giovedì 30 dicembre 2004

MARCO BELLOCCHIOmartedì 28.12 in prima pagina sul Corriere della Sera

citato al mercoledì



Corriere della Sera 28.12.04


MARCO BELLOCCHIO

«Io, contro i cattolici oscurantisti»

di ALDO CAZZULLO



«Nel mio nuovo film, "Il regista di matrimoni", parlerò del ritorno del cattolicesimo più oscurantista, con il suo carico di conformismo e oppressione», racconta il regista Bellocchio.

A pagina 20




«Io, contro il cattolicesimo oscurantista»

Marco Bellocchio: «oggi le chiese sono sempre più vuote ma in tv ci sono sempre più preti»

di Aldo Cazzullo

Sto studiando i nuovi riti degli integralisti. come la cerimonia nuziale celebrata con gli sposi prostrati sul nudo pavimento.



FREUDISMO IN CRISI

La crisi del freudismo e del marxismo ha lasciato campo libero al dilagare dei vescovi.




BUONGIORNO NOTTE

«Buongiorno notte» è stato capito più a destra che a sinistra. Ma non me la sono presa.




LA RIBELLIONE

Non faccio parte della famiglia culturale ma non rinuncio alla ribellione con l'arte.




IL MIO COLLEGIO

Noia, regola, ordine. E in quella scuola di mediocrità ho smesso di credere in Dio
«C’è un regista, Sergio Castellitto, in crisi perché la figlia ha sposato un fervente cattolico catecumenale, e perché gli tocca girare l’ennesima versione dei Promessi Sposi. Cerca i volti femminili per il suo film ma non li trova, rifiuta la rappresentazione cattolica della donna come angelo o demonio, Lucia o la monaca di Monza. Così fugge in un paesino della Sicilia profonda, dove incontra un regista di matrimoni...». «Il regista di matrimoni» è il prossimo film di Marco Bellocchio, che segue il successo internazionale di Buongiorno notte , ma si ricollega piuttosto alla sua penultima opera, L’ora di religione . Stesso protagonista, Castellitto, e analogo tema: «Il ritorno del cattolicesimo, con il suo carico di conformismo, di oppressione, di condizionamento, di educazione alla mediocrità. Proprio ora che le chiese e i seminari sono vuoti, ora che il grande apparato cattolico è messo in discussione, il suo dominio da assoluto si fa virtuale. Basta guardare la tv, nella sua fatuità e menzogna sistematica: ovunque, dall’ Isola dei famosi ai talk-show alla fiction, c’è sempre un prete, un cardinale, un cattolico fervente. Nella vita ci si sposa più in municipio che in chiesa, le suore sono quasi tutte nere o asiatiche come le badanti, i conventi si riconvertono in bed&breakfast, non si va più a messa; eppure per la tv e per la politica sembra che a messa vadano tutti. Si scrive una legge oscurantista sulla procreazione assistita, si arriva all’eccesso, assurdo più che criminale, di vietare i preservativi in Africa dove una donna su tre è sieropositiva».

Il tema dell’oppressione e del conformismo viene da lontano, da uno dei primi film di Bellocchio, Nel nome del padre , ambientato in un collegio religioso degli anni ’50. «Sono nato nella guerra, da una famiglia borghese, provinciale, anzi paesana. Mio padre, avvocato a Piacenza, veniva da una famiglia di agrari di Bobbio, non ostile al fascismo. In casa avevamo l’autografo del Duce che si congratulava per la numerosa prole: otto figli. Io ero l’ultimo. Mia madre era religiosa. Mi mandarono prima dai fratelli delle scuole cristiane, poi in liceo a Lodi, dai barnabiti. Un collegio per benestanti e paganti, il che forse contribuì a proteggerci da violenze o devianze. Non ho ricordi drammatici, nulla più di un frate che allunga le mani verso i calzoni corti degli allievi, nulla che ricordi le vicende che abbiamo visto in questi anni al cinema, da Magdalene alla Mala educación di Almodovar. La cifra era semmai la noia, la regola, l’ordine: la messa ogni mattina, che diveniva spesso un prolungamento del sonno. Era il collegio che ho poi raffigurato nel mio film, con le divise e i ritratti dei benemeriti, e il vicerettore che dice allo studente ribelle: noi non educhiamo superuomini, insegniamo ad accettare la realtà, a obbedire alle leggi, a rispettare le istituzioni. È stato allora, in quella scuola di mediocrità, che ho smesso di credere in Dio e nella trascendenza, di rappresentare l’angoscia e la paura con le fiamme dell’inferno. Questo non significa ovviamente che l’angoscia e la paura siano passate».

