giovedì 30 dicembre 2004

ancora sul furto cattolico dei bambinianche Wojtyla ne fu responsabile

Corriere della Sera 30.12.04

POLEMICHE Il documento uscito sul «Corriere» riflette l’orientamento preconciliare ostile alla libertà di coscienza

La Chiesa e i piccoli ebrei: il caso del 1953

di GIOVANNI MICCOLI *



* autore del libro «I dilemmi e i silenzi di Pio XII» (Rizzoli)



Nel primo dopoguerra la questione di ritrovare i bambini ebrei scampati allo sterminio preoccupava profondamente le organizzazioni ebraiche. «Noi eravamo disperati per la perdita enorme di bambini ebrei nel corso della Shoah. Consideravamo un sacro dovere cercare coloro che si erano salvati» scrisse nelle sue memorie Gerhart Riegner, segretario del Congresso mondiale ebraico. Per ottenere un aiuto in questo senso, egli incontrò nel novembre 1945 monsignor Montini. L’incontro fu insoddisfacente. Riegner ebbe l’impressione che in Vaticano non si avesse l’esatta percezione dell’enormità e della specificità della Shoah. Il viaggio del rabbino Herzog in Francia nel 1946 si situa evidentemente in questo impegno di ricerca. Con la lettera del 19 luglio citata da Melloni, monsignor Roncalli assicurò il suo appoggio, conformemente all’atteggiamento di disponibilità da lui costantemente assunto nel corso della persecuzione. Non vi è traccia peraltro, nelle sue Agende ora pubblicate, di una visita di Herzog a lui (ricevette il figlio nell’ottobre 1948) né sappiamo come egli accolse ed eventualmente commentò le istruzioni del Sant’Uffizio dell’ottobre 1946: che peraltro non a lui sembrano dirette se, come pare, il testo è stato ritrovato in un archivio ecclesiastico francese. Si può pensare dunque che si trattasse della risposta a un quesito indirizzato a Roma da chi si trovava davanti quei problemi.

Lo stesso avvenne sette anni dopo, in occasione del caso Finaly, la vicenda di due bambini ebrei che la direttrice di un asilo di Grenoble, dove erano stati accolti, rifiutava, dopo averli battezzati di sua iniziativa nel 1948, di consegnare a una zia residente in Israele. Si trattò di un vicenda che emozionò la Francia e che per un momento oppose duramente la comunità ebraica e una parte del mondo cattolico francese. Impossibile riassumere i termini di un conflitto che si trascinò per sette anni, da un processo all’altro. Ad un certo momento, dopo che la Corte di Grenoble aveva ordinato la consegna dei bambini alla zia, essi furono nascosti e infine portati in Spagna presso un’abbazia benedettina. Fu in questo contesto che il cardinale Gerlier, contattato da una suora di Sion cui la direttrice si era rivolta, consultò il 14 gennaio 1953 il Sant’Uffizio. La risposta scritta gli fu trasmessa il 23 gennaio. Riaffermava il dovere «imprescrittibile della Chiesa di difendere la libera scelta di questi bambini che per il battesimo le appartengono» e invitava a «resistere nella misura del possibile all’ordine di consegnare i bambini, adottando, per modum facti, tutti i mezzi che possono ritardare l’esecuzione di una sentenza che viola i diritti sopra richiamati». Come si vede l’istruzione non si discosta in sostanza dal documento ora pubblicato, al di là di alcuni aspetti particolari che non è qui il caso di analizzare. La vicenda si concluse comunque con la consegna dei bambini alla zia, anche per l’autorevole intervento di alcune figure di spicco della Chiesa e del cattolicesimo francesi (Congar, Rouquette, Marrou, Béguin, ecc.) alla luce del principio che, rispetto al diritto naturale dei genitori, il più fondamentale, la Chiesa deve rinunciare al suo. Grazie a un’opinione pubblica cattolica almeno in parte diversa dal passato, oltre che a circostanze profondamente mutate (la memoria della persecuzione aveva lasciato il segno e anche i primi sensi di colpa, quelli appunto che portarono alla dichiarazione del Vaticano II) non si ripeté un nuovo caso Mortara.

Tre osservazioni per concludere. La vicenda dei bambini ebrei nascosti nei conventi o in collegi religiosi è in gran parte da scrivere. Per quel che se ne sa, fu segnata da percorsi umani dolorosi e complessi, da affetti contrastanti e spinte contrapposte, che coinvolsero molti protagonisti. I ricordi di Saul Friedländer, affidato bambino da suo padre a un collegio rigidamente confessionale, con l’autorizzazione di battezzarlo, incline più tardi ad avviarsi al sacerdozio e che grazie a un incontro fondamentale con un padre gesuita avverte l’esigenza di recuperare la propria ebraicità, offrono uno straordinario e lucido spaccato di esperienze in parte comuni, affidate per lo più a sofferte memorie individuali.

