venerdì 29 aprile 2005

Giovanni Semerano

una segnalazione di Dina Battioni

Repubblica 28 Aprile 2005

Cultura
L'ORIENTE CI INSEGNÒ A PARLARE
Intervista
Il filologo Giovanni Semerano e la favola dell'indoeuropeo

A 94 anni lo studioso fa il punto sulla lingua che sarebbe all'origine della cultura europea e smonta una tesi molto forte
Non esiste alcun documento reale che provi l´esistenza di quella lingua

FIRENZE. La voce di Giovanni Semerano è flebile, come un soffio cantato che dà alle parole una strana leggerezza. Siede nel suo studio: il volto asciutto e glabro sembra scavare l´aria e si protende davanti al visitatore. L´abito che indossa è scuro rigato, porta la sciarpa al collo, e il fazzoletto candido nel taschino dà un tocco di civetteria a questo mirabile maestro dell´etimologia che, come in una scena di altri tempi, si è vestito "per l´occasione". E l´occasione è il nostro incontro nella sua casa fiorentina. Qui tutto appare sobrio ed essenziale, perfino dimesso. La libreria che lo sovrasta alle spalle raccoglie i suoi lavori. Ma non vi si coglie il gusto dell´esibizione, il lavoro ordinato del collocare le proprie opere al punto giusto, in armonia con l´occhio del visitatore. C´è semmai una docile casualità che governa lo spazio e ciò che vi è contenuto. È singolare come quest´uomo, giunto alla età di 94 anni, abbia fatto della propria vita un gigantesco esercizio linguistico per smontare la tesi (apparentemente indistruttibile) che l´indoeuropeo sia alle origini della nostra cultura europea. E ora che è uscito per Bruno Mondadori La favola dell´indoeuropeo (curato da Maria Felicia Iarossi, pagg. 117, euro 12), viene voglia di tornarci sopra.
In una storiella africana si racconta che gli uomini non hanno un vero scopo, ma se lo trovano devono perseguirlo con tenacia, altrimenti si trasformeranno in pietre. Le suggerisce qualcosa?
«Non conosco questa storia. Ma so che in ogni storia che si presenta come un apologo c´è un fondo minaccioso, oscuro, che affiora allorché siamo in presenza di una regola non rispettata, o di un divieto trasgredito. Per quanto mi riguarda, più che di scopi parlerei di missione del dotto. Il dotto è colui che porta una conoscenza, o che smaschera una insolente fandonia, nella mia vita ho cercato di fare entrambe le cose».
La sua missione è stata di aver destituito di senso l´idea che alla base delle lingue che oggi parliamo ci sia l´indoeuropeo. Come è nata la leggenda di una lingua così forte da condizionare tutte le altre?
«Storicamente fu il giudice inglese William Jones a fornire nel XVII secolo un apporto decisivo, immaginando di aver scoperto una lingua affine alle lingue europee. Ma già nel Cinquecento Filippo Sassetti, un mercante fiorentino non privo di estro, in una lettera a Bernardo Davanzati, sottolineò la somiglianza di alcune parole sanscrite con la nostra lingua».
Il sanscrito per lungo tempo è stato la lingua ufficiale dell´India. Aver trovato delle parentele con il latino, il germanico e il persiano quali conseguenze ha avuto?
«Faremmo prima a chiederci che cos´è l´indoeuropeo: una lingua interamente ricostruita. Il primo che si cimentò a utilizzarla per una narrazione fu il comparativista August Schleicher».
Quando dice interamente ricostruita cosa intende?
«Che siamo in presenza di una lingua ipotetica, non fondata su alcun documento reale».
Ma allora a che cosa si deve il suo successo? Perché i più grandi linguisti, dal Settecento in poi, ne hanno accreditato l´immagine vincente?
«L´espressione "vincente" può rendere l´idea. Nella formazione dell´indoeuropeo ha giocato un ruolo dominante l´ideologia eurocentrica. Se proviamo a gettare uno sguardo nell´antichità dei millenni, non ci imbattiamo in lingue indoeuropee. Quello che ci è dato incontrare semmai sono le lingue sumera, accadica, babilonese, assira. Lingue da cui è dipesa la nascita della nostra cultura occidentale».
Che idea ha dell´Occidente?
«L´Occidente deve tutto alle grandi civiltà del Vicino Oriente. E soprattutto, lo ripeto, alle civiltà sumera, accadica e babilonese. Di esempi se ne possono fare tanti. Matematica, geometria, astronomia, medicina, diritto e musica - i cui influssi sono giunti inequivocabilmente fino a noi - fiorirono nella fertile Mezzaluna. E qui nacquero anche le prime biblioteche, alcune istituzioni che meglio qualificano la civiltà di un popolo. C´è un vincolo che risale a cinquemila anni fa tra l´Europa e l´antica Mesopotamia».
