martedì 31 maggio 2005

Luciano Canfora, a proposito di antichità greca e di comunismo

Corriere della Sera 31.5.05
di LUCIANO CANFORA

La grande idea-forza del comunismo nacque, a quanto pare, in Grecia. Tutto prese origine dalla scoperta della nozione di «natura», cioè della struttura profonda e non convenzionale dell’agire umano. Quella scoperta poteva far barcollare l’edificio sociale, faceva ad esempio cadere la distinzione tra Greci e barbari (pur così cara all’autostima dei Greci) o tra schiavo e libero. Un frammento del sofista Antifonte queste barriere le infrange; si tratta di un lembo di papiro, ma il concetto è chiaramente distinguibile. Per parte sua Antistene, un discepolo «estremista» di Socrate, portò questa scoperta dell’unità del genere umano alle sue estreme conseguenze. Affermò un acceso cosmopolitismo; si sentiva cittadino del mondo, non di una singola patria. Reclutava i suoi seguaci tra i più poveri. Platone invece - il quale concepì anche lui una utopia comunistica ma fortemente castale - reclutava i suoi tra i ceti più elevati. E aristocratico era egli stesso. Il richiamo alla «natura», cioè all’unità del genere umano ha un sapore rousseauiano. Ed è comprensibile che di lì sia scaturita una spinta di tipo «rivoluzionario» o per lo meno una spinta all’inquietudine sociale, che purtroppo le fonti superstiti non amano mettere in adeguata luce. Ma resta emblematico il fatto che un filosofo di ispirazione storica come Blossio di Cuma, assertore anche lui dell’unità del genere umano, dopo aver sostenuto i Gracchi a Roma sia finito all’altro capo del Mediterraneo, a combattere e a finire i suoi giorni, accanto agli schiavi ribelli di Aristonico, adoratori del Sole, a Pergamo.
Gli schiavi erano di certo gli «ultimi» della società ellenistico-romana. Ma erano masse sterminate, senza voce. In un papiro demotico di epoca tolemaica si legge questa preghiera di uno schiavo fuggitivo: «Signore grande tu conosci questo piccolo servo fino in fondo al suo cuore. Tu vedrai la perversità grande come il mare che pesa su di me. Dall’oppressione continua deriva anche la mia fuga» (traduzione di Aristide Calderini). Difficile che un uomo politico si occupasse di loro. Più facilmente accadeva che di questa assurda condizione umana si occupasse un filosofo. Una spinta «comunistica», come alternativa all’ordine esistente, aveva sempre serpeggiato nella società greca. Altrimenti non capiremmo come mai un Aristofane sentisse il bisogno di destinare la sua pessima derisione (Le donne all’Assemblea) a questo genere di «utopie».
Anche Aristotele, uno dei filosofi che hanno prevalso nel corso della tradizione giunta fino a noi, dedicò non poche energie alla critica delle utopie sociali. Ed è perciò grazie a lui che veniamo a conoscere qualcosa che altrimenti sarebbe stato cancellato del tutto. «Falea di Calcedone - scrive Aristotele nella Politica - è il primo che abbia trattato questo tema: lui vuole che tutti abbiano uguali ricchezze» (II,4). Aristotele è ben consapevole del fatto che la disuguaglianza delle fortune è all’origine di ogni sorta di rivoluzioni, ma è anche convinto che questi utopisti non vedano giusto perché non hanno mai avuto vera e diretta esperienza della gestione di una città. Che il tema della disuguaglianza da sanare fosse incombente nella vita delle città greche è chiaro da vari sintomi, compreso il fatto, che ugualmente ci è noto da Aristotele, che nelle assemblee decisionali i due argomenti principali all’«odg» fossero la guerra (primo in assoluto) e le risorse economiche (secondo ma collegato strettamente al primo, visto che la guerra si faceva per avere più risorse e accontentare, o tenere a bada, i ceti meno ricchi).
Insomma la eterna questione sociale era al centro di tutta la vita. E l’impero era un modo per ammortizzarla, grazie allo sfruttamento (o rapina) inflitti agli altri. Ecco perché i «comunisti» ante litteram, inneggianti all’unità del genere umano, non avevano buona stampa nemmeno presso i ceti «proletari» di condizione libera (per usare un termine caratteristico del linguaggio romano).
A Roma un pensiero originale orientato in modo così radicale non sembra essersi sviluppato. Un grande poeta romano però (il più grande, secondo Theodor Mommsen), cioè Lucrezio, inserì nel quinto libro del suo poema Sulla natura una trattazione che si potrebbe modernamente intitolare «Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato». In quel libro osserva, tra l’altro, che i dolori e i conflitti ebbero inizio, nella storia dell’umanità, quando «fu inventata la proprietà» ( res inventa est aurumque repertum ). C’è un che di rousseauiano, ancora una volta, in questa intuizione. Era una veduta sua o la ricavava da Epicuro, sua fonte principale? Quantunque Lucrezio sia stato in alcuni casi (ad es. nel radicale rifiuto della religione) pensatore originale, su di un tema come quello del costituirsi stesso della società dipendeva con ogni probabilità dal suo adorato Epicuro. E non a caso, un uomo come Cicerone riteneva pericoloso - lo dice nelle Tusculanae - il diffondersi «in tutta Italia», al tempo suo, di divulgazioni in lingua latina del pensiero di Epicuro. I pensatori greci dunque, soprattutto le molte correnti di pensiero che si dipartono dal socratismo e che siamo soliti chiamare filosofie «ellenistiche», furono inquietanti: lo furono già per i Romani. Facevano vacillare i capisaldi di una società divisa in classi. Durante il fascismo, nei media come a scuola, la Grecia veniva caparbiamente posposta a Roma. Il professore di liceo che nell’insegnamento dava troppo spazio ai Greci rispetto ai Romani era considerato sospetto, quasi «antifascista». Capitò così a Tommaso Fiore, il quale racconta che fu mandato un ispettore ministeriale nel suo liceo (ad Altamura) a chiedergli conto del fatto che egli leggesse con gli studenti nientemeno che la Repubblica di Platone.