Sono inoltre persuaso che Riegner avesse ragione: né la Santa Sede né la gran parte del mondo cattolico, secondo quanto del resta avveniva nel primo dopoguerra tra i più, avevano l’esatta percezione della specificità della Shoah. Essa restava confusa tra gli orrori generali della guerra. Pio XII, al chiudersi delle ostilità in Europa, non ne fece cenno nel discorso del 2 giugno 1945. Parlò delle persecuzioni sofferte dalla Chiesa a opera dei nazisti, ma non parlò degli ebrei. Fu la volontà di pochi che, un quindicennio dopo, impose, e non senza difficoltà, al mondo cattolico la questione.

Credo inoltre che scrivendo di quegli anni non si debba dimenticare ciò che era la Chiesa preconciliare: avversa in linea di principio alla libertà religiosa e di coscienza, persuasa che solo la verità, di cui essa si affermava unica depositaria, avesse diritto a una piena libertà. Le concessioni in quest’ambito erano dettate dall’opportunità di evitare mali maggiori. Ma quando era possibile i propri diritti andavano riaffermati integralmente. Il caso del documento ora pubblicato ne è un esempio.



Corriere della Sera 30.12.04

IN POLONIA

Il giovane Wojtyla

Antonio Carioti




«Quando ho letto il documento del Sant’Uffizio uscito sul Corriere, mi è venuto in mente un episodio avvenuto in Polonia nel dopoguerra, quando un giovane prete fece in modo che non fosse battezzato e fosse restituito al suo ambiente d’origine un bambino ebreo affidato a una famiglia cattolica per sottrarlo alle persecuzioni naziste. Quel sacerdote si chiamava Karol Wojtyla». Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, da tempo impegnato nel dialogo con i cattolici, ricorda quella vicenda per sottolineare che anche in epoca preconciliare nella Chiesa convivevano posizioni differenti verso il popolo ebraico. Tuttavia la direttiva del 1946 lo ha impressionato, rafforzando i suoi dubbi sulla canonizzazione di Pio XII. Un altro esponente della comunità romana, Giorgio Israel, autore del libro La questione ebraica oggi (il Mulino), richiama il contesto storico: «Quel documento esprime la tradizionale ossessione della Chiesa di convertire gli ebrei al cristianesimo. Ma dimostra anche quanto grande sia stata la rottura del Concilio Vaticano II e quanta strada sia stata percorsa da allora. La beatificazione di Pio XII sarebbe un passo indietro, ma non certo tale da compromettere le grandi novità positive acquisite a partire dal pontificato di Giovanni XXIII».

Eppure lo storico cattolico Giovanni Maria Vian nota che anche Roncalli, prima della Shoah, non era immune da un certo antigiudaismo religioso, che va però tenuto ben distinto dall’antisemitismo razzista: «La decisione del Sant’Uffizio, di cui vanno approfonditi meglio la natura e lo scopo, è la testimonianza di un’epoca di faticosa transizione, in cui comunque la Chiesa di Pio XII agì per salvare dai nazisti un gran numero di ebrei. Oggi i battesimi abusivi impartiti in Francia (assai meno in Italia) ci appaiono una pratica inaccettabile, ma sta di fatto che per la dottrina cristiana un bambino battezzato non è più ebreo e il Sant’Uffizio non poteva che ribadire tale principio, pur consigliando di procedere con prudenza caso per caso».

Di Segni capisce, ma non si adegua: «So che per la Chiesa il battesimo ha un decisivo valore sacramentale, ma ciò non toglie che dal nostro punto di vista la decisione del Sant’Uffizio costituisca un’offesa all’istituzione della famiglia e una grave mancanza di rispetto per l’identità ebraica. Quanto alla beatificazione di Pio XII, la Chiesa è libera di indicare ai fedeli gli esempi di virtù che ritiene più appropriati, ma è chiaro che scelte di un certo tipo non agevolano il dialogo interreligioso».



L'Unità 30.12.04

rivelazioni

Pio XII, la santità delle conversioni imposte

di Bruno Garavagnuolo



La cosa più triste di tutta questa storia di bimbi ebrei da non restituire alle famiglie, sono forse le dichiarazioni al Corriere della Sera di Peter Gumpel, postulatore della causa di beatificazione di Pacelli: «Ammesso sia autentico quel documto non inficia affatto la santità di Pio XII». E ciò perché per Gumpel un bambino battezzato, secondo il diritto canonico dell'epoca, era ormai considerato «membro effettivo della Chiesa», il che lo poneva sotto la giurisdizione ecclesiastica. Norma che non derivava da Pio XII e che egli si limitò «solo» ad applicare. Giudizio un po' «farisaico» e in fondo negatore del Vangelo, che faceva dire a Gesù che la legge è fatta per l'uomo e non viceversa. E proprio in nome della carità e dell'amore.