Ma storicamente questo vincolo fra Occidente e Oriente come si manifesta?
Al centro della storia antica vi è Sargon il Grande, fondatore della dinastia di Akkad nel terzo millennio avanti Cristo. È questo condottiero a spingersi con il suo esercito fino al Mediterraneo. In una stele che vergò per i suoi sudditi si presenta così: "Io sono Sargon. Non conobbi mio padre. Mia madre era una sacerdotessa; mi concepì, mi produsse, mi pose in una cesta sigillata con pece; mi depose sul fiume che non mi sommerse e fui fluitato a casa dell´innaffiatore Aqqui". Tra l´altro tutto questo evoca anche la storia di Romolo e Remo».
Ci sono delle analogie?
«Anch´essi non conobbero il padre, erano figli di una sacerdotessa, posti in una cesta, lasciati sul fiume e spinti nella casa del pastore Faustolo».
Le origini di una civiltà quasi sempre si ricoprono di un velo mitico. Che ruolo riveste il mito nella lingua?
«Ogni parola è un mito. Originariamente, infatti, mito significa "parola". E ogni parola ha la sua dinamica creatrice».
Anche la religione è una componente fondamentale nella nascita della civiltà. Che rapporto ha con la lingua?
«Anche in questo caso "religione" ci riporta alle origini. Infatti la parola religio significa vincolo culturale, ciò che unisce una comunità».
Lei crede in Dio?
«Sì».
Chi sono stati i suoi maestri?
«A Roma, prima di trasferirmi a Firenze, ho seguito i corsi di Gaetano De Sanctis e Giulio Bertoni. A Firenze ho avuto come professori Ettore Bignone e Giorgio Pasquali».
Ha mai conosciuto Dumézil e Lévi-Strauss?
«No, ma conosco bene le loro opere. Nessuno di questi ha la solidità storica di Jean Bottéro. Dumézil, ad esempio, nel suo testo La religione romana arcaica si impiglia in una serie di voci che alitano attorno a Quirinus quale attributo di Romolo, di Marte. Quirinus, che è della stessa base di quiris, è titolo solenne. Da principio significa "borghese" e deriva dall´accadico kirhu (cittadella, area fortificata). Detto di Marte, che deambula in questo mondo delle origini, vien fuori una divinità poliade, protettrice del borgo».
Un appassionato di lingue antiche che rapporto ha con il viaggio?
«Emozionante per quel tanto o quel poco che il viaggio riporta ai propri studi. Sono stato in Cina e in Egitto. Ma i miei viaggi più belli li ho fatti attraverso i libri».
Fuori dai suoi studi quali letture ama fare?
«Adoro le poesie, mi piace leggere gli autori classici latini e greci. A volte mi sorprendo a ripetere i versi, per me forse i più belli della lirica greca».
Quali?
«Sono quelli di Alcmane. Arieggiano il mito del vecchio alcione che, non potendo più volare, è preso sulle ali dalle giovani alcionesse che lo recano in volo sul mare. Mi piacciono inoltre le epopee sorte in ambito mesopotamico. Sono espressioni di un´umanità ricca di stimoli e insegnamenti. Frequentando gli antichi si trova saggezza e serenità. Amo, altresì, gli scrittori francesi, inglesi, tedeschi. Se non mi fossi laureato in greco, lo avrei fatto certamente in tedesco, era una delle mie passioni. Durante gli anni ‘50, su invito di un germanista dell´Università di Trieste, ho tradotto numerose poesie di Hermann Hesse».
Le piacciono anche i romanzi?
«Soprattutto quelli storici».
Si ritiene soddisfatto per le cose che ha realizzato?
«Sì, credo di non aver fallito le cose importanti nelle quali ho creduto».
Che cosa avrebbe voluto fare che non ha fatto?
«Avrei fatto le stesse cose. E questo le può suggerire fin dove si è spinta la passione per i miei studi».
Se non fosse vissuto a Firenze quale altra città avrebbe scelto per vivere?
«Roma, a cui sono molto legato perché vi iniziai gli studi universitari».
Il suo lavoro più importante è unanimemente considerato il Dizionario etimologico. Che cosa ha rappresentato per lei quell´impresa?
«Cinquant´anni di lavoro. Ancora adesso appunto e correggo. La ricerca è un costante girar di pagine. Ricordo ancora la disperazione che mi avvolse quando durante l´alluvione di Firenze persi centinaia di schede di lavoro».
Che cosa rappresenta la filologia per lei?
«Per me è storia, anzi linguistica storica. In questa disciplina ho trovato la mia soddisfazione».
I suoi lavori non sempre hanno avuto il giusto riconoscimento da parte dell´accademia. Che giudizio dà sull´università?
«Le accademie e le università sono delle istituzioni restie a mutare gli indirizzi, a recepire nuove idee, anche solo per discuterne, magari per confutarle. È il loro limite».