In quasi tutti i film di Bellocchio c’è un ribelle, e c’è un genitore da assassinare. Nel primo, autoprodotto nel 1965 con un mutuo da 20 milioni ottenuto grazie al fratello Piergiorgio, il protagonista annega il fratello e getta nel burrone la madre. «Il mite vendicatore dell’Appennino, come lo definì Moravia, avrebbe dovuto essere Gianni Morandi. Si era appena rivelato come cantante, e imprevedibilmente accettò la parte. Fu bloccato dai produttori e dal padre che gli disse: se fai quel film ti spezzo le gambe». Era I pugni in tasca, successo ripetuto due anni dopo con La Cina è vicina, premiato a Venezia dalla critica insieme con La chinoise di Godard. «Il titolo lo presi da un libro di Enrico Emanuelli del Corriere , che signorilmente me lo concesse subito. Era una satira della vecchia politica ma anche del maoismo di provincia; Godard invece ci credeva davvero, e quando Bertolucci gli chiese adorante un giudizio su Ultimo tango a Parigi rispose mettendogli in mano il libretto rosso. Sbagliava, perché Ultimo tango è un grande film. Poi arrivò il Sessantotto, e divenni maoista anch’io. Alla mia maniera, un po’ appartata. Alla fine del ’67 ero andato a Torino a vedere l’occupazione di Palazzo Campana: incontrai Viale e Luigi Bobbio, mi unii a loro, fui portato anch’io via di peso dalla polizia. Poi entrai nell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti ma al contrario di altri non vi portai il patrimonio di famiglia, anche perché era indiviso e la gestione spettava a Piergiorgio. Però andai in Calabria a girare Paola, un film sull’occupazione di case guidata da Enzo Lo Giudice, che diventerà l’avvocato di Craxi. Filmai il comizio del nostro capo, Aldo Brandirali, oggi assessore di Formigoni. Già allora c’era una venatura cattolica nella nostra idea di rivoluzione: riscattare i poveri, "servire il popolo" appunto».

La militanza dura poco, fino all’estate del ’69. «Quando scoppiò la bomba in piazza Fontana ero a Milano, per una regia al Piccolo, il Timone di Atene. Mi fu chiaro di aver imboccato una strada che non portava a niente. Anche perché noi eravamo nonviolenti, lontanissimi da quel che sarebbe accaduto dopo». Pure il film di Bellocchio sul caso Moro racconta dell’assassinio di un genitore, anche se alla fine il prigioniero se ne va libero sotto la pioggia. « Buongiorno notte è stato capito più a destra che a sinistra, a sinistra qualcuno si è irrigidito di fronte all’infedeltà storica. Mi ha criticato pure il mio vecchio amico Goffredo Fofi, che vedevo da ragazzo nelle riunioni dei Quaderni piacentini insieme con Piergiorgio e Grazia Cherchi. Ma non me la sono presa. Non faccio parte della famiglia culturale né di quella cinematografica. Continuo a sentire il richiamo della ribellione, anche se per l’artista si traduce in una rivoluzione formale, attraverso l’arte. E dell’ engagement, dell’ingaggio che mi obbliga ad affrontare gli altri».