Ma andiamo con ordine. Di che documento e di che avvenimenti si tratta? La vicenda è stata rivelata ieri l'altro sul Corsera, da un articolo dello storico Alberto Melloni, che segnalava con largo anticipo l'uscita a fine 2006 del secondo tomo del quinto volume di un'opera preziosa, di cui è già uscito un primo tomo: Anni di Francia. Agenda del Nunzio Roncalli 1945-1948 a cura di uno dei massimi storici francesi, Etienne Fouilloux (Istituto per le scienze religiose di Bologna, www.fscire.it). Nel tomo del 2005, relativo al periodo 1949-53, verrà incluso un docuento chiave del 1946 (scoperto in ritardo), che da origine a tutta la querelle: le istruzioni del Sant'Uffizio romano al Nunzio apostolico a Parigi Roncalli. Concernenti la restituzione alle famiglie dei bambini ebrei, messi in salvo durante l'occupazione nazista in Francia. Ebbene quelle istruzioni al futuro Giovanni XXIII del 20-10-1946 parlano chiaro: i bambini ebrei battezzati «non potranno essere affidati ad istituzioni che non ne sappiano assicurare l'educazione cristiana». Non solo: anche i bambini non battezzati non potevano essere affidati a persone che «non hanno alcun diritto su di loro», a meno che - si legge - «Non siano in grado di disporre di sé». Il tutto era condito dall'invito a far muro di gomma dinanzi a richieste inoltrate dalle comunità ebraiche o dalle famiglie. Con la formula: «La Chiesa deve fare le sue indagini e studiare ogni caso particolare». E il documento inviato a Roncalli si chiude inequivocamente così: «Si noti che questa decisione della Congregazione del Sant'Uffizio è stato approvato dal Santo Padre». Conclusione, la Chiesa cattolica di Papa Pacelli - che senza denunciare apertamente il nazismo in azione durante la guerra, aveva altresì contribuito a salvare centinaia di migliaia di ebrei nei paesi occupati - si riservava il diritto di includere nei suoi ranghi gli orfani ebrei e i bambini ad essa affidati. Confermando così la tradizione dei battesimi e delle conversioni forzate che congiungeva in linea ideale la pratica dei sovrani ispanici di Aragona e Castiglia al celebre episodio del «caso Mortara», bambino sottratto ai genitori e convertito per volere di Pio IX nel 1858. Altro elemento grave - rilevato da Amos Luzzatto presidente delle Comunità ebraiche - era il fatto che nel 1946, nella Francia del dopo-Vichy, erano già note la realtà e le proporzioni della Shoah. Il che non valse a indurre in Pio XII un atteggiamento di maggior comprensione verso il mondo ebraico, che premeva sul Nunzio Roncalli affinché la Chiesa restituisse i bambini e ponesse fine ad ogni atteggiamento antigiudaico. Non è dato sapere con precisione se Angelo Roncalli abbia dato esecuzione alle «istruzioni» di Pio XII. Ma è possibile che non vi abbia aderito, benché non ci siano tracce d'archivio a riguardo. Roncalli - chiamato dallo stesso Pio XII a Parigi per reinserire la Chiesa nello scenario diplomatico dopo i compromesi con Vichy - si era già distinto con grande energia ed autonomia nel mettere in salvo gli ebrei in viaggio verso la Palestina, al tempo del suo ruolo diplomatico a Istambul.

Inoltre, come raccontano i volumi a cura di Fouilloux, il futuro Papa era in amichevoli contatti con il rabbino Herzog e con Jules Isaac, che sollecitavano la riconsegna dei bambini, e l'abbandono dell'antigiudaismo da parte cattolica. Tramite i famosi patti di Seelisberg. Ignorati ostentatamente da Pio XII nel 1955, e accolti invece da Roncalli nel 1960 al tempo del Concilio Vaticano II che pose fine a ogni forma di antisemitismo nella liturgia. Certo sarebbe ingiusto accusare Pio XII di antisemitismo. Egli era fermamente avverso al paganesimo nazista e concertò tra l'atro insieme a Roncalli la salvezza degli ebrei a Istambul. E tuttavia diplomatismo e un certo grado di antigiudaismo furono innegabili nella sua personalità. Perché non fece pubblicare l'enciclica antinazista scomparsa, scritta in mortem da Pio XI?

Restano perciò confermati gli interrogativi sulle ambivalenze di un Papa prossimo alla beatificazione, e che solo l'ancora differita apertura degli archivi vaticani aiuterà a chiarire. Né valgono gi argomenti a discolpa di Padre Gumpel e Vittorio Messori sul Corriere di ieri, volti a a richiamare l'obbedienza alla legge di Pio XII e i misteri dogmatici della fede, in una con i dubbi sull'autenticità del documento. Speciosi argomenti teologici. E filologicamente irrilevanti. Il documento proviene infatti dagli Archivi della Chiesa di Francia, anche se stava nelle carte di Roncalli. Difficile dubitare della sua autenticità, vista la serietà dello storico che lo ha scoperto e lo pubblica.