mercoledì 21 luglio 2004

Shakespeare

una segnalazione di Dina Battioni



Repubblica 18.7.04

Otello e Re Lear grandi eroi scettici


Esce in Italia 'Il ripudio del sapere' dell' americano Stanley Cavell, considerato un classico nelle indagini sul drammaturgo inglese è uno studio sul pensiero dell' autore, nelle cui opere affiorerebbero le più importanti questioni filosofiche del suo tempo lui e Galileo nacquero lo stesso anno nelle sue parole l'eco di Montaigne e di Cartesio

di NADIA FUSINI




Questa volta a piegarsi di fronte al mistero di Shakespeare è un filosofo. Ne Il ripudio del sapere (Einaudi, traduzione di Davide Tarizzo, pagg. 288, euro 23) Stanley Cavell annuncia che vuole leggere Shakespeare, sente che lì c' è pane per i suoi denti. Disowning knowledge - questo il titolo in inglese - è raccolto nel 1987, dopo che parti di esso erano già affiorate in altri testi. La lettura di Otello, ad esempio, sbuca alla fine di The claim of reason del '79 (in italiano La riscoperta dell' ordinario, Carocci, 2001: ottima la traduzione di Barbara Agnese, illuminante la post-fazione di Davide Sparti). Il saggio su Coriolano sta nella raccolta Themes out of school del 1984; quello sul Re Lear conclude "Must we mean what we say?" del '69, l' ultimo è su Macbeth. .. Per anni, dunque, Cavell è tornato su Shakespeare, commentando i vari drammi e interrogandosi sul valore del suo teatro; fino a produrre questo libro, un classico ormai nel mondo anglo-sassone - in cui il filosofo americano riconferma la sua vocazione di pensatore che intende allargare i confini e rinnovare lo spirito della filosofia. è convinto infatti che il pensiero non lo si debba affrontare solamente sul terreno istituzionale delle accademie filosofiche, ma nella selva oscura della letteratura, del teatro, del cinema: nella tragedia shakespeariana, ora; nella commedia hollywoodiana (in altro testo celebre del 1981, che Einaudi ha pubblicato nel 1999 con il titolo Alla ricerca della felicità), nella poesia di Emerson, nel romanzo di Thoreau. Tutti luoghi animati da una riflessione sulla condizione umana. Questo libro, ripeto, è un classico in America, pur nella sua "differenza"; che da spirito libero e indipendente, Cavell pienamente rivendica, sostenendo che sì, c' è una «differenza inglese e americana» rispetto alla filosofia. Ovvero, la filosofia in America, in Inghilterra non ha mai prodotto filosofi che si disponessero all' ascolto della lingua dei poeti; niente di comparabile a Kant, a Hegel, a Schelling, a Heidegger. Ma ha senso, si chiede Cavell, che la filosofia continui a bandire la poesia, come è accaduto al suo principio? Alla domanda risponde schierandosi dalla parte della letteratura. Di una filosofia che corteggia, e costeggia la letteratura. Si chiede poi: il problema della comunicazione tra filosofia e letteratura è un problema filosofico, o letterario? Accetta la domanda, la riceve, l' accoglie, la fa sua, la tiene aperta, l' agisce, la sperimenta... Ed ecco il libro: questo. è un libro di filosofia? O di letteratura? Né l' uno, né l' altro, direi. è un libro in cui attraverso la lettura e parafrasi di alcuni testi shakespeariani si elabora e dipana un pensiero. Il pensiero cresce e prende forma e si precisa e si contraddice e si riassesta e si riarticola a contatto con quelle creazioni, grazie ad esse. Cavell non è lì per spiegarle. Le ri-racconta a se stesso, a partire dalla proprie domande. è un lettore terribilmente possessivo, interessato, di parte. Ma nell' ascolto di fatto si genera una risposta che sono quelle figure - Lear, Coriolano, Amleto... - a suggerire; e insieme, quella risposta le trasforma. E nuove identità nascono. Le opere sono per Cavell aperture; occasioni di contatto. Cavell ha una certa idea della filosofia come quella cosa che non prende la parola per prima. La virtù cardinale della filosofia è per lui la responsività, la sua attitudine a rispondere; la sua sensibilità, si sarebbe detto una volta. Il filosofo è colui che resta sveglio, quando tutti gli altri si sono addormentati. Ricordate Socrate? Ma se questo è il filosofo, chi è il poeta? Chi è Shakespeare? Il più grande scrittore in lingua inglese, risponde Cavell; anzi, l' ordinatore di quella lingua. Wittgenstein - pensatore caro, carissimo a Cavell - lo mette addirittura hors de la literature. E lo chiama non 'poeta' , ma 'creatore di linguaggio' . è a tutti gli effetti un fuori-classe. Cavell aggiunge: se lo è, è perché nella sua opera affiorano le grandi questioni filosofiche del tempo. è un fatto che Cavell fa notare; il fatto, cioè, che Shakespeare sia nato nello