venerdì 28 maggio 2004

la Federazione europea di psicoanalisi...

una segnalazione di Alessio Ancillai



Corriere della Sera 28.5.04

ELZEVIRO L’uso pubblico della scienza

La storia sul lettino dello psicoanalista

di EMMA FATTORINI




Out reach, come raggiungere l'esterno. Con questa efficace definizione la Federazione europea di psicoanalisi esprime il bisogno di «arrivare» ai grandi problemi contemporanei. Nella sua storia la psicoanalisi ha preferito non esprimere giudizi morali, se non di fronte a eventi eccezionali: la Shoah, le guerre mondiali, l'atomica. E solo se incalzata dall’esterno, come quando fu chiesto a Freud un giudizio sulla guerra. Nella seconda metà del Novecento, poi, si è esposta solo in casi circoscritti. Quando, ad esempio, gli psicoanalisti argentini si chiesero se fosse legittimo prendere in analisi un torturatore e decisero per il no.

Uno statuto disciplinare fortemente ancorato ai propri codici interni, una necessaria autodifesa per non diventare l'ennesima ideologia del Novecento, l'orgogliosa rivendicazione di non avere altra morale se non il rispetto rigoroso del setting e del transfert, i pericoli di mettere la storia sul lettino: tutto ciò ha portato la psicoanalisi a diffidare saggiamente di un suo possibile «uso pubblico».

Ora, una rinnovata sensibilità sembra spingere la psicoanalisi verso l'esterno, fuori da quella sorta di autoreferenzialità che stava rischiando di opacizzarla, come se fosse ormai impossibile anche per questa disciplina non interrogarsi sul piano etico generale e non solo individuale.

In primo luogo la bioetica. Qui la psicoanalisi sembra ripartire dal cuore del problema: come è cambiata l'identità della persona, che cosa ne definisce la maturità? Essa non sarebbe più determinata dal grado di coerenza e misurata in termini di forza dell'Io. Nell'ultimo numero della rivista di studi psicoanalitici Richard e Piggle , dedicato al tema «Nascere nell’era delle biotecnologie», che è stata presentato nei giorni scorsi a Roma presso la Fondazione Olivetti, la psicoanalista Paola Marion ha parlato della «fine di uno schema identitario rigido» che deve essere elaborato in una nuova coscienza sociale.

Il pensiero cattolico vede in questa identità debole e plurima una delle cause del relativismo etico, mentre un certo pensiero filosofico la fonte di una predominanza della tecnica che ci sovrasta e non possiamo controllare. Da sponde diverse si vede nello sviluppo della tecnica un esito catastrofico.

Nuovi campi nell’ambito delle neuroscienze, con importanti scoperte circa le funzioni del cervello, vengono in soccorso della tecnica. Ad esempio a proposito delle afasie o dell'amnesia infantile. Se ne parla in un libro affascinante: La babele dell'inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica , Cortina editore. Scritto da tre studiosi che hanno vissuto nella loro biografia una sorta di plurilinguismo, emblematico della cultura cosmopolita della generazione intermedia di psicoanalisti: J. Amati Mehler, Simona Argentieri e Jorge Canestri.

Un lavoro pionieristico e originale, per la rara capacità di riunire dati derivati dalla esperienza clinica, su pazienti plurilingui, per approdare alle relazioni tra memoria, ricordo e conoscenza. Un intreccio che dalla struttura linguistica illumina i cambiamenti dell'inconscio.

I segni di un nuovo occhio analitico sul mondo si stanno moltiplicando anche ai livelli alti della ricerca. Per giugno la società di psicoanalisi tedesca, particolarmente sensibile al tema della violenza, ha organizzato una conferenza sui rapporti tra psicoanalisi e terrorismo. La International Psychoanalytic Library pubblica ora una interessante ricerca su Psychoanalytic Insights on Terror and Terrorism di Sverre Vorvien e Varnik D. Volkan.

Anche in Italia è uscito un libro sulla violenza: Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina (Manni editore). Si tratta del lavoro di quattro psicoterapeute di Bologna, che dal 1994 al 2000 hanno aiutato le loro colleghe bosniache nella cura dei sopravvissuti. A guerra finita, quando la pace arriva e la desolazione continua, non si sa più in cosa sperare e allora la depressione diventa totale, spiega una delle psicoanaliste, Maria Chiara Risoldi. Come intervenire, quali strumenti fornire a operatori, soldati in missione di pace, volontari? Non già una denuncia della psicoanalisi contro la guerra, ma un vero lavoro «sul campo», in cui il coinvolgimento professionale ha un preciso contenuto etico.

La violenza della guerra e i suoi traumi, già analizzati da Freud, sono stati oggetto di studi interessantissimi a proposito del primo conflitto mondiale. Le modifiche della personalità durante la logorante vita di trincea sono assurte a metafora dei cambiamenti delle strutture mentali nella modernità.

L' Unheimlich, tutto ciò che è strano, bizzarro, sconosciuto. Quella «terra di nessuno», tra una trincea e l'altra. Il nemico non più solo come l'altro minaccioso, ma come presenza invisibile e sconosciuta: il sapere che c'è, senza riuscire a identificarlo. Una sensazione di smarrimento di sé prima ancora che di paura reale. Quanto di questo disorientamento è contenuto oggi nell'imprevedibilità disarmante della violenza terrorista? Una pista di ricerca fondamentale oggi: la paura di un nemico che può essere dappertutto e non si vede mai.