mercoledì 27 luglio 2005

"LIBERAZIONE", il giorno dopo...

Liberazione 27.7.05
A Roma una grande folla alla conferenza stampa del segretario del Prc. Applausi e consensi e una discussione appassionata
Bertinotti presenta le sue primarie: «Questa partita va giocata»
Rina Gagliardi


«Beh, visto che meglio di così non potrà andare, varrebbe la pena di chiudere qui le primarie…». Si permette anche questa battuta scherzosa, Fausto Bertinotti, uscendo dalla libreria "Amore e Psiche", dopo un'ora e mezza di conferenza stampa. E la folla gli dedica un supplemento generoso e affettuosissimo di applausi - proprio come se volesse continuare un confronto che si è rivelato davvero ricco e coinvolgente. Siamo a Roma, a due passi dal Pantheon, in un primo pomeriggio caldo e afoso, eppure sono ancora centinaia e centinaia quelli che si accalcano l'uno a ridosso dell'altro - moltissimi i giovani e le donne, finalmente.

La candidatura del segretario di Rifondazione comunista alle primarie dell'Unione è partita alla grande - un decollo quasi migliore di quello dello Shuttle, avvenuto quasi in perfetta contemporaneità. Non è solo, a stupirci, a impressionarci (e perché no? a scaldarci il cuore), la grande partecipazione: è l'affetto e il calore (ben oltre quello solare) da cui Bertinotti è circondato. E' la voglia di parlare con lui, di porgli quesiti "da niente" come l'essenza del comunismo da costruire, l'emancipazione e la liberazione - dal bisogno, dalla fatica e anche dalle oppressioni della mente. Il comunismo come "promessa", pur finora mancata, eppure ancora e soprattutto promessa. O come attesa «del tempo che ci rimane», come dirà Bertinotti rispondendo alla bella provocazione di Giulia Ingrao. Sì, se quel che si temeva era il pericolo "politicista", di una presentazione della sfida di Bertinotti risucchiata dalle contraddizioni e dalla scadenze a breve, bisogna dire che esso è stato rapidamente fugato.

Merito anche della sede scelta, una libreria, appunto, non un "palazzo della politica" - e una libreria particolare qual è "Amore e Psiche", centro notissimo, nella capitale, della ricerca e della pratica analitica di Massimo Fagioli. Già una volta, l'anno scorso, si svolse - tra Bertinotti, il professore e Pietro Ingrao - un incontro felice, quanto a capacità reciproca di stimolo e interlocuzione: il tema fu allora quello della nonviolenza. E oggi, sempre qui, l'inizio della corsa che si concluderà il 15 e 16 di ottobre testimonia che ci sono pezzi significativi della "società civile" (insomma, delle tante persone che praticano un impegno, una scommessa, una ricerca non solo personale, e non fanno parte del ceto politico) disponibili a una scelta azzardata, come quella di far vincere le primarie ad un uomo della sinistra.

Già, anche se può apparire un'iperbole propagandistica, il senso della candidatura di Bertinotti è proprio questo: dimostrare sul campo che l'Unione, la vasta alleanza in costruzione che cercherà di sloggiare Berlusconi dal governo del Paese, può essere guidata «anche da una donna o da un uomo della sinistra». Non si tratta solo di un elementare deontologia, per rimediare al pericolo che il nuovo strumento messo in campo sia privo di ogni pathos, e dunque di far partire la competizione "almeno da due". Si tratta di qualcosa di più: di finirla con i complessi minoritari. E con l'idea che l'unità non può mai far rima con la radicalità - Puglia docet, del resto. E non è forse vero che le speranze diffuse nel popolo che vuol cambiare, che non ne può più del centrodestra, hanno un riconoscibile, fortissimo tratto di radicalità?

