lunedì 28 febbraio 2005

Donald D. Winnicott«l’odio è indispensabile alla felicità»

La Stampa Tuttolibri 26.2.05
Winnicott, scacchista della psiche:
l’odio è indispensabile alla felicità

BIOGRAFIA E ANALISI DELLE OPERE DI UN PENSATORE
FUORI DAL CORO E SPESSO FRAINTESO, CHE HA STUDIATO
TRA L’ALTRO L’IMPORTANZA DEI SENTIMENTI NEGATIVI
Alessandro Defilippi

CLARE Winnicott, ricordando il marito Donald a diversi anni dalla morte, disse di lui: «Voleva vivere (…) E alla fine ha scritto questa frase: ”Preghiera: Oh, Dio, possa io esser vivo quando muoio”. E lo era davvero».
Donald D. Winnicott, pensatore eretico e creativo, che a 74 anni, pochi mesi prima di morire, salì sulla cima d'un albero per potarlo, perché «oscurava la vista», fu un uomo profondamente vivo, che entrò nella morte ad occhi aperti. Di lui ci parla F. Robert Rodman, analista nella Città degli Angeli, a Beverly Hills, nel suo Winnicott, vita e opere, un monumento pubblicato da Raffaello Cortina a un anno dalla comparsa negli USA.
Winnicott è stato un outsider nel mondo complicato e pettegolo della comunità psicoanalitica internazionale. Allievo sui generis, critico e amico di Melanie Klein, molto apprezzato da Anna Freud, viene abitualmente annoverato nel gruppo dei cosiddetti Indipendenti britannici, autonomi rispetto al conflitto tra le stesse Klein e Anna, entrambe convinte di essere le vere eredi del grande vecchio Sigmund.
Winnicott era un dinosauro in un epoca in cui la British Society of Psychoanalysis era dominata da analisti laici: pediatra di formazione, non cessò per lungo tempo di esercitare la professione medica. Si occupò di bambini, ma, pur senza aver mai ricevuto uno specifico training nell'analisi di adulti, il suo lavoro e la sua opera sono fondamentali anche in questo campo.
Esiste, nella cultura inglese, un lato ad un tempo oscuro e giocoso, quello che ha prodotto la grande letteratura gotica e Tolkien, Lewis Carroll e la pittura di Bacon, Alan Turing e i nonsense di Edward Lear: una modalità creativa del tutto singolare rispetto all'Europa continentale e agli Stati Uniti, radicata nell'empirismo, nell'indipendenza, nella capacità di stupirsi e nel gioco. A questa tradizione trasversale risale, a mio parere, la peculiarità di Winnicott, analista visionario e poetico, che si sentiva una sorta di gemello di Jung, il Giosuè predestinato da Mosè-Freud.
Il libro di Rodman segue il doppio registro della biografia e dell'analisi delle opere. Come spesso accade in testi simili, scritti da analisti su analisti (il cui modello insuperato, nel bene e nel male, resta Vita e opere di Freud di E. Jones), il tono tende talvolta a scivolare verso l'interpretazione, offrendoci il Winnicott paziente post mortem dell'analista Rodman, con tutte le idiosincrasie, i giudizi e i moralismi dell'autore.
Indicative in questo senso sono le molte pagine spese sul rapporto tra Winnicott e Masud Khan, rispetto a cui si moltiplicano le diagnosi di antisocialità. È un limite che pare insito nella stessa mentalità psicoanalitica, paranoica per definizione: come d'altronde potrebbe non essere almeno un po' paranoico chi si occupa ogni giorno di ricercare il lato segreto del mondo? La lotta per il potere, nelle società analitiche, si è sempre svolta a colpi di psicopatologia, fin dal tempo in cui Ferenczi fu accusato da Jones di essere pazzo. Sembra talora che gli analisti non possano accettare di entrare in rapporto con l'Altro se non attraverso lo schermo del loro sapere tecnico, con infinite variazioni sul tema «tu sei patologico e io no».
Al di là di questo limite, forse inevitabile, il libro di Rodman è un'opera fondamentale su un intellettuale luminoso e oscuro, sempre fuori del coro e spesso frainteso, come Winnicott. L' unicità del pensatore è confermata dal fatto che non esiste una scuola ispirata a lui, mentre le sue intuizioni si ritrovano spesso nell'opera di altri analisti, come Bion, sotto forma di debiti raramente riconosciuti.
Ma quel che colpisce, nella vicenda umana e spirituale di Winnicott è l'estrema libertà di pensiero, quella stessa che lo ha fatto paragonare ad un cavallo del gioco degli scacchi: «i suoi movimenti erano unici, imprevedibili, obliqui». La sua capacità di porre in luce i sentimenti negativi e la loro importanza, l'"odio", come lui lo chiamava, o la spietatezza, «indispensabile alla felicità umana» è pari alla spericolatezza con cui mette in gioco il corpo nella relazione analitica, attraverso il concetto di holding, ossia di contenimento non solo psichico ma anche fisico. Anche qui si può riconoscere un legame tra lui e altri grandi eretici, come Ferenczi, che si lasciava baciare dalle pazienti, o Jung, che permetteva l'espressione fisica, per esempio nella danza. È significativo notare come - alla fine - la vera "eresia", il vero pericolo, sia stato sempre avvertito dalla comunità analitica proprio lì, nel corpo, il grande rimosso, come rimossa è la morte. E d'altronde Winnicott critica esplicitamente «gli analisti che sanno troppo».
Molte sarebbero le cose da sottolineare in questo bel libro, come lo spazio riservato alla teoria degli oggetti transizionali (la coperta di Linus, per intenderci), o le pagine sul «diritto di non comunicare» o sul rapporto tra paranoia e guerra, o ancora quelle sul Vero e il falso Sé. Mi piace però concludere con una citazione dolente e definitiva: «(…) ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto». Speriamo di rimanere tanto vivi anche noi, fino alla morte.