giovedì 30 giugno 2005

MARCO BELLOCCHIOl'intervista su La Repubblica

REPUBBLICA DOMENICA, 26 GIUGNO 2005, pag. 48
L'INCONTRO
Bilanci artistici

MARCO BELLOCCHIO
di Paolo D'Agostini

«Non credo ai concetti di bene e di male, propri della cultura religiosa.
A proposito degli orrori che accadono nel mondo preferisco parlare di malattia mentale»

Quarant'anni di cinema, quarant'anni di film molto amati, molto stroncati, sempre molto discussi. Quarant'anni in cui il ribelle dei "Pugni in tasca" ha continuato a ribellarsi: anche contro il proprio successo e i cliché che ne derivavano. Ora, in occasione della Mostra di Pesaro che li ripercorre tutti, il regista accetta di mettersi in discussione e di raccontare le sue rivoluzioni

ROMA. SERGIO CASTELLITTO - protagonista condiviso con
La stella che non c'è di Gianni Amelio - se n'è volato in Cina dove il film si sta girando e Marco Bellocchio dovrà aspettarlo per completare le riprese di Il regista di matrimoni. Bellocchio è immerso in una fase del lavoro che tiene alla larga le distrazioni, troppo "dentro" il film in corso per parlarne. Ma la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (25 giugno-3 luglio) ripercorre l'intera sua carriera rendendo omaggio ai quarant'anni di cinema del ribelle dei Pugni in tasca che oggi, sessantaseienne, soprattutto dopo L'ora di religione, sta vivendo una rinnovata stagione di giovinezza creativa e di consensi. E questo lo ha convinto ad accettare una conversazione, diciamo, retrospettiva.
Ma usa con fermezza l'occasione per difendere "tutta" la sua biografia artistica. In altre parole, Bellocchio non ne può più delle sottovalutazioni o delle ironie dei detrattori su quella parte della sua produzione che più direttamente è stata influenzata dal rapporto con la scuola dello psichiatra e psicanalista Massimo Fagioli e dall'esperienza della "analisi collettiva" propria di quella scuola: la produzione che si situa tra gli anni Ottanta e il ‘94 di
Il sogno della farfalla, quella che culmina nella collaborazione di Fagioli alla costruzione dei film e nella firma dell'analista affiancata a quella del regista sotto le sceneggiature. È noto, infatti, che la comunità critica ha diffidato di quell'incontro artistico. E che il pubblico ne è stato disorientato, forse allontanato. Ma che cosa è successo, da La balia in poi e all'indomani di quella stagione controversa, che ha donato al suo cinema una nuova "accessibilità" - perché questo è un fatto, fuori da ogni polemica - e il recupero di un pubblico giovanile che si era disperso?
Bellocchio non rifiuta, spiega. «La mia vita non prescinde dal mio lavoro e viceversa. Le mie immagini provengono dalla mia esperienza. C'è un film che divide il mio percorso in due: è
Il diavolo in corpo, di vent´anni fa. È stato una rivoluzione per me. Quella novità si è sviluppata poi attraverso altre ricerche e altri esperimenti e da lì, è vero, il mio lavoro è diventato più "accessibile". Ma non ho mai smesso di essere un ribelle. Neanche con L'ora di religione: ribellione alla cultura assoggettata all'autorità della Chiesa. I giovani (si dice: se non si è ribelli a vent'anni... Poi purtroppo molti se lo dimenticano) amano il mio atteggiamento nei confronti del potere culturale istituzionale. Nessun mio film è venuto meno a questo principio, ma negli ultimi forse la mia maturità ha trovato una comunicabilità più diretta».
Ed eccoci al punto, per chi si sentisse ancora autorizzato a pensare che la felicità dell'ultima stagione nasce dal distacco dalla tutela (direbbero i detrattori) fagioliana. «Non c'è stata una rottura da parte mia dopo il periodo di "collaborazione fagioliana" compiuto con
Il sogno della farfalla: c'è continuità, pur nella separazione artistica da Fagioli, per quel che riguarda le mie convinzioni su quella ricerca che non solo non rinnego ma seguo ancora e condivido».
