domenica 30 gennaio 2005

Novi Ligurecosa dice Omar

La Stampa 30.1.05

Omar: «Sono cambiato. Adesso posso farcela»

«Quel giorno forse è stata colpa della droga, ma non nominatemi Erika. Ora studio e andrei anche a spaccare pietre, sarebbe una giusta punizione»

Giampiero Paviolo




Dice Omar: «Sono sicuro che papà non pensa quello che ha detto, so che mi vorrebbe a casa». Dice Patrizia, la mamma: «Lasciate in pace mio marito, oggi non è venuto per non correre il rischio di dover rispondere alle domande dei giornalisti. Tutto si aggiusterà».

Sì, forse tutto si aggiusterà, anche se pare impossibile a guardare le lacrime di questa donna piegata dal dolore, morta milla volte da quella notte che le ha rubato tutto, il figlio, un’esistenza normale, il lavoro.

Giorno di visite al carcere di Quarto, periferia astigiana. Omar ha per tutti un cognome, Favaro, da quando ha compiuto la maggiore età. Era un ragazzo di 17 anni quando, insieme con la fidanzata Erika De Nardo, massacrò a coltellate la mamma e il fratellino di lei, Susy Cassini e Gianluca, 13 anni appena. Per quel delitto doveva scontare 14 anni. Avendo già consumato un quarto della pena ed essendo all’epoca dei fatti minorenne, potrebbe usufruire di un permesso premio legato a un «progetto di risocializzazione». In parole povere: attività di volontariato. Nei giorni scorsi era sembrato che proprio il padre di Omar intendesse opporsi a un rapido ritorno a casa del figlio: troppo presto, diceva. Lui non vuole crederci: «Senza il loro aiuto non sarei mai uscito da quest’incubo, mi hanno dato la vita un’altra volta». Loro, quel che resta della vita stanno provando a rimetterlo insieme in un’altra città, dopo aver lasciato il piccolo bar di Novi.

Giorno di visite e di confidenze. E’ arrivato un parlamentare della Lega, il deputato europeo Mario Borghezio. Non è uno tenero con chi si è reso responsabile di delitti efferati, e il suo pensiero sui meccanismi premianti preferisce non esprimerlo qui e oggi: «Sono venuto per verificare se dentro il carcere il ragazzo può seguire un percorso culturale che lo aiuti a riabilitarsi, insomma che non sia trascurato nulla». Molto è stato fatto. Non tutto: quando era al Ferrante Aporti ha potuto seguire un corso di cucina («so fare le pizze»), uno di meccanica grazie all’aiuto di un artigiano torinese, un altro di computer, ma è stato costretto a interromperlo prima del tempo, trasferito ad Asti. In compenso, qui ha trovato la possibilità di riprendere gli studi da perito elettrico, bruscamente interrotti il giorno della tragedia di Novi Ligure.

A vederlo così sembra uno come tanti, un ragazzo un po’ malinconico, il fisico asciutto di chi fa sport («gioco a calcetto»), gli occhi intelligenti. Difficile immaginarlo come il pupazzo manovrato da una fidanzata poco più che bambina: «Non lo so, forse è stata colpa della droga, o chissà. Ma basta, non voglio sentir parlare di Erika, mai più. Sento solo un grande rimorso per quello che ho fatto, e tanta voglia di riscattarmi». Borghezio quasi lo provoca: «Se te lo chiedessero andresti, che ne so, a raccogliere pietre nei fiumi per due anni?» «Lo accetterei, forse la sentirei come una cosa giusta».

Tre anni al Ferrante Aporti, quattro compagni di cella, nessun problema di convivenza. I giorni con la psicologa che lo ha sempre seguito, con i sacerdoti, le visite di mamma e papà, il processo. Quello vero e quelli mediatici: «Alcune trasmissioni viste in tv hanno procurato un enorme dolore ai miei, alla mamma in particolare. Un altro rimorso che mi porto dentro. A volte mi arrabbio, come quando presentarono tutta questa storia e l’unico a parlare era il criminologo che ha seguito Erika, nemmeno il mio avvocato c’era. Pazienza, forse è un prezzo da pagare, come una condanna nella condanna».

La maggiore età, il trasferimento a Quarto, sezione A2. In cella con un adulto, un uomo sui quaranta. «Andiamo d’accordo. Che si fa? Lezioni, tanta tv, tanti libri. Sto studiando il periodo di Boccaccio e Dante. Tra tutti preferisco il Manzoni dei ‘’Promessi sposi’’». Briciole di normalità oltre la tragedia: «Della tv mi piacciono i telegiornali, lo sport, i quiz, provo a risolvere quelli di ‘’Passaparo- la’’». Speranze: «Posso farcela. L’esperienza del carcere non è stata negativa, so di essere completamente diverso da quel giorno». Le delusioni: «Una, dura da mandar giù: è stato quando mi hanno negato il permesso per trascorrere il Natale con i miei. Ci speravo, la notizia che il giudice aveva detto no è stata una mazzata. Per fortuna, pochi giorni dopo, si è aperto uno spiraglio. So che non sarà domani, non sarà prestissimo. Ma adesso ho una prospettiva di vita più vicina». Gli amici? «Mi sono mancati, certo, qui è facile avvertire la solitudine. Scrivo molte lettere, in particolare a un sacerdote di Genova che mi è sempre stato vicino. Ecco, una cosa l’ho imparata bene: c’è tanta gente pronta a giudicare senza conoscerti, ma anche tanta disposta ad aiutarti senza giudicare».