stesso anno di Galileo. è un fatto, anche, che se c' è una Weltanschauung elisabettiana, Shakespeare la manda in frantumi. Come fa la nuova scienza. Ma va anche detto che nel caso delle nuove concezioni che Shakespeare adotta - ammesso che potessimo con assoluta certezza conoscere quel che pensava lui, e non i suoi differenti personaggi - anche in quel caso, ogni nuova idea che entri nell' universo della sua creazione drammatica subisce di fatto un vero e proprio sea-change, tale da imporre al pensiero stesso una mutazione. Così Cavell, che ha letto le Meditazioni di Cartesio, leggendo Shakespeare che cosa scopre? Che il poeta ha sopravanzato il filosofo, e lo scetticismo moderno era già tutto lì, maturo, in Shakespeare. C' è Montaigne in Shakespeare, questo lo sapevamo. Ora scopriamo che c' era già Cartesio, il quale, come si sa, viene dopo di lui. C' è in Shakespeare, secondo Cavell, il problema non solo di come condursi in un mondo incerto; ma di come vivere in un mondo senza fondamenti. Cioè a dire: lo scetticismo in Shakespeare è da subito malattia grave. Il discorso di Cavell insiste con ostinata cadenza sullo scetticismo: lo scetticismo è per lui la filosofia; questo il suo chiodo fisso, la sua melodia ossessiva. E come sempre, quando uno ha un pensiero dominante, lo ritrova in ogni verso di Shakespeare che legge. A dimostrazione che si può far dire a Shakespeare ciò che si vuole? Sì e no. Perché in realtà lo studio di Cavell dimostra non che il filosofo riesca a manipolare il drammaturgo, ma il contrario. Shakespeare trionfa, obbligando il filosofo a dilatare il concetto, fino a farlo esplodere. Per Cavell Otello, Lear, Amleto, Macbeth, Coriolano, Leontes del Racconto d' Inverno, non fanno che riformulare in modo diverso lo stesso problema epistemologico; più precisamente si pongono rispetto al sapere e alla conoscenza in postura scettica. In Otello, ad esempio, il problema dell' altro si declina per il protagonista in un senso simile e diverso da Cartesio. Cartesio, sappiamo, se vuole provare con certezza l' esistenza di Dio, lo fa perché vuole con la medesima certezza non ritrovarsi solo al mondo. Nel caso suo, invece, il Moro con una certa quale audacia, sottolineo, mette al posto di Dio una donna finita. Solo che alla fine non regge a tale atto. Nemmeno lui ci crede che quella donna sia una dea, perfetta. Scommette tutto sulla di lei purezza, e poi bastano le chiacchiere insinuanti di quel demonio di Iago, a far crollare la sua fede. Ma perché Otello crede a Iago? Si domanda giustamente Cavell. Non è domanda sciocca. E se la si pone, non si può che correttamente rispondere: perché il dubbio orribile della depravazione di Desdemona è meglio della certezza inconfessabile della sua umanità. Come può Otello accettare che Desdemona sia carne e sangue e gli abbia dato quel che gli dà? La sua carnalità, la sua finitudine? Perché è sul terreno sessuale che Otello, come altri uomini, scopre la finitezza umana. Si può sfuggire alla condizione umana? Lo scettico ci prova. Ma non ci riesce. Per quanto riguarda Coriolano, anche qui si rappresenta il rifiuto dell' eroe eponimo a riconoscersi come parte dell' umano, del finito. Coriolano gioca la sua presa di distanza a partire dal rifiuto della lingua comune. Parlare è prendere e dare in bocca la materia che altri in bocca hanno preso e tenuto, parlare è accettare che passino di bocca in bocca le parole. La circolazione del linguaggio è per Coriolano un' espressione di cannibalismo, molto più pericolosa di quella letterale. Ma a partire da tale diniego, come arrivare a quel riconoscimento - necessario in politica, e Coriolano è eroe politico - il riconoscimento degli altri come i miei altri? Non posso qui riassumere le ricchissime osservazioni di Cavell su ogni dramma. Il libro vale la pena che lo si legga con attenzione. Dirò in generale che le sue letture sono interessanti per gli infiniti spunti di riflessione che aprono su temi e questioni filosofiche e morali e politiche; sono una specie di ginnastica mentale, uno splendido invito a tenere la mente in esercizio, un virtuoso richiamo a una specie di virtuosa ecologia della mente (e tra parentesi, non v' è dubbio che quello di Cavell con Shakespeare è un incontro che si manifesta come un civilissimo conversare: Cavell discorre, impegna, stimola, eccita la mente grazie all' interrogazione filosofica, e a me non dispiace affatto questo modo di fare e di pensare); sia però chiaro, e non lo dico per difendere la gilda dei critici a cui appartengo, che se ingaggio la conversazione con Cavell, so che Shakespeare è solo un pretesto. E i