Bellocchio non è affatto convinto che sia Almodovar a rappresentare meglio l’impulso a destrutturare la famiglia, la tradizione, il conformismo cattolico. Nella richiesta dei gay di sposarsi vede un elemento di normalizzazione. «Un film che semmai destruttura è l’ultimo di Nanni Moretti, La stanza del figlio, dove si mette in scena la crisi di una certa psicanalisi. Al disastroso fallimento del comunismo si accompagna il fallimento del freudismo, della teoria che accetta il mondo così com’è, sostiene l’inconoscibilità dell’inconscio, l’inguaribilità dell’uomo, il controllo e la rassegnazione come forma di sanità. È una prospettiva che non ho mai accettato (e non rinnego nulla della stagione in cui ho lavorato con Massimo Fagioli, quella de Il diavolo in corpo, La condanna, Il segno della farfalla: la sua teoria e la sua prassi, cioè l’analisi collettiva, sono un contributo prezioso al dibattito che si va sviluppando sulla nonviolenza nella sinistra italiana). La crisi del freudismo e del marxismo, con la sua critica dell’ideologia religiosa che condiziona e diseduca le classi oppresse, ha però lasciato campo libero al ritorno del cattolicesimo».

Già ne L’ora di religione Bellocchio ha rappresentato il lato oscuro della fede, le trame vaticane, l’aristocrazia nera papalina. «Per il prossimo film sto studiando i nuovi riti degli integralisti cattolici, come la cerimonia nuziale celebrata con gli sposi prostrati sul nudo pavimento. Il matrimonio della figlia del protagonista potrebbe essere messo in scena così. E nella fuga in Sicilia Castellitto ritroverà una donna, figlia di un principe decaduto, costretta a sposare per interesse un avvocato vedovo. Gli verrà chiesto di filmare il matrimonio. Ma lui se ne innamorerà, sino al colpo di scena finale. Sto cercando un volto femminile che ricordi lo stilema della principessa triste, Soraya, Grace Kelly, Diana. Una donna molto riservata, non priva di una sua energia, che però rischia di perderla...». L’antidoto a questo clericalismo senza chierici secondo Bellocchio va cercato nell’uomo, e nella psiche. «La sinistra, di cui mi sento ancora parte, ha ridicolizzato la ricerca dentro l’inconscio. Ha tardato a riconoscere l’esistenza della malattia mentale, continuando a pensare in termini di bene e di male. E tuttora trascura la componente irrazionale dell’uomo, le passioni, gli affetti, i sentimenti; che è invece importantissima, può aiutarci a spiegare fenomeni gravi come il suicidio dei giovani, può rappresentare una grande novità politica. Marx ci aveva insegnato a leggere la società in termini di profitto, sfruttamento, rapporti di produzione, macchine, e a rappresentare la storia come corsa ineluttabile verso la rivoluzione. Ora sappiamo che sbagliava, ma non per questo dobbiamo rassegnarci alla dimensione religiosa della carità, del volontariato, dell’assistenza, della rinuncia a cambiare le cose».



La carriera

GLI STUDI Marco Bellocchio nasce a Piacenza nel 1939 dove frequenta il ginnasio in un collegio ecclesiastico e il liceo a Lodi. Frequenta corsi di filosofia all’Università Cattolica e poi si iscrive al Centro sperimentale di cinematografia

L’ESORDIO

Nel 1965 esordisce clamorosamente con I pugni in tasca, opera molto cruda sullo sgretolamento della famiglia

I FILM

Sono 21 i suoi film. L’anticonformismo di Bellocchio trova una dimensione in La Cina è vicina del 1967 e Nel nome del padre del 1972. Gli ultimi due film sono stati L’ora di religione (2001) e Buongiorno notte (2003)



una segnalazione di Lucia Massi:



«Ma il Cattolicesimo non è Oscurantista»Dalla casa del padre all' Oriente


IL DIBATTITO / Lo scrittore Giorgio Montefoschi replica al regista Marco Bellocchio. «D' accordo su tre cose, altre mi stupiscono»