Ma poi, per chi avesse dubbi, ci pensa il moderatore della conferenza stampa, il nostro Darwin Pastorin («una meraviglia», chiosa Bertinotti, con chiaro riferimento agli splendidi articoli non calcistici, ma culturali che impreziosiscono Liberazione) ad offrire un parallelo in più. «Era il 16 luglio del 1950» racconta inaugurando la conferenza stampa «ed era in programma la finale dei mondiali di calcio. Si giocava Brasile-Uruguay, al Paranà, davanti a duecentoventimila persone, ed il Brasile era nettamente favorito, tanto che agli uruguagi fu raccomandato di prenderne il meno possibile. Eppure, quella volta l'Uruguay non accettò di fare la vittima predestinata: fu il capitano, Obdulio Varela, a incitare i suoi. A dire: questa partita io me la gioco. E l'Uruguay vinse la partita». Ecco la trasparente allegoria di Pastorin: noi, oggi, siamo l'Uruguay, e Bertinotti è il nostro Varela. Semplice, no? Quasi come trasformare un voto - una delle tante votazioni a cui siamo chiamati - in una occasione di cittadinanza attiva, di partecipazione, di presenza che rovescia i canoni e gli schemi previsti. Un piccolo strumento in più è quel post-it - il "foglietto giallo", dice Bertinotti che non riesce assolutamente a memorizzare l'anglicismo - in cui ognuno potrà scrivere l'oggetto dei suoi desideri - politici, sociali e civili, naturalmente. "Voglio…. Bertinotti presidente" (è la dicitura che si legge sul nuovo sito internet www. faustobertinotti. it) che chiede di essere riempita, farsi progetto collettivo, programma in progress, pungolo di massa. Un'idea (elaborata dall'agenzia "Pro Forma", non per caso barese) che Bertinotti commenta così: «Se la guardo, un po'mi viene da ridere. Ma poi penso che questo "voglio", in fondo, è un piccolo e utile gesto di ribellione. Un buon inizio». Per mettere in relazione popolo e rappresentanza. Per cominciare a superare quella "linea di faglia" che tende inesorabilmente - in Occidente - a separare le élites dalle masse. Per far pesare, nel programma dell'Unione, quelle direttrici - la pace e la nonviolenza, la lotta alla precarietà, la ricostruzione di uno spazio pubblico, incentrato sui "beni comuni" - così care alla sinistra, ai movimenti, alle persone, verrebbe da dire, di buon senso.

Ma sono questi, o altri, gli "irrinunciabili" paletti che Rifondazione comunista presenterà alla discussione programmatica dei suoi partner unionisti? Dov'è, se c'è, il punto di caduta della vostra battaglia e della vostra trattativa?