Ma il punto non è quello di ipotizzare una rinuncia, da parte dell'ultimo Bellocchio più comunicativo e più sereno, alla vocazione di ribelle per sempre. Il punto è confrontare la percezione che si ha della sua storia da fuori con quella che lui ha di se stesso. E lui spiega: «Nella tradizione artistica spesso ci sono inizi folgoranti e poi un declino lento ma inesorabile. È come se nei quarant'anni successivi a
I pugni in tasca, che fu un film di ribellione nichilista, io mi sia ribellato al successo di quella ribellione e all'identità che mi aveva dato. Certamente molti ancora mi definiscono "l'autore dei Pugni in tasca". Non ne disconosco la paternità, ma non mi è bastato. Tutto il mio lavoro successivo ha sempre evitato la ripetizione di quell'esperienza. E Il diavolo in corpo è stata una nuova ribellione, un nuovo rischio che per qualcuno è stato un suicidio, ma con il tempo si è rivelato una vittoria. Poi, dopo altri film più aristocratici come La visione del Sabba, La condanna e Il sogno della farfalla, sono arrivati film più "popolari" ma quella "rinascita", rappresentata appunto da Il diavolo in corpo, non l´ho mai annullata».
È piuttosto evidente che Marco Bellocchio gradirebbe un riesame di quella parte del suo cinema che è piaciuta di meno. «Ho chiesto al curatore della retrospettiva di Pesaro, Adriano Aprà, di inserire nel volume pubblicato per l'occasione un saggio dello psichiatra Gabriele Cavaggioni che affronta per la prima volta il rapporto tra il mio lavoro di regista e la mia vita, la mia esperienza nell'analisi collettiva, la mia adesione alla teoria fagioliana. Quel periodo viene spesso "saltato". Ho cominciato l'analisi collettiva nel ‘77, poi ci sono state interruzioni ma il mio rapporto sia pur conflittuale, dialettico o difficile, ha lasciato il segno. Ora in una riflessione sul mio lavoro è indubbio che questa mia scelta debba essere considerata: il mio rapporto con la psichiatria e con la psicanalisi».
A partire dal trentennale del suo storico documentario "basagliano"
Matti da slegare, il festival Anteprima di Bellaria ha da poco celebrato il tema "cinema e psichiatria". Gli sarà capitato spesso, a Bellocchio, di essere coinvolto in convegni psichiatrici o psicanalitici ma c'è da scommettere che non è questo il tipo di attenzione da lui richiesta. «L'ora di religione è stato discusso in un convegno freudiano. Suppongo sia stato interpretato in un modo che non condivido, ma è importante che le idee e le immagini circolino. Io ho capito da molto tempo che la mia identità è quella di regista cinematografico. Mi interesso e mi appassiono alle idee di sanità e di malattia mentale, non credo al male né al bene, sono radicalmente ateo, ma questo riguarda essenzialmente la mia sfera privata».
Ecco un utilissimo snodo che Bellocchio offre prima che una domanda lo solleciti. È immaginabile che sia stato, per uno spirito come il suo, motivo di interesse la vicenda del Papa, la partecipazione di massa, la richiesta di "santità subito". Non si fa pregare: «Il giorno dei funerali mi ha colpito che su tutti i canali televisivi ci fosse la stessa cosa. Nessuna attenzione verso chi, pur avendo grande rispetto per il Papa, volesse veder riconosciuta la libertà di guardare un altro programma. E poi il referendum (io ho votato quattro sì): formalmente la Chiesa non infrange la legge suggerendo di astenersi, ma nella sostanza è un comando. Un soprassalto di autonomia degli italiani sarebbe stato una grande manifestazione di libertà».
Già che ci siamo, un salto indietro:
L'ora di religione è stato inteso come una ricerca di moralità o spiritualità "autentiche" in reazione al conformismo e all'opportunismo. La cosa non lo lusinga e Bellocchio non fa sconti: «È quanto ci hanno trovato molti cattolici. I quali cercano la conversione del non credente: anche soltanto nelle domande che il non credente si pone, nel rifiuto dell'ipocrisia della Chiesa cattolica. Ma io, da quando adolescente ho perso la fede, credo soltanto a questo mondo, alla mia vita breve che cerco di vivere nel migliore dei modi. C'è spesso purtroppo nell'ateo una "confusione" religiosa nel momento in cui usa dei concetti propri della cultura religiosa: bene e male. Ma a proposito degli orrori che accadono nel mondo io preferisco parlare di malattia mentale. Concetto che anche dalla cultura laica non è accettato, secondo l'idea che siamo un po' tutti matti».
