giovedì 31 marzo 2005

brevi dal web

corriere.it 31 marzo 2005-03-31
Le rivelazioni della scienza e le speranze di curare i diversi disturbi
Insonni, mattinieri, nottambuli
La colpa si nasconde nei geni

Una scoperta apre la strada a nuovi farmaci biotech

Troppo mattinieri? Colpa dei geni, anzi, di uno in particolare, che un gruppo di ricercatori americani ha appena individuato, descrivendolo sulle pagine della rivista Nature. Collocato sul cromosoma 17, rende alcune persone incapaci di resistere al sonno già alle sette di sera, subito dopo cena, e le sveglia in piena notte, alle due o alle tre, già pronte per incominciare la giornata. Ma non ci sono vantaggi per queste «allodole estremiste»: la loro è una condizione che spesso non è compatibile con una vita normale, li lascia spossati per l’intera giornata e li espone a un maggior rischio di incidenti.
«Stiamo parlando di una malattia vera e propria — commenta Mario Giovanni Terzano, direttore del centro di medicina del sonno all’Università di Parma — e di un campo dove le ricerche genetiche sono molto attive. Altri seri disturbi del sonno, come la narcolessia che provoca un desiderio incontrollabile di dormire o la sindrome delle gambe senza riposo, caratterizzata da crampi che impediscono a una persona di stare a letto, riconoscono una base genetica».
L’ultima scoperta spiega un disturbo che gli esperti chiamano sindrome familiare della fase del sonno anticipata, in sigla Fasps, una condizione che colpisce lo 0,3 per cento della popolazione umana. I ricercatori dell’Università della California a San Francisco, guidati da Ying-Hui Fu, hanno dapprima identificato nuclei familiari che da almeno tre generazioni presentavano, in alcuni componenti, la malattia. Poi sono andati a caccia del gene alterato. Lo hanno trovato: il gene difettoso codifica per una proteina, chiamata casein- chinasi I delta, che sembrerebbe giocare un ruolo critico nel regolare l’orologio biologico di ognuno di noi.
Non contenti della scoperta hanno voluto verificarla sugli animali: hanno sostituito, nei topolini, il gene sano con quello difettoso e hanno subito notato che gli animali non riuscivano a resistere al sonno serale, proprio come gli umani malati.
«Anche per i nottambuli estremi, per coloro cioè che non riescono a coricarsi se non di primissimo mattino e si svegliano molto tardi — aggiunge Terzano — sono state trovate alcune alterazioni nel loro Dna. Ma ancora una volta parliamo di disturbi veri e propri. Che proprio per questo vengono attentamente analizzati dai genetisti. E’ però probabile che anche il comportamento delle cosiddette allodole, cioè di coloro che tendono a coricarsi presto, verso le nove, dieci di sera e si svegliano di buon mattino, o dei gufi che, invece, preferiscono le ore piccole, sia in qualchemodo condizionato geneticamente ».
E l’insonnia allora? Quella che affligge almeno tre americani su quattro, secondo l’ultima indagine della National Sleep Foundation, e almeno un italiano su cinque secondo i dati presentati dall’Associazione italiana di medicina del sonno durante l’ultima giornata internazionale del dormire sano del marzo scorso? «Se è vero che l’orologio biologico è controllato dai geni — commenta Terzano — è altrettanto vero che esistono molti fattori ambientali che interferiscono con un buon riposo. Come lo stress, per esempio. O l’ansia. O la depressione».
Spesso alcuni semplici accorgimenti possono aiutare a riposare meglio, come evitare pasti abbondanti di sera, mantenere gli stessi orari del sonno, stare in un ambiente tranquillo prima di coricarsi. E, quando è necessario, ricorrere ai farmaci (ne stanno arrivando di nuovi sul mercato) e anche a psicoterapie.Male nuove ricerche genetiche fanno sperare in cure molto più mirate, capaci per esempio di contrastare gli effetti dell’alterazione genetica, e di aiutare così a ristabilire i normali ritmi circadiani di sonno-veglia, alterati negli insonni cronici e anche in coloro che soffrono di sindrome da jet lag, tipica di chi viaggia in aereo attraverso molti fusi orari, o di chi alterna il lavoro notturno con quello diurno.