vari personaggi shakespeariani non sono che scorciatoie del pensiero; abbreviazioni di tipi umani. Voglio dire: se non ha senso chiedersi se Shakespeare fosse o no scettico (cosa che Cavell è il primo a riconoscere), siamo sicuri che ha più senso chiedersi, tanto per chiarire un aspetto dello scetticismo, se è scettico Otello? Se lo è Lear? Forse sì, forse no. Allo stesso modo: se sia lo scetticismo il nome giusto della filosofia oggi, confesso, non mi appassiona come tema. Per giocare col titolo del libro io mi autorizzo a una posizione dis-appropriante tale conoscenza. Attivamente rinuncio. Disowning knowledge ha questo senso attivo; c' è qualcuno (è il soggetto nascosto di quel gerundio), che rassegna le dimissioni da un compito di conoscenza che non riconosce. Come un' eredità che non lo riguarda. Ora, secondo Cavell, è questo il gesto proprio - rispetto alla conoscenza, che non è precisamente il sapere (in inglese la differenza è tra learning e knowledge) - che viene compiuto dallo scettico. Il quale non ripudia tanto il sapere; declina piuttosto l' offerta di quel che ci è imposto come un dovere di conoscere. è un atto interessante. Altrettanto interessante l' analisi che ne fa Cavell condotta su campioni letterari del passato. è un modo di dire che la letteratura conta. Ma per tornare alla "differenza americana" - non è certo il modo di Heidegger. Che Cavell invidia, ammira, ed evoca ad inizio del suo libro. Quando Heidegger presta orecchio a Holderlin, o Rilke, è chiaro che cosa accade: il filosofo ascolta nella lingua del poeta il pensiero sorgivo. Il filosofo sprofonda nella parola poetica, ascolta in essa l' evento della creazione. Ed esso risuona con pregnanza straordinaria, coinvolgendo l' ontologia stessa. Cavell non fa così: Cavell discorre, argomenta, discute con il testo come fosse già, esso stesso, un discorso. Non è la parola che interroga. Ripeto, è il discorso. Parafrasa, traduce, storicizza. Così, poco serve Cavell a leggere Shakespeare. Ho anche l' impressione, aggiungo per mitigare il giudizio, che poco o niente serva a leggere Shakespeare. Shakespeare lo si legge con Shakespeare. La conoscenza di Shakespeare è in Shakespeare. Non in un' altra lingua in cui tradurlo. Come non c' è un pensiero di pensiero. è nella forma drammatica, così come Shakespeare la trasforma, che egli conosce e ci fa conoscere. è quello il modo, in virtù del quale si scontra, e trascende, le aporie dell' esistenza, quelle del pensiero e quelle dell' esperienza. Ma è anche vero che questo libro ci guida a cogliere in Shakespeare, nei suoi eroi, un impulso incoercibile a dubitare. Di sé, del mondo. Della conoscenza. E della verità. Ed è vero, quel dubbio c' è. Non è un dubbio solo intellettuale, di chi riconosca un problema epistemologico al fondo della nostra umanissima esistenza. L' affezione grave dello scetticismo si manifesta quando dei viventi, non necessariamente filosofi - come viventi sono un melanconico principe danese, un re vecchio e folle, un regicida stregato, con cui ci identifichiamo - vogliono di più dalla conoscenza; quando per l' appunto a noi viventi ci viene l' ansia di toccare la realtà; quando ci ammaliamo per senso di impotenza e frustrazione; quando sentiamo di non poter conoscere l' altro, e ci accorgiamo di vivere in una profonda alienazione dalla comunità umana. Quando proviamo quello scoramento di fronte alla conoscenza umana così imperfetta, così limitata - che ci fa dire: non mi basta; la ragione non mi basta a spiegarmi il mondo, a farmi conoscere l' altro. Tutte cose di cui Shakespeare ci racconta, mostrandoci quante volte si manifesta nel cuore umano la volontà di esentarsi dalla nostra umanità. Ma tale esenzione è illusoria, ammonisce il poeta. Sortisce in fuga, subisce la tentazione, cioè, di una metafisica, insinua il filosofo. La verità è che - aggiungo io - è difficile condurre la propria esistenza sul terreno desolato della pura e semplice vita. Vorremmo dipendere da strutture sicure, vorremmo fondamenta certe a sostegno delle nostre fragili esistenze. E invece quante volte ci accorgiamo che le nostre parole girano a vuoto? E quanta insoddisfazione ci dà la nostra vita ordinaria! Ecco perché invochiamo Otello e con lui viviamo quel suo dubbio orribile. E condividiamo il disgusto di Coriolano per il mondo, e la nausea di Amleto: forme anch' esse estreme di rifiuto della vita. è proprio qui che si invera il titolo del libro e il "ripudio" - il dis-propriarsi della conoscenza, intesa come sapere - soccorre. Secondo il dettato holderliniano - heideggeriano. E - ancora - il poeta trionfa sul filosofo.