La domanda, una delle prime che animano la discussione, era nell'aria, era quasi d'obbligo, oltre che insidiosa. «Se al primo posto c'è la ricerca di un'intesa, non ci possono essere punti irrinunciabili» risponde Bertinotti. Altrimenti, è logico, bisognerebbe mettere in campo anche l'ipotesi della rottura dell'alleanza e della riscossa di un governo moribondo, come quello Berlusconi: una responsabilità politica che Rifondazione comunista oggi non intende assumersi. Una scelta che, però, non significa né rinunce preventive a far pesare punti di vista e opzioni alternative né volontà di costruire compromessi di basso profilo: il segretario di Rifondazione fa rilevare, a questo proposito, la posizione generale sulla guerra (contro la guerra) appena varata tra gli otto punti generali dell'Unione e il riferimento esplicito all'articolo 11 della Costituzione. «Sì, certo, un riferimento irrinunciabile, prima di tutto dal punto di vista costituzionale». E poi? E poi, certo, per mettere su un programma avanzato si può partire dalla più volte prospettata «triplice abrogazione» - via, cioè, la legge 30, la controriforma Moratti, la Bossi-Fini. «Non ci può essere una buona scuola se c'è un cattivo lavoro, tutto fondato sulla precarietà e la selezione di classe precoce, e sulla noncittadinanza dei migranti». Altra domanda, altra insidia: ma per lei, Bertinotti, qual è la soglia del successo? Qual è la cifra che pensa di guadagnare? «Sopra il 12 per cento è un successo, sopra il 50 è vittoria», risponde, per nulla imbarazzato, il segretario del Prc. Qualche altro spunto - sulla "riforma della giustizia" che lede l'autonomia della magistratura, sulla sicurezza, che non può mai esser perseguita a prezzo dei diritti basici di libertà, su Zapatero, che forse «abbiamo sottovalutato», anche rispetto al tema che oggi si ripropone della laicità dello Stato. Qui, in fondo, finisce la conferenza stampa. E comincia un confronto appassionato sulle grandi domande che oggi ci sono poste giocoforza dalle sconfitte e dai drammatici fallimenti del XX secolo. A chi domanda se il comunismo potrà essere ancora una "promessa", Bertinotti risponde citando Marx - il Marx pensatore della rivoluzione prima che critico dell'economia, il Marx che parla della liberazione dell'umanità come di quel percorso che «abbatte lo stato delle cose presenti». Sì, il comunismo è definibile come progetto irrinunciabile (questo sì) di emancipazione e liberazione - non solo "dal" bisogno, ma dalla servitù del lavoro salariato e perfino dal lavoro, inteso come strumento inevitabile di sopravvivenza. Si può perfino parlare della ricerca necessaria della felicità: non perché, dice Bertinotti, abbiamo ancora in testa un'idea totalizzante della politica, della quale se mai avvertiamo il limite necessario e anche drammatico; ma perché «la politica non può espungere da se stessa, dalla propria ricerca, la felicità delle persone». La politica - ecco il punto - può, deve, rimuovere tutto ciò che ostacola e anzi rende impossibile, nella società modellata sul modo di produzione capitalistico, il libero sviluppo umano: ecco, ancora, il comunismo, come massimo possibile della politica e di un percorso di liberazione. Quello di cui ha detto Rosa Luxemburg, unica alternativa storica alla catastrofe. Quello che animava l'angelo di Benjamin. Ma sul "che cosa", sulla "cosa", bisogna essere molto sorvegliati, dice ancora Bertinotti: che mette in campo un'altra delle sue metafore preferite, quella tratta dal poeta greco Kafavis. Quando raggiungerai Itaca, scoprirai forse che è solo una distesa di ghiaia. Ma scoprirai che, in realtà, quello che dava senso al viaggio, era proprio il viaggio, non la meta. Una suggestione quasi irresistibile: ma, chiede Giulia Ingrao, non rischiamo così di perdere di vista l'orizzonte finale? Vorrei sapere quale può essere la "libertà di", oltre che la liberazione "da". Vorrei sapere, ora che siamo approdati di comune accordo all'idea di non violenza, se pensiamo ad una rivoluzione tutta e solo sul piano delle idee. No, risponde Bertinotti, la nonviolenza non è rinuncia al cambiamento: è la rottura, prima di tutto, di un paradigma conoscitivo, quello secondo il quale il potere, in fondo, è neutrale - se lo occupano gli altri è male, se lo occupiamo noi, si trasforma in bene. Sappiamo che non è più così, ma siamo appena all'inizio della scrittura di una nuova storia collettiva - siamo ancora nell'era dell'attesa, del "tempo che resta". Siamo ancora dentro la crisi dell'idea di progresso, nella quale pur siamo cresciuti: di fronte a noi, sì, ci sono alternative drammatiche, che non si superano secondo i canoni "consueti". Tra lo scientismo e il confessionalismo, tra l'enorme e sempre più incontrollabile sviluppo della scienza e della tecnologia e la regressione oscurantista ("neoconfessionale"), ci dovrà pur essere un'altra via - il controllo sociale della scienza stessa. Tra la violenza cieca della guerra e la violenza cieca del terrorismo, non ci può essere che la replica della pace. Tra la politica separata e la fuga astensionistica, non c'è che la rinascita della partecipazione. La scrittura - insieme - delle tante parole che ancora ci mancano. Vedete che le primarie possono essere un buon inizio?