Torniamo allo "spettacolo" dell'adesione giovanile di massa all'addio al Papa. Tra i risultati della cultura ribelle di cui Bellocchio è stato portabandiera ci fu l'allontanamento dei giovani dalla Chiesa e dalla religione. Poi che è successo? «Essendo venute a mancare risposte dall'utopia, dal progetto di un mondo sotto l'insegna di principi marxisti, che ha influenzato intere generazioni me compreso, la Chiesa cattolica e la religione sono tornate ad essere l'unico riferimento cui rivolgere entusiasmi ed energie. La politica non risponde più, la sinistra è timida. La Chiesa non solo propone la salvezza nell'aldilà ma anche l'assistere, il prendersi cura, opere di carità non solo benemerite ma necessarie. Senza però mettere in discussione le istituzioni, i principi. Una possibile risposta radicalmente laica trova la sinistra del tutto indifferente».
Vediamo, prendendola da un altro versante, se si riesce ad avere ulteriore prova della sua fedeltà a se stesso. Domanda: riconosce il peso dell'autobiografia nel suo percorso artistico? «Sì, purché non la si voglia relegare all'adolescenza. Le mie immagini sono la mia vita, tutta». Domanda: riconoscerà un particolare accanimento contro la famiglia? «Senz'altro, ma visto lungo tutto l'arco del mio cinema e della mia vita». Domanda: mai pensato che reiterare il motivo della necessità di "uccidere" i genitori le si potesse ritorcere contro, da genitore a sua volta? «Sono contrario all'assassinio del padre e della madre non per paura che i miei figli mi possano ammazzare. No, è pura follia, che non porta a nessuna liberazione». Domanda: c'entra la consapevolezza adulta di non essere migliori di chi ci ha preceduti? «Questo sarebbe un pensiero di rassegnazione: quando si hanno vent'anni si è rivoluzionari, quando si è maturi si ammette che i genitori non avevano tutti i torti. Ho dedicato
Buongiorno notte a mio padre, ma continuo a considerarmi diverso da lui. Lui era un conservatore che ha accettato i valori della società in cui viveva, io li ho rifiutati».
Chissà quanto di tutto questo c'è ancora in
Il regista di matrimoni? «L'attore, che è lo stesso, potrebbe far pensare a una continuazione de L'ora di religione», dice. «Qui è un regista che a un certo punto abbandona una situazione cui non crede più (sta girando un film dai Promessi sposi). Capita in Sicilia dove incontra uno che fa i filmini dei matrimoni, capisce che non gliene frega più niente del suo lavoro e che la sua avventura umana viene prima dell'essere regista. Capisce che deve impedire un matrimonio ("questo matrimonio non s´ha da fare") e il "suicidio" di una ragazza che», sottolinea perché non si pensi a un sordo anticlericalismo, «avverrebbe tanto se il matrimonio venisse celebrato in chiesa quanto in municipio». Per ora è tutto. In attesa di vedere e potergli chiedere se quel regista alle prese con più urgenti priorità è lui.

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Corriere Adriatico 29.6.05
Franca Mancini ospita la presentazione
“Bellocchio” in Galleria


PESARO - Venerdì dalle ore 19 alle 20.30 Franca Mancini, presidente dell'Associazione Culturale " Il Teatro degli Artisti ", con il Circolo della Stampa e la sezione Marche dell'Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d'Azienda, invitano alla presentazione dei volumi

Marco Bellocchio, il cinema e i film
e Bellocchiana

tenuta da Adriano Aprà, direttore artistico dell'evento, alla presenza di Marco Bellocchio, di Giovanni Spagnoletti Direttore artistico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Bruno Torre presidente Comitato scientifico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e Stefano Caselli curatore della mostra.
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