lunedì 30 maggio 2005

poeti

il manifesto 28.5.05
Poeti al servizio del dio della parola
Da Omero a Rimbaud, il racconto della vita di sette autori fra i più grandi di ogni tempo, in Amore lontano di Sebastiano Vassalli, da poco uscito per Einaudi
Attilio Lolini

Un romanzo sui poeti, ossia sulla parola poetica, in un tempo in cui i libri vengono venduti confezionati e surgelati, è un'impresa non da poco. A distanza di molti anni dal suo romanzo-verità su Dino Campana, La notte della cometa (dove la vita del grande marradese veniva liberata dai luoghi comuni cari ai critici ufficiali e ai professori universitari più o meno in buona fede), Sebastiano Vassalli torna, con Amore lontano (Einaudi, pp. 192, euro 16,50), a narrarci di poeti, tra i più grandi d'ogni tempo - Omero, Qohélet, Virgilio, Jaufré Rudel, François Villon, Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud - sollevando e spazzando la polvere che sopra di loro i secoli avevano accumulato, insieme alla retorica dei manuali e dei libri di testo che li rendevano (e li rendono tuttora) ostici e illeggibili a legioni di studenti. Liberati così dai paludamenti, dalle gualdrappe scolastiche, questi celebri e, in sostanza, sconosciuti personaggi tornano a vivere come uomini normali con le loro nevrosi e la loro ingenuità e con i vizi e le virtù di ogni umano ma con una vistosa eccezione, quella di aver pronunciato e scritto parole che hanno senso e valore per tutti, per ogni epoca, per ogni tempo. Ogni volta che il miracolo della poesia torna a manifestarsi, nota Vassalli, pare che sia per l'ultima volta anche se non è così. Certo il miracolo non è frequente ma si verificherà finché esisteranno le parole che uniscono a un qualcosa fuori dal loro mondo. Fin dai dai tempi di Omero, fino al «divino monello» Rimbaud, la poesia «trattiene» la vita, anzi è la vita. Proprio con il più antico poeta a cui sia stato dato un nome, Omero, si apre il romanzo di Vassalli: l'autore dell'Iliade e dell'Odissea, un cantore cieco in un tempo in cui la cecità era una condizione ideale per essere poeti, un cieco ossia un nessuno, un involucro vuoto di storie, un uomo che può essere Achille e Ettore, Polifemo e Penelope e tutti gli altri meravigliosi personaggi dei poemi e poi quell'Ulisse, che è la prima figura della letteratura occidentale, che rende narrabile un mondo che prima di lui non si poteva raccontare essendo dominato dalle forze della natura. Vassalli immagina e descrive la morte di Omero nella strada assolata piena di sassi e di polvere che era stata il palcoscenico della sua vita. È accompagnato da un ragazzo, Lica, che poi l'abbandona lasciandolo vagare in una terra ostile e pericolosa; cade, si rialza, cade ancora, poi vengono ad «assisterlo» i suoi personaggi, ma la sua fine è quella di uno dei tanti vecchi abbandonati del suo tempo e di tutti i tempi. Poi Qohélet, ossia il mitico autore dell'Ecclesiaste che, approssimativamente, si potrebbe anche chiamare l'uomo che parlava nelle assemblee, un poeta del tutto laico che ha anche il buon gusto di non negare l'esistenza di Dio (oggi diremmo un materialista o un illuminista). Da qui l'aspetto straordinario dei suoi versi che lo fanno vivere, dice Vassalli, anche fuori dalla Bibbia e da ogni tempo. Il «poeta» Qohélet è assai caro allo scrittore le cui tracce si trovano vistose nei suoi romanzi, così come Virgilio, l'autore dell'Eneide che Vassalli ha fatto «rivivere» nel suo racconto Un infinito numero.

Virgilio come poeta ufficiale dell'Impero romano prediletto da Augusto e autore delle Georgiche, un poema sull'ambiente naturale e sulla vita dei campi, che l'imperatore farà leggere pubblicamente ad Atella, nei dintorni di Napoli, davanti alla Corte, dallo stesso poeta e dal suo amico Mecenate, consacrando la fama del poco più che quarantenne Virgilio come poeta di Stato. Ma se si hanno ampie e dettagliate notizie sulla sua vita pubblica, poco si conosce, di quella privata. L'idea e il progetto dell'Eneide nascono ad Atella, durante la lettura delle Georgiche e da un progetto politico di Augusto che si proponeva di unire il mondo allora conosciuto. Ma ben presto il poeta si rende conto che l'imperatore è un tiranno e poi Virgilio è un cantore della natura, umbratile, malinconico, che non sarebbe riuscito a dare vita e risalto all'uomo nuovo romano destinato a governare il mondo e soprattutto a cambiarlo. Così il suo sogno svanisce mentre lui scrive l'Eneide, constatando che gli uomini non cambiano e anche di fronte a un'altra evidenza; dai buoni sentimenti e dalle buone intenzioni nasce soltanto una mediocre poesia. Il romanzo sulla parola di Vassalli approda poi a un poeta trovatore, Jaufré Rudel, che è l'inventore della poesia della distanza vista come «amore lontano», un sentimento completamente riflesso nelle parole. Della sua vita si sa pochissimo; sull'iniziatore della poesia moderna si possono narrare favole come già fecero tra gli altri, Haine, Rostand e il nostro Carducci. La pagine di Rudel sono tra le più belle di questo libro fino all'improbabile morte del grande poeta trovatore. Anche su François Villon sappiamo poco. Scampato alla forca, lui non crede di essere un poeta: poeti sono i grand'uomini come il professore Philippe de Vitry che lui si è divertito a mettere in burla per i suoi amici studenti della Sorbona, traducendo, scrive Vassalli, nel linguaggio delle cose reali, il suo celebre elogio del «vivere in libertà». Villon ha scritto versi per ridere e le sue poesie dicono della vita scapestrata e delle malefatte che lo portarono perfino a uccidere un prete in una rissa.

I sette poeti di Vassalli vanno a formare una narrazione dalla quale viene fuori un solo personaggio: la parola. Così è per gli ultimi mesi, a Napoli, di Giacomo Leopardi, con l'amicizia di Antonio Ranieri che poi la critica calunniò come poté: Ranieri che lo sottrasse al «borgo» di Recanati dove nacque e che odiò sopra ogni altra cosa, che lo protesse e curò fino alla morte, in un'amicizia vera e disinteressata che non fu capita né dai suoi familiari né dalla critica del tempo capitanata da Niccolò Tommaseo.

L'ultimo «personaggio» del romanzo è Arthur Rimbaud, la cui «stagione all'inferno» durò poco più di due anni che furono quelli del suo sodalizio con Verlaine. L'unico dio del quale gli uomini possono avere certezza, dice Vassalli, è il dio della parola che ogni tanto sceglie i poeti come suoi interlocutori. Nel caso del «divino monello» il rapporto fu breve e traumatico; a Rimbaud la poesia verrà «donata» come un lampo, come una «follia» che coinciderà con la sanguinosa stagione dell'adolescenza. Poi il più grande nostri dei poeti «contemporanei» sparirà non scrivendo più un verso. La sua metamorfosi sarà totale e perfino incomprensibile, da «veggente» si trasformerà in «ottuso». Non saprà mai d'aver scritto poesie sublimi che definirà «disgustose», d'essere stato «scelto» dal dio della parola come, probabilmente, l'ultimo dei suoi interlocutori.