ilmanifesto.it 30 marzo 2005
Sotto il velo sensuale della santità
Prendendo spunto dalla scultura di santa Cecilia di Stefano Maderno, lo storico dell'arte Georges Didi-Huberman analizza in «Ninfa moderna» la grazia fluida e pagana del panneggio
MARCO DOTTI

Stando a quanto riporta la Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, santa Cecilia morì esangue, dopo una tremenda agonia. Condannata in ragione della propria fede, il boia la ferì per ben tre volte senza riuscire, con i suoi cruenti colpi d'ascia, a staccarle la testa dal collo. Poiché era fatto divieto a chiunque di accanirsi una quarta volta sul corpo di un condannato, la giovane donna venne abbandonata al proprio destino. Si racconta che, immobile e in estasi, per tre giorni e tre notti abbia dispensato conforto e invocato protezione non per sé, ma per tutti coloro che, convertiti al culto di Cristo, si approssimavano a una fine non meno atroce. Ad alcuni secoli di distanza, precisamente il 20 ottobre del 1599, nell'imminenza del Giubileo proclamato da Clemente VIII, le spoglie della santa furono scoperte in una cripta, nascoste dentro una piccola cassa di cipresso nero. Le cronache raccontano che Cecilia venne trovata «adagiata sul lato destro, le ginocchia appena ripiegate», con «una stoffa leggera di seta verde, rigata di rosso scuro, che avvolgeva interamente il suo corpo disegnandone esattamente le linee». Le sue membra si mostravano «perfettamente integre», la sua carne intatta, screziata solamente da una lieve rigatura di sangue rappreso, che traspariva da sotto il velo. In una cappella buia della basilica trasteverina che porta il suo nome, un simulacro di marmo - realizzato, in occasione del ritrovamento, da Stefano Maderno - ha conservato memoria della postura «impossibile» in cui il corpo di santa Cecilia pare sia stato rinvenuto. La scultura di Maderno, osserva Georges Didi-Huberman nel suo breve, intenso saggio Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto (traduzione di Aurelio Pino, Il Saggiatore, 2004, pp. 158, euro 19), sembra volere fissare una «durata improbabile», con la santa immobile ma ancora intenta a sussurrare parole di fede, mentre i muscoli del collo cominciavano a sfibrarsi, una goccia di sangue bianco stillava dalla ferita e la testa iniziava a reclinare, mossa dallo spasimo, in una torsione innaturale. Stesa come una bestia abbattuta su un tavolaccio di marmo, nella scultura di Maderno Cecilia espone il proprio collo tagliato alla disponibilità e allo sguardo del devoto, proprio come, secoli prima, lo aveva offerto serena alla lama del carnefice. È proprio quest'organo straziato, difatti, che induce alla contemplazione, più che se il viso della santa, come nota ancora Didi-Huberman, «fosse atteggiato a una mimica estatica». Infatti, dalla figura di Maderno promana un sentimento di «totale abbandono», accentuato dall'assenza del volto e dalla presenza di un panneggio che - sostituto di un ben più macabro flusso - ricopre fin sopra il capo il corpo esile della martire. La postura della statua è, comunque, sconcertante per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, proprio perché costringe l'osservatore a collocarsi non davanti alla figura intera, ma di fronte al «tratto organico del suo sacrificio». In secondo luogo perché, a dispetto delle ricorrenze archeologiche e delle attestazioni dei cronisti, a una attenta disamina essa si mostra frutto di una sostanziale invenzione di Maderno. Negli anni della Controriforma, in un clima di generale recupero del «periodo eroico» delle catacombe, mentre l'intero sottosuolo di Roma si apprestava a diventare terreno di scavo per ogni sorta di speleologia cristiana a fini devozionali, il ritrovamento dei resti e il particolare agiografico della postura divennero un vero e proprio «avvenimento pubblico», innescando, a loro volta, un inevitabile «derivato spettacolare» che prenderà corpo proprio nel simulacro di Maderno. Un «derivato spettacolare», quello dello scultore ticinese, da intendersi nei termini di una «invenzione propriamente artistica» capace di prolungare il miracolo di un corpo glorioso, e intatto, «nel prodigio della sua rappresentazione». La postura, la testa, il velo, la cicatrice sul collo, le mani giunte in preghiera, tutto deriverebbe, quindi, «da una composizione raffinata, non dall'osservazione di un cadavere che da quattordici secoli si decompone nella sua bara». Ma ciò che Maderno non ha del tutto inventato, rispettando in tal modo «il referente archeologico, ossia la reliquia», è la «connivenza fondamentale tra l'invenzione del corpo santo, nel 1599, e il paradosso visivo proposto dal mucchio di veli o di stracci scoperto dalle autorità ecclesiastiche». La scultura trae infatti la sua forza e la sua bellezza non tanto dalla capacità di Maderno di «modellare la visione fuggevole» della santa, quanto dalla sua indubbia maestria nel «trasformare il mucchio informe di panni ... in opera scultorea, solida, durevole; un'opera della visibilità in ritirata, anziché fuggevole». In quella che, a prima vista, potrebbe apparire come l'«antimenade» per eccellenza, concepita quasi per annullare ogni residuo di paganesimo greco-romano, Didi-Huberman invita dunque a rintracciare sopravvivenze di un modello antico e, in ultima istanza, a scoprirvi un «rifugio cristiano di ninfa».
«Ninfa», a cui alludono titolo e impostazione del lavoro, è l'eroina impersonale - indagata nel solco delle ricerche e delle non meno straordinarie intuizioni di Aby Warburg - della sopravvivenza storica delle immagini. Grazie alla evidenza del panneggio che la ricopre, la Santa Cecilia di Maderno sembra rivelare tratti di una sensualità così leggera da rivelarsi propria di «una ninfa dell'Antichità», o del suo immediato sostituto: «un panno spiegazzato e gettato a terra, che da solo riassume tutti i disordini del desiderio». Proprio il «panneggio» dotato, nella prospettiva di Warburg, di autonomia visiva e di vita propria, riveste qui il ruolo di un «utensile patetico», ed è indagando la sua inarrestabile caduta che Didi-Huberman individua i residui della sopravvivenza impura di un'immagine - la ninfa danzante e il suo panneggio, appunto - segnata da una «inarrestabile caduta» verso il suolo.
Una sorta di grazia «fluida», quella della Ninfa declinante, che ritorna anche in un altro recentissimo lavoro dello storico dell'arte, Gestes d'air et de pierre. Corps, parole, souffle, image (Éditions du Minuit, 2005, pp. 89, euro 9). Si tratta, in questo caso, di un dialogo in absentia con l'opera dello psicoanalista Pierre Fédida, e con le sue indagini sull' «ascolto visivo» e sullo statuto della materia «fluida, eterea e ondeggiante» delle immagini. In entrambi i casi, Didi-Huberman invita a soffermare lo sguardo sulle persistenze e sopravvivenze di Ninfa nei luoghi più impensati, dalle vergini del Ghirlandaio, alle veneri di Botticelli e Tiziano, dagli stracci di Germaine Krull, fino alle pieghe delle sculture involontarie di Brassaï o al drappo insanguinato ritratto, nel 1928, in un'anonima stanza d'albergo, dove l'antica «creatura della sopravvivenza», avvezza alle trasmigrazioni, «rallenta il passo e termina a terra», trovando così rifugio fra «i resti, nelle pieghe e nelle tracce della propria decadenza»; ma anche nel rifiuto, nella tela straziata, nello miseria dello spettacolo urbano, e nel luminoso degrado della sua inarrestabile prostituzione.