giovedì 31 marzo 2005

la violenza sulle donne

Corriere della Sera 31.3.05
Una giornalista rompe la barriera della privacy, racconta la sua storia e viene licenziata.
Rapporto di Amnesty International: è il fallimento di un sistema
La Svezia scopre la violenza sulle donne
Finisce il silenzio nel Paese della parità dei sessi. Rivelazioni in tv e email: decenni di abusi nelle case
Gabriela Jacomella

I responsabili della rete avevano tentato di tutto per farla tacere. Il suo boss l’aveva messa in guardia: l’argomento è off-limits, lascia perdere. Lei, 48 anni e da un decennio costretta a subire violenze dall’uomo che amava, non ha ascoltato. E un giorno, nel bel mezzo dell’estate scorsa, ha fissato la telecamera e ha iniziato a parlare, in diretta: «Volete sapere che faccia ha una donna che è stata picchiata? Eccola. Mio marito abusa di me da più di dieci anni». La direzione l’ha licenziata. Poi sono arrivate le prime email, le telefonate. «Anche il mio uomo mi riempie di botte». «Mi ha stuprato, ma nessuno mi crederebbe». La cortina di silenzio e vergogna iniziava a lacerarsi. Non siamo in Arabia Saudita, dove un anno fa la bellissima anchor-woman Rania al-Baz aveva trovato il coraggio di mostrare ai fotografi la devastazione del suo volto, le 13 fratture che avevano cancellato quell’ovale perfetto incorniciato dallo chador. Ai colleghi giornalisti aveva raccontato il pestaggio subito dal marito: «Voglio usare quello che mi è successo perché si cominci a parlare della violenza sulle donne nel nostro Paese».
L’altra donna, quella che solo un’estate fa ha rivelato in tv il suo dramma, può darsi che conoscesse la storia di Rania. Del resto, sono molte le affinità che le uniscono. Maria Carlshamre è anch’essa una giornalista, ha pure lei occhi scuri e capelli neri. Ma è svedese. Vive, cioè, in un Paese dove la parità dei sessi ha smesso da decenni di essere un’utopia, dove i posti nelle stanze dei bottoni si dividono tra quote «azzurre» e «rosa», e l’ipotesi di dar vita a un partito «femminista» piace a un elettore su cinque. Oggi il Paese dell’uguaglianza ha scoperto di essere il Paese delle urla nel silenzio. «La violenza contro le donne è aumentata negli ultimi due anni. Quella commessa da uomini che hanno un legame affettivo con le vittime è altamente sottostimata. Solo il 15-25% sporge denuncia». Una condanna senza appello, pronunciata un anno fa da Amnesty International, impegnata nella campagna mondiale Svaw ( Stop Violence Against Women ): «È il fallimento di un sistema».
Intendiamoci, i mariti o i fidanzati svedesi non sono più violenti dei loro omologhi italiani, spagnoli o americani. Il problema sta nelle donne. Nella loro vergogna. Nelle loro bocche sigillate. Gli episodi di violenza sono aumentati a un ritmo vertiginoso: ?140% tra 1980 e 2000, dati ufficiali. Ma è il sommerso a fare la differenza. Come ovunque. Solo che qui, appunto, siamo nel regno dell’equità. E soprattutto della privacy: insieme alla leadership nella tutela dei diritti «rosa», essa è stata per decenni il «lenzuolo bagnato» che celava drammi laceranti, accusa ora sul New York Times Eva Hassel Calais, tra i coordinatori nazionali, in Svezia, dei centri per donne maltrattate.
«Sono faccende di famiglia», aveva protestato la sorella di Muhammad Al-Fallatta, marito di Rania, quando il fratello era finito sulle prime pagine dei giornali di Riad. Anche a Stoccolma, finora, la violenza domestica era considerata un private matter , un affare privato. «L’idea per cui la violenza in ambito familiare è una questione privata - scrive Amnesty - permette che tale pratica continui senza trovare ostacoli». La legge svedese è tra le più avanzate nella tutela delle donne, «ma questo serve a poco, se la rivoluzione dei sessi non è stata davvero assimilata»: Mariagrazia Campari, avvocato e femminista, della Libera università delle donne di Milano, spiega il controsenso con la teoria degli «estremi che si toccano, è il ritorno del punto di vista della famiglia patriarcale, dove contava solo il maschio, e quanto avveniva entro le mura di casa non era considerato "spendibile" fuori. Poi, certo, può darsi ci sia un desiderio inconscio di mantenere l’immagine di Paese perfetto, basato su canoni superiori di convivenza...».
C’è voluto un anno, in Svezia, perché il private matter diventasse pubblico, in un doloroso processo di autocoscienza. In ottobre Gudrun Schyman, deputato di sinistra e femminista, ha proposto una «tassa sugli uomini» per pagare le conseguenze di botte e stupri. In novembre il ministro della Giustizia Thomas Bodstroem dichiarava: «Il silenzio è un tradimento per le vittime degli abusi e un aiuto per gli uomini violenti». Pochi giorni fa il procuratore generale ha annunciato di voler creare un team di 35 magistrati specializzati nella violenza contro le donne. A Riad, a luglio, Rania al-Baz ha ritirato la denuncia contro il marito, sfinita da minacce e pressioni. In Svezia, oggi, Maria Carlshamre ammette: «Dobbiamo cambiare l’immagine di noi stessi. Non siamo i campioni del mondo dell’uguaglianza».