domenica 31 ottobre 2004

il potere delle immagini

Corriere della Sera 31.10.04

Paradossi: ma la Legge di Mosè condanna le immagini

di RÉGIS DEBRAY



Anticipiamo un brano della introduzione di Régis Debray a «La Bibbia nei capolavori della pittura» (Piemme) in libreria da martedì.



La Bibbia è protagonista di un affascinante paradosso: il Libro che proibisce le immagini si è trasformato in uno scrigno di immagini, è diventato il grande archivio dell’occhio occidentale. E proprio il racconto che ci ha consegnato il divieto di fabbricare e adorare idoli pena la morte - pensiamo alla spietata punizione riservata da Mosé agli adoratori del vitello d’oro - è una delle immagini bibliche più indelebili conservate nella memoria collettiva.

Su questo tema, il Corano è molto meno severo della Bibbia, tant’è che l’iconoclastia islamica si basa piuttosto su alcuni hadith, ovvero su parole del Profeta e su tradizioni trasmesse oralmente, che non fanno parte del Corano. Nell’Antico Testamento, invece, la fobia ossessiva nei confronti delle immagini nasce da Dio stesso. Ed è categorica, è una legge impressa da Dio su tavole di pietra in caratteri di fuoco.

A questo punto ci chiediamo: noi che ci concediamo il piacere di vedere ciò che dovremmo soltanto leggere, siamo forse tornati ad essere politeisti, animisti o stregoni? Passi la nostra caduta nell’idolatria, ma trascinare con sé anche il più iconoclasta dei testi sacri...

Per gli «inventori» del primo Dio privo di un’immagine, il rifiuto del simulacro fu il punto di partenza per affermare il mistero divino. Il punto d’arrivo è, oggi, la più grande pinacoteca del mondo. Questa metamorfosi sbalorditiva merita una riflessione. Si tratta di un indebito mutamento di rotta o di un’eccezionale ricompensa postuma che rende giustizia all’arte figurativa?

Eppure i profeti ci avevano avvertito: l’immagine ha la capacità di stregarci! Ha potere sulle cose e sugli spiriti. L’immagine appartiene alla sfera della magia, agli spiriti della notte, possiede un fascino femminino malefico. La magia è la manipolazione dei poteri dell’occulto attraverso strumenti e meccanismi materiali. La religione, invece, non vuole costringere l’uomo dentro la sfera materiale, ma permettergli di entrare in relazione con la (o le) divinità attraverso la preghiera, in un rapporto vivo e personale che, in linea di principio, dovrebbe fare a meno di oggetti concreti inerti, come lo sono un’immagine dipinta o scolpita.

Il monoteismo vorrebbe essere un «esercizio di lettura», al riparo dal benché minimo sospetto di idolatria; per questo respinge ogni immagine che pretenda di possedere una somiglianza con il divino e di sostituirsi con il simbolo verbale. E l’idolo non è soltanto l’immagine di un falso dio, ma anche la falsa immagine del vero: infatti, la verità del Dio infinito è incommensurabile e non si può esprimere attraverso i limitati mezzi materiali offerti dal basso mondo in cui siamo immersi. L’Invisibile è «leggibile», ma non «raffigurabile». Potenza della Parola, impotenza delle raffigurazioni. «Non avrai altri dei oltre a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo nè di quanto è quaggiù sulla terra, nè di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Esodo 20, 3-5). L’immagine è troppo piccola, e Dio troppo grande. Le immagini pesano molto, e l’uomo che ha un solo Dio vuole essere un viaggiatore senza bagaglio. L’ebreo errante, il viandante che mai riposa, l’homo viator - per la sua condizione di pellegrino su questa terra - è l’uomo del Libro. Egli non può né vuole caricarsi di altari, statue o effigi, pesanti fardelli che frenano la sua marcia verso il destino.

La Bibbia, tuttavia, è stata più forte di Dio. Ha fatto prevalere sui divieti una storia, o mille storie, che rimandano l’una all’altra e che si susseguono in fila indiana. L’Eterno enuncia i comandamenti, fissa gli obiettivi e ci ricorda freddamente i nostri doveri. Il suo ruolo è quello di intimidire. E’ un Capo. Sempre in piena forma. Il suo popolo invece fa registrare alti e bassi incredibili, passa continuamente dal vuoto di fede allo stato di grazia. La storia del popolo d’Israele è fatta di improvvisi e improbabili colpi di scena. Episodi che commuovono, angosciano, catturano l’attenzione. L’Eterno può, e certamente deve, fare a meno di immagini (Deus pingi non potest), ma laddove si racconta una storia, non si può impedire all’immaginazione di mettersi in moto, abbinando un volto a ogni nome e colorando la scena. Un Dio senza volto è sempre un po’ disumano, e non a casa le religioni che fanno capo ad Abramo e che separano il divino dal creato non sono certo le più tenere nè le più indulgenti nei confronti del peccatore, dell’apostata o dell’infedele. Fortunatamente, tra Lui e noi, c’è la Bibbia, che ci presenta un Dio più umano vicino, in attesa che il Figlio e il Vangelo rendano poi ancora più dolce e quasi materna questa «umanità» del Divino. Dio non ha nomi, nell’Antico Testamento è indicato da un tetragramma, talvolta soltanto da una pudica iniziale (l’enciclopedia dell’ebraismo si limita a una «D»). E non ha neppure forme, tant’è che quando appare prende le sembianze di un roveto ardente, ovvero un fuoco senza contorni ben definiti. All’inizio, violare il comandamento di non produrre immagini era grave quanto commettere un incesto o un omicidio. Esiste perfino un trattato contenuto nel Talmud, l’Avodah zarah, che impedisce a un ebreo di concludere un affare con un pagano idolatra nel giorno che precede una festa, per paura che quest’ultimo offra in sacrificio al suo idolo ciò che ha guadagnato. Ciononostante, gli Ebrei adorarono il vitello d’oro ed eressero altari a Baal e ad Astarte e posero anche due cherubini scolpiti sull’arca dell’Alleanza.

D’altra parte, viene da domandarsi: il divieto sarebbe stato formulato con tanta forza e consegnato a Mosé su tavole di pietra, e poi scandito e ripetuto da tanti profeti, se la rinuncia all’idolatria fosse stata tanto semplice?