domenica 28 novembre 2004

«La Cina e l'Antonioni proibito»

DOMENICA, 28 NOVEMBRE 2004

La Cina e l'Antonioni proibito

di FEDERICO RAMPINI



PECHINO. Le proteste di chi non è riuscito ad avere i biglietti, un tafferuglio all´ingresso, la polizia che deve contenere gli spettatori, l´immensa sala gremita, e tantissimi giovani. È successo ieri sera a Pechino e non era un concerto rap. All´Accademia del cinema si proiettava un didascalico documentario, vecchio di 32 anni, lungo quattro ore, commentato in lingua straniera coi sottotitoli. Ma per i cinesi quel documentario è un mito. Fu realizzato qui in un periodo terribile della loro storia, tutti ne conoscevano l´esistenza, nessuno lo aveva visto. Era stato messo all´indice come un oltraggio alla Cina, il suo autore fu definito «un verme al servizio degli imperialisti» e additato come un traditore perfino nelle scuole.

Il film-tabù è Chung Ku-Cina di Michelangelo Antonioni, che ieri sera per la prima volta dal 1972 è stato riabilitato e proiettato davanti al pubblico cinese. Il regista italiano lo aveva filmato qui nel bel mezzo della Rivoluzione culturale, su invito del governo di Pechino che - per sua stessa ammissione - condizionò i suoi movimenti e scelse le cose che doveva vedere. Salvo poi censurarlo duramente con un editoriale del "Renmin ribao" (Quotidiano del Popolo) del 30 gennaio 1974 intitolato «Intenzione spregevole e manovra abietta».

Antonioni divenne pedina inconsapevole di un regolamento di conti tra fazioni. Lo aveva invitato il premier moderato Zhou Enlai, l´artefice dello storico incontro tra Mao e Nixon, che stava avviando la normalizzazione diplomatica con il resto del mondo. Antonioni doveva servirgli per rivelare la Cina agli occidentali dopo anni di isolamento, mostrandone un volto bonario e rassicurante. Ma contro Zhou Enlai era in agguato la «banda dei quattro», il gruppo estremista ispiratore della Rivoluzione culturale che includeva la moglie di Mao, e ci andò di mezzo Antonioni.

Eppure Chung Ku non prestava il fianco alle accuse. Non a quelle accuse. Rivisto oggi, colpisce per la sua simpatia verso il maoismo. La scelta dei soggetti è quasi sempre apologetica, una elegante traduzione della propaganda ufficiale: il patriottismo delle operaie in fabbrica, le sedute di dottrina rivoluzionaria, i canti e le gare dei bambini a scuola, il duro ma gratificante lavoro dei contadini nei campi, la giovane partoriente che subisce un cesareo senza anestesia (sostituita dall´acupuntura) con un beato sorriso sulle labbra. I commenti trasudano ammirazione. Durante il cesareo: «Anche le tecniche mediche vogliono dimostrare che si possono vincere grandi ostacoli con mezzi semplici». Di fronte alla povertà di massa: «Ci si sente contagiati da virtù dimenticate come il pudore, la modestia, la decenza». In sala scoppiano fragorose risate tra i ventenni.

La grande assente in Chung Ku è proprio la tragedia della Rivoluzione culturale. Nulla nel documentario lascia intuire ciò che sta accadendo davvero in quegli anni: l´uso golpista dell´esercito da parte di Mao per far fuori i moderati, le purghe di massa, le persecuzioni, i processi sommari, le autocritiche umilianti in pubblico, i lager dedicati alla «rieducazione», la chiusura delle università, gli studenti e i docenti mandati al confino nelle campagne, la paralisi della ricerca scientifica vittima delle battaglie contro la «cultura borghese». Certo Antonioni non fu il solo a non vedere. Alberto Moravia, che lo aveva preceduto in Cina esplorandola all´inizio della Rivoluzione culturale (1967), esaltò Chung Ku: «Le cose più belle del film sono le notazioni eleganti e autentiche sulla povertà sentita come fatto spirituale, prima ancora che economico e politico».

Mentre cresce la mia delusione, comincia a parlarmi nell´oscurità della sala la mia vicina di poltrona, una donna sulla cinquantina. Il 1972 era un anno importante per lei: «Il mio ritorno a Pechino, dopo che mi avevano costretto a servire nell´esercito». Di fronte al mio stupore per la censura ad un film così poco critico, mi corregge: «Io capisco che lo abbiano proibito. Mostrando come vivevamo, questo film ci rivelava più poveri e arretrati di quanto i nostri leader volevano far credere. Guardi quei contadini dello Hunan che fuggono dallo sguardo della cinepresa. Il commento del regista dice che non sono abituati a vedere stranieri ma la ragione è un´altra: si vergognano, come tutti i poveri del mondo». Grazie a lei vedo Chung Ku con altri occhi, quelli cinesi. Diventa meno innocuo. Nel centro di Shanghai appaiono nel 1972 casupole di una miseria africana, con tetti di paglia e mura di terra; lungo le strade senza automobili ragazzini seminudi trainano a braccia enormi carretti. «Sembra la Corea del Nord» sospira la mia vicina. Il suo giudizio su un´intera classe dirigente: «La loro colpa peggiore fu di tenerci nella povertà». Lo dice con la rassegnazione della generazione perduta, che vede la Cina di oggi e pensa che tutto sarebbe potuto accadere trent´anni prima.

Antonioni ha la sua rivincita. I commenti invecchiano male. Le immagini, anche incomplete, hanno una forza che non si piega