giovedì 28 ottobre 2004

Savater: la normalità

La Stampa 28.10.04

DAGLI SCHIAVI NERI AI DISSIDENTI SOVIETICI AI MATRIMONI GAY: LA DITTATURA DELLA NORMA

La pensa diversamente? Allora è malato

di Fernando Savater



NON molto tempo fa, in pieno dibattito sulla regolamentazione del matrimonio tra omosessuali, ho letto che un vescovo giudicava l’omosessualità «un’anormalità psicologica», vale a dire una sofferenza patologica verso la quale si deve provare compassione come nei confronti di qualsiasi male, ma che non dev’essere riconosciuta come un diritto. Mi pare che a dare quest’opinione fosse il vescovo di Avila, ma non fidatevi troppo di me perché in materia di vescovi non capisco molto. Ciò che interessa è che, di fianco a questa diagnosi giornalistica, c’era la foto del religioso in questione: un uomo piuttosto giovane, con occhiali e aspetto concentrato che portava in testa una sorta di gigantesca cialda bianca di tela inamidata e vestiva un abito a metà tra una gualdrappa e un mantello da passeggio, un po’ rigido ma estremamente variopinto. Contagiato dal clima evangelico della questione, mi è venuta in mente la condanna espressa contro coloro che vedono la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel proprio. Perché, per parlare chiaro, abbigliarsi in quel modo e pretendere, per di più, di dare lezioni sulla normalità psicologica mi sembra, se non altro, un po’ stonato.

La tendenza a trasformare in «malati» quanti si comportano in modo eccentrico, ignobile o pericoloso, secondo il particolare criterio di chi decide caso per caso, è una tradizione assai frequentata e documentata sin dall’inizio della nostra epoca moderna e razionalista. Senza dubbio siamo in molti a ricordare, ancora, che i dissidenti del regime sovietico, quando questo divenne «umano» dopo la morte di Stalin, non venivano più liquidati in campi di concentramento: era invalsa l’abitudine di chiuderli in ospedali psichiatrici diagnosticando che le loro critiche nei confronti dell’utopia comunista erano sintomi di disturbo mentale e non risultato di lucidità politica. La cosiddetta intelligentja progressista europea era solita accettare queste diagnosi, proprio come oggi non mancano scrittori d’analoga indole pronti a sostenere che i prigionieri politici di Cuba sono semplicemente agenti della Cia.

Esistono precedenti molto più antichi. Ad esempio, nel numero di maggio del 1851 del New Orleans Medical and Surgical Journal, l’allora famoso dottor Samuel Cartwright pubblicò «una relazione sulle malattie e le peculiarità fisiche della razza negra», basato sulle sue attente osservazioni degli schiavi che lavoravano nelle locali piantagioni. Segnalava che una delle patologie più comuni era quella, da lui definita «drapetomania», il cui più evidente sintomo era: tentare di fuggire quando se ne presentasse l’occasione. Ad altri attribuiva un morbo ancor più dannoso: la «disaestesia etiopsis», che aveva come caratteristica quella di «rompere e distruggere tutto quello che gli passava per le mani... senza riguardo alcuno per i diritti di proprietà». Pochi anni dopo, in un manuale clinico pubblicato nell’Inghilterra vittoriana, il saggio dottor Curling segnalava una nuova piaga: la «spermatorrea». Chi ne era colpito - tutti maschi - mostrava una prodigalità suicida del proprio liquido seminale che sperperava allegramente sia da solo, sia insieme a complici di qualsiasi sesso. E a questo proposito lo specialista francese, dottor Lallemand, parlando della «spermatorrea», assicurava che si trattava d’una «malattia che degrada l’uomo, avvelena la serenità dei migliori giorni della sua vita e corrompe la società».

Prendo questi dati dall’interessante libro The Nature of Disease di Lawrie Reznek, pubblicato da Routledge & Kegan Paul nel 1987. Nel XX secolo la masturbazione ereditò, poi, i tratti malaticci dell’antica spermatorrea visto che, secondo alcuni, causava addirittura la mortale liquefazione del midollo spinale... Persino il dottor Sigmund Freud fa ancora eco a queste superstizioni con cui, durante gli anni della mia adolescenza, volevano spaventarci presentandocele come fatti scientificamente dimostrati... con un successo, diciamolo pure, men che mediocre.

Attualmente la propensione a trasformare in malattia quei comportamenti che si disapprovano sia igienicamente sia moralmente, è diventata generalizzata e, certo, non colpisce solo i vescovi. Da ogni angolo saltano fuori nuovi malanni, visti sotto forma di dipendenza, vale a dire come una mania che ci induce a continuare a fare quello che cento volte ci hanno detto di non fare... o quello che noi stessi abbiamo detto apertamente che non vogliamo continuare a fare. Ci sono «ludopati» che giocano più del necessario, sessuomani che non pensano ad altro che a fornicare, alcolisti, drogati di vario tipo, dipendenti da videogiochi o da telefono cellulare, drogati da lavoro che non si stancano mai di trafficare in ufficio e un sacco d’altri tipi di malattia creati su misura per quanti non vogliono guarirne. Prima tutto questo si definiva, al massimo, «vizio», ma adesso, anche molti tra gli stessi interessati, preferiscono dichiararsi malati e riconoscere che, a volte, abusano di quello che dovrebbero semplicemente saper usare.

E lo stato si preoccupa con molta attenzione di proteggere la cosiddetta salute pubblica, intesa, generalmente, come la decisione istituzionale d’impedire che qualcuno, casualmente o volontariamente, diminuisca la capacità produttiva propria o altrui, faccia sprecare pubblico denaro nella «riparazione» di certi danni, o accorci in qualche modo la durata del suo servizio come pedina nelle fatiche di questo mondo... Ah, padre Stato, non lasciarci cadere in tentazione! Aveva ragione il grande Karl Kraus quando, tanti anni fa, sosteneva: «Una delle malattie più diffuse è la diagnostica».

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