Marco Bellocchio è un uomo mite, per il quale ho molta simpatia. Dei suoi film ho ammirato in particolar modo il primo, I pugni in tasca: mi piaceva quella smania di ribellione, quell' ansia irrazionale di libertà, vissuta nel luogo «giusto»: la famiglia, la provincia. Della lunga intervista concessa ieri ad Aldo Cazzullo sul Corriere, non posso non condividere tre cose. La prima: i preti in Tv. Ha proprio ragione Bellocchio: stanno dappertutto, dove non dovrebbero essere, ed è proprio ora di smetterla. La seconda: il riconoscimento del fallimento della sbornia rivoluzionaria e sessantottina dalla quale Bellocchio fu contagiato come parecchi altri. Però... però, quando i sobri o gli astemi provavano a spiegare agli avvinazzati che il troppo alcol faceva male quante accuse di essere fascisti, ce lo ricordiamo, o no? E gli ineffabili che ancora inneggiano al comunismo? La terza: ammettere che la «sinistra ha ridicolizzato la ricerca dentro l' inconscio... e tutt' ora trascura la componente irrazionale dell' uomo, le passioni, gli affetti, i sentimenti...». Per il resto, alcune affermazioni di Marco Bellocchio sul cattolicesimo mi hanno francamente stupito. Oggi, dice Bellocchio, le chiese sono vuote, nessuno va a messa. È probabile che non tutti coloro i quali si professano cattolici vadano in chiesa e che le messe siano, molto spesso, ascoltate superficialmente o accompagnate da bruttissimi canti. Ma le chiese non sono vuote: basta andarci. «Le suore» dice ancora Bellocchio, «sono quasi tutte nere o asiatiche, come le badanti». Questo, non è vero; e neppure troppo elegante. Basta andare negli ospedali. Ancora: «Si scrive una legge oscurantista sulla procreazione assistita». Vero. Quella legge forse non andava scritta. Ma la chiesa fa il suo mestiere: si può essere d' accordo o no. A sbagliare sono stati eventualmente i laici che l' hanno scritta. Infine: «La crisi del freudismo e del marxismo ha lasciato campo libero al ritorno del cattolicesimo». Che vuol dire Bellocchio? Il cattolicesimo è un fenomeno che «viene e va»? Sembrerebbe una visione infantile e riduttiva di un fenomeno religioso. Come a dire: il ritorno dell' induismo? Qualcuno oserebbe accostarsi ad un bramino assorto in meditazione sulle rive del Gange per dirgli: lei è consapevole che sta tornando l' induismo? Le religioni non vanno e vengono: sono. Perché come inconsapevolmente anticipa Bellocchio, rispondono a quelle domande irrazionali di cui lui parla, che la sinistra ha distrutto. La Chiesa come tutte le istituzioni terrene, è largamente imperfetta. Tuttavia la visione oscurantista del cattolicesimo nutrita da Marco Bellocchio mi sembra a sua volta un poco oscurantista. Il cattolicesimo è infatti anche tante altre cose, oltre a quelle che vede o teme Marco Bellocchio. È carità, per esempio, amore, volontariato: quelle dimensioni dell' animo umano alle quali Bellocchio non vuole, per esempio, rassegnarsi. I problemi del cattolicesimo moderno sono semmai altri. Sono problemi che nascono dalla dimenticanza: quando i cristiani cattolici dimenticano a cosa deve credere oggi, sempre, un cristiano (ma è anche comprensibile, perché ai cattolici si chiede di credere a cose «impossibili»: al Dio fatto uomo, allo scandalo della croce, alla resurrezione della carne) e si occupano di altro. O nascono dalla disattenzione: dalla abitudine ad ascoltare la Parola senza riflettere più sul suo senso. Una settimana fa, sono capitato, all' alba, nella chiesa di Sant' Anselmo, nel quartiere romano dell' Aventino: dove Cristina Campo e Elsa Morante andavano ad ascoltare il gregoriano. C' erano una dozzina di benedettini. Alcuni cinesi, altri neri, altri tedeschi. Celebravano la messa. Il Vangelo era di Luca: il Magnificat. La Vergine che dice: la mia anima magnifica il Signore... il celebrante, credo americano, ha tirato fuori un foglietto e letto l' omelia. Due minuti d' orologio. Il messaggio era il seguente: fratelli, parole bellissime, però non ci abituiamo, non ce le facciamo scorrere addosso. Era tutto molto bello. È vero. Certo: magari tutte le messe fossero così!