata da Arnold Gehlen, al quale si imputa di aver posto a fondamento della sua teoria l'idea dell'uomo come «essere carente» e di aver quindi fornito una versione della debolezza umana che, pur non essendo di matrice religiosa, è altrettanto evocativa di ordine e di disciplinamento. Ma Gehlen si riferisce solo alla povertà di istinti innati dell'uomo in rapporto all'ambiente e alla sua differenza rispetto all'immediato «accasamento», altrettanto innato, dell'animale. Quanto invece al principio che l'uomo sia un essere non indigente, ma eccedente ed eccessivo, Gehlen non ha alcuna obiezione sostanziale: è sua l'idea che l'arginamento della contingenza e la riduzione della complessità siano imperativi dettati all'uomo dalla sua disordinata ricchezza e dalla sua costituzione lussuosa, e che vadano soddisfatti con la configurazione di istituzioni stabili e securitarie.

Ogni tanto Gehlen, per civetteria o per incontrollabile impulso polemico, decideva di rimbecillire e si avviliva in sparate ultraconservatrici contro la società di massa, ma la sostanza della sua proposta è meno peregrina: il mondo è bio-antropologicamente troppo grande, e questo lo si può pensare sia di un disperato kamikaze che di un poeta che scrive versi nella quiete della sua casa di campagna. Già qui, però, troviamo un dato che non è più solo naturale: l'enormità del mondo o, peggio, la sua indifferenza al destino individuale è fonte di innumerevoli conflitti e di grandi violenze ed è certamente leggibile in chiave antropologica, ma incamera anche elementi storico-culturali di crisi che esplodono solo in certe fasi e che in altre possono essere imbrigliati.

La violenza esige strumenti specifici di indagine, ma non tollera la logica del calderone. Ciò che importa è che, se è possibile dissociare il profilo del conservatorismo politico e sociale dal postulato della malvagità della natura umana, di questa dissociazione si faccia tesoro, a sinistra, acquisendo il plusvalore di libertà di ricerca e di spregiudicatezza che essa comporta. Se non c'è un'implicita o esplicita «battaglia delle idee» a spingere il pensiero democratico, per reazione autodifensiva, sulle strade di un ingenuo ottimismo antropologico (com'è accaduto in certi momenti della storia del movimento operaio), vuol dire che le domande poste dalle vecchie e nuove insorgenze della violenza possono sollecitare una riflessione senza